Se non aveste mai sentito parlare di Juan Ginés de Sepulveda, potete immaginarvelo come un ospite fisso dei talk-show televisivi in quota teo-con, uno di quelli invitati apposta per soffocare con argomentazioni dotte, sottili e spesso provocatorie il facile sentimentalismo dei soliti buonisti a proposito dell'invasione degli immigrati islamici (che ne so? Una specie di Luttwak). Dato però che questo Sepulveda visse nel XVI secolo, quando gli invasori eravamo noi, il ruolo che si ritagliò allora fu ovviamente quello di apologeta della conquista spagnola delle Indie (non c’è da stupirsi: ancora oggi Salvini si fa i selfie davanti ai poster dei pellerossa come se niente fosse). Lo fece, tra l’altro, in un contesto particolarmente solenne, quello della disputa appositamente convocata a Valladolid nel 1550 dall’imperatore Carlo, tormentato dal sospetto che la sua anima di scrupoloso principe cristiano potesse essere gravata da colpa mortale per tutto quello che era stato combinato in suo nome oltreoceano.
Per l'occasione, Sepulveda rimise a nuovo le tesi espresse in un testo a cui era stata fino a quel momento vietata la pubblicazione, il Democrates alter. L'idea per sommi capi era questa. I re di Spagna si erano imbarcati nell'avventura americana su mandato papale, con lo scopo dichiarato di portare il Vangelo nel Nuovo Mondo – e tanto sarebbe dovuto bastare a garantire loro che nessun altro sovrano si intromettesse nella faccenda. Ma poiché l'autorevolezza papale, in tempi di pasquinate e sacchi di Roma, non pareva sufficientemente forte, parve utile escogitare altre ragioni, basate su principi diversi e più solidi, per garantire la legittimità della conquista. É in fondo lo stesso problema che si era posto anche Vitoria a Salamanca, quando aveva sostenuto che l'unica giustificazione possibile della guerra contro gli indios sarebbe potuta essere l'eventuale negazione, da parte loro, di un diritto naturale fondamentale degli uomini, quale la libera circolazione delle persone o delle merci. Sepulveda, invece, da umanista qual era, trovò la sua soluzione nelle prime pagine di quella Politica di Aristotele da lui stesso ritradotta in buon latino, e precisamente in quel passo sconcertante in cui si parla espressamente di “guerra giusta” per indicare una particolare forma di caccia che ha per oggetto gli uomini naturalmente inferiori e perciò altrettanto naturalmente destinati a servire i loro razziatori come schiavi. E chi più degli indios scoperti da Colombo poteva corrispondere a questa definizione? Vanno in giro nudi, non hanno istituzioni stabili, vivono in villaggi di capanne. Quanto a Incas e Aztechi, avranno anche parvenze di strutture statali e discreti gusti architettonici, ma gli orrendi sacrifici umani con cui condiscono le loro liturgie lasciano pochi dubbi sula loro natura semiferina. Tutto ciò è contrario alla legge naturale che Dio ha scritto nel nostro cuore – e che per sicurezza ha poi dettato anche nella Bibbia: violandola, gli indigeni sono rei di un'offesa a Dio che va punita e risarcita (e proprio per questo il papa ha piena giurisdizione in materia e la può delegare ai sovrani). Non solo – e qui sta il tentativo di scacco al re: distogliendoli con la forza dalle loro pratiche idolatriche, si compie nei loro confronti una vera opera di misericordia cristiana, perché li si salva da una destino di dannazione eterna. Suvvia, come si può accusare di violenza chi trattiene energicamente un uomo perché non finisca in un burrone? Quelli che lo fanno, quei profeti disarmati che vorrebbero presentarsi come pecore in mezzo ai lupi e provano orrore per ogni goccia di sangue versato, semplicemente dimostrano di non amare sul serio quegli indios che tanto coccolano, perché senza un intervento diretto costoro, da soli, non saranno mai in grado di tirarsi fuori dalle tenebre in cui sguazzano. Lo dice anche il vangelo: costringili a entrare! Bei pacifisti, quelli, che per non sporcarsi le manine fanno invece morire migliaia di innocenti negando loro un aiuto in attesa di una conversione pacifica che chissà se e quando mai arriverà!
