Questo libro comincia dal punto in cui di solito si concludono le favole. «Finalmente, dopo il grande bagno di sangue della guerra, il mondo era realmente libero da ogni terrore innaturale: fame, prigionia, torture, stermini di massa. Oggettivamente il sapere scientifico e le leggi internazionali avevano l’opportunità, lungamente attesa, di trasformare la terra in un posto nel complesso piacevole e confortevole in cui stare ad affrontare il Giorno del Giudizio». L’utopia ingegneristica positivista, alfine, ha prevalso, rendendo possibile l’istituzione in America di una sorta di paradiso terrestre tecnologico in cui non sono più le piante a produrre spontaneamente i loro frutti, bensì le macchine a fare tutto ciò che prima l’uomo poteva ottenere solo col sudore della sua fronte. «Dove gli uomini si erano scagliati un tempo l’uno contro l’altro urlanti, oltre a combattere sino all’ultimo respiro con la natura, s’udiva il ronzio, il brusio e il tintinnio delle macchine, che producevano componenti per carrozzine e tappi di bottiglia, motociclette e frigoriferi, televisori e tricicli: i frutti della pace». Non si potrebbe sperare di meglio, se non fosse che a scrivere queste righe è Kurt Vonnegut – e sebbene nel 1952, quando pubblicò questo suo romanzo d’esordio, non fosse ancora davvero quel Kurt Vonnegut che amiamo e conosciamo (soprattutto nello stile, non ancora apertamente anticonvenzionale) lo era già comunque quanto basta perché possiamo presagire che probabilmente non è tutto oro quel che luccica e che da qualche parte, lì in quel giardino futurista che trasfigura l’incipiente società del benessere post-bellica, stia già strisciando il solito serpente guastafeste.
Per aiutarci a mettere le cose nella giusta prospettiva, Vonnegut riprende, come spesso gli capita, la lezione delle Lettere persiane, registrando le impressioni che sulla società americana va via via maturando lo scià del Bharatpur, leader politico e spirituale di una imprecisata nazione orientale, uscito fuori dal suo palazzo arroccato fra i monti per venire a capire che cosa possa imparare il suo popolo dal paese più potente del mondo. É lui, ad esempio, a far notare al suo esterrefatto accompagnatore/traduttore (e ai lettori immersi in pieno maccartismo) che, a ben vedere, una società in cui la produzione è coordinata attraverso l’automazione per eliminare la competizione e lo spreco è semplicemente una variante di socialismo, giacché, quando è totalmente pianificato, anche il consumismo si rovescia in comunismo, sia pure di tipo non egualitario. Rientra fra le distorsioni paradossali del sistema anche la frustrazione dello scrittore di altissimo talento il cui libro non viene pubblicato perché «di ventisette pagine più lungo della lunghezza massima; il suo quoziente di leggibilità era di 26,3 (…) e nessun club toccherà mai nulla con un quoziente di leggibilità superiore a 17» - dove i “club” non sono altro che gruppi editoriali settoriali che, per rientrare nei costi di produzione, devono avere almeno mezzo milione di membri e offrire loro esattamente quello che questi ultimi si aspettano e che viene costantemente monitorato attraverso una fitta serie di sondaggi («santo cielo, pubblicare un libro che non piace alla gente farebbe fallire un club, così! (…) Riescono a offrire la cultura a buon mercato solo sapendo in anticipo che cosa vuole la gente e in quali quantità. E la gente ottiene esattamente ciò che vuole, sino al colore della copertina»). L’industria culturale funzionava già un po’ così allora, ma la componente satirica, pur presente in abbondanza, non mi pare la cifra dominante del testo, come non lo è quella puramente predittiva, benché si sia sempre tentati di giudicare i racconti distopici sulla base di quanto sarebbero riusciti ad anticipare del loro futuro, e benché lo stesso autore, in una sorta di microprefazione, ci metta su questa strada sostenendo che «questo libro non parla di ciò che è ma di ciò che potrebbe essere. I personaggi sono modellati su persone non ancora nate o forse attualmente in fasce».
A me pare piuttosto che Vonnegut provi a sviluppare in forma narrativa, e a problematizzare, una sorta di doppia tesi filosofica. La prima è che un mondo in cui la produzione fosse pressoché interamente demandata alle macchine (oggi noi diremmo agli algoritmi, perché ci pensiamo derealizzati, ma il concetto è lo stesso) è un mondo che priverebbe gli uomini di qualsiasi speranza di felicità. Gli uomini, infatti, «per natura, secondo ogni evidenza, non riescono a essere felici se non si impegnano in attività che li fanno sentire utili», poiché il «sentirsi utili e necessari» è «la base dell’amor proprio» - mentre si smarrisce letteralmente la propria identità quando si partecipa, in qualche modo, all’economia globale, ma senza capire bene come. Faccio dunque sono – potremmo dire – e se non faccio più nulla, perché è una macchina a fare il lavoro per me, cosa dunque sono? «L’uomo è sopravvissuto ad Armageddon allo scopo di entrare nell’Eden della pace perpetua, con l’unico risultato di scoprire che tutto ciò che aveva sperato di godervi, l’orgoglio, la dignità, il rispetto di se stessi, un lavoro degno di essere fatto, è stato condannato come inadatto agli esseri umani». Tuttavia, sebbene questo testo sia stato tradotto una prima volta in italiano (nel 1979) con il titolo Distruggete le macchine, non siamo di fronte a una geremiade neoluddista (l’ironia di Vonnegut, anzi, colpisce anche le velleità naturistiche di chi a un certo punto vorrebbe scendere dalla giostra). Il vero nocciolo della questione – la seconda tesi cui accennavo – è che, proprio perché faber prima che sapiens, l’uomo pare strutturalmente condannato, per superare i propri limiti, a costruirsi strumenti che a lungo andare finiranno per rendere superflua la sua stessa presenza sulla terra. Sembra, cioè, che il destino della specie umana sia quello, del tutto paradossale anche in termini di selezione naturale, di lavorare per mettersi da se stessa in panchina, ovvero che l’uomo si trovi sulla terra «per creare delle immagini di se stesso più durevoli ed efficienti e, quindi, per eliminare qualsiasi giustificazione della propria esistenza nel corso del tempo» (la conclusione del romanzo, da questo punto di vista, è eloquente, come lascio scoprire a chi lo vorrà leggere).
Il senso dell’essere umano sarebbe dunque quello di essere soppiantato – e ci potrebbe anche stare, se non fosse che saremmo noi stessi a creare le condizioni perché ciò avvenga, tra l’altro non attraverso un’apocalittica autodistruzione, bensì al termine di un pacifico, progressivo e inarrestabile raffinamento delle nostre conoscenze – pardon, del nostro know how. Insomma, siamo una corda tesa tra la scimmia e il tostapane, almeno fin quando penseremo a noi stessi sul modello delle macchine che noi stessi costruiamo. Perciò, quando un personaggio si chiede «a cosa servono le persone?», si capisce che Vonnegut, che in fondo è un pessimista, vorrebbe farci rispondere, con lui, “in fin dei conti, a niente”. Ma poiché, in modo del tutto irregolare, ancor più in fondo, è pure un umanista, forse ce lo fa dire solo per renderci consapevoli che un’adeguata cura dell’imperfezione, e non il mito dell’efficienza, è l'unica cosa che ci può salvare.
(finito il 18 luglio 2021)
Ho parlato di
Piano meccanico
(Mondadori 2000)
(Urania 1393)
Trad. di A. Roffeni
362 pp. | 6.900 lire
(ed. or.: Player Piano, 1952)
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