Animato da un sincero risentimento verso l'irenismo erasmiano (se il cristianesimo fosse davvero una folle religione di pace, avrebbe allora ragione Machiavelli nel dire che i cristiani sono imbelli rispetto agli antichi e virtuosi pagani), Sepulveda si ritrova a sostenere questo complesso di idee di fronte a Bartolomé de Las Casas, che a Valladolid assume invece le parti di difensore degli indios. La cosa forse più interessante è che questi due sfidanti sono, com’è ovvio, entrambi figli del loro tempo e, cosa un po’ meno ovvia, ragionano entrambi a partire dalle stesse autorità di riferimento. Anzi, dei due forse il più moderno è proprio Sepulveda, con il suo richiamo al vero Aristotele anziché a quello battezzato da Tommaso, e con la sua spregiudicata logica laica di potenza mondana («nel corso del Cinquecento (…) si poteva confutare Machiavelli e nello stesso tempo recepire del suo pensiero»). Si tratta, però, di una modernità solo apparente. Per come la vedo io, la scoperta del Nuovo Mondo pose sul piano giuridico e morale lo stesso genere di sconcertanti problemi che la rivoluzione copernicana poneva in campo astronomico: esploso l’orizzonte chiuso medievale, l’ordine che la scolastica aveva ingegnosamente cercato di edificare non tiene più e affiora urgentemente l’esigenza di ricostruire da capo un ordine nuovo. La mossa di Sepulveda consiste nel sovrapporre progressivamente l’idea di umanità a quella di cristianità, in modo da far sempre più coincidere il concetto di evangelizzazione con quello di civilizzazione, inaugurando uno schema di pensiero che sarà ancora operante quando Kipling parlerà a fine Ottocento del fardello dell’uomo bianco. In questo modo cambiano i totem, non la sostanza. La natura diventa il termine di riferimento di un ordine già dato, valido anche se Dio non ci fosse (che è poi un po' la stessa logica capziosa che usava Ruini con il suo “progetto culturale”). L’umano comune resta gerarchicamente strutturato e il diritto naturale può tranquillamente girare armato. Sebbene sotto una patina terminologica depurata di riferimenti religiosi, la politica resta ontoteologica. Un solo re, un solo battesimo, una sola fede, una sola cultura.
L'alternativa sembrerebbe essere il riconoscimento di un insuperabile relativismo, che però – su basi opposte, scettiche – rischierebbe di compromettere la possibilità di tessere una qualche forma di orizzonte comune per tutta l’umanità, che non è una perdita da poco. Las Casas cerca di aprire una terza via, provando a porsi espressamente dal punto di vista dei nativi, «il che mostra che una dottrina universalistica dei diritti umani non comporta necessariamente la giustificazione di un “intervento umanitario” armato per difenderli, ma può anche sopportare la tolleranza e il riconoscimento dell’alterità». In realtà anche per lui si dà un’oggettiva superiorità del cristianesimo, e ciò che occorrerebbe fare sarebbe accompagnare passo passo gli americani perché raggiungano il livello di civiltà già acquisito dagli europei (i quali, anticamente, non erano meno barbari di questi moderni selvaggi), ma poiché il solo modo per annunciare la vera fede è quello non-violento praticato dallo stesso Gesù, finché lo si predica a schioppettate, l'unica guerra giusta è quella che gli indigeni intraprendono per difendersi da quella che è a tutti gli effetti un'illecita aggressione, materiale e simbolica, nei loro confronti. Non è poco, per un confratello e connazionale di Torquemada. Da un lato c'è una concezione del progresso che non fa sconti, dall'altra una visione della storia dalla parte delle vittime, per cui nessun fine giustifica i mezzi, nessun oggetto può schiacciare il soggetto. Da un lato una concezione istituzionale della salvezza, vincolata al battesimo terreno; dall’altra un affidamento alla volontà divina del destino ultraterreno di chi, spesso per colpa dei cristiani stessi, non ha ancora conosciuto Cristo. Va beh, sì lo dico, da una parte Hegel, dall’altra Benjamin. L’Occidente è entrambe le cose.
Questo libro a più voci, che raccoglie i risultati di un convegno tenutosi nel 2010, cerca appunto di sviscerare tale intricato complesso di questioni filosofiche e giuridiche, con un occhio molto attento alla nostra contemporaneità e alle discussioni intorno alla legittimazione fornita per gli interventi umanitari del recente passato, dal Kosovo all’Afghanistan. Se siamo ancora lì a parlarne perché in fondo non abbiamo ancora sciolto il nodo di come conciliare universalismo e pluralismo.
Ps: Alla fine Sepulveda uscì sconfitto a Valladolid e le sue opere rimasero inedite. Las Casas vinse, ma la conquista, di fatto, non si fermò – anzi. Il che conferma una volta di più che il sedicente “potere dei più buoni” è solo sulla carta.
(finito il 13 agosto 2018)
Ho parlato di
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Marco Geuna (a cura di)
Guerra giusta e schiavitù naturale.
Juan Ginés de Sepulveda e il dibattito sulla Conquista
(Biblioteca Francescana, 2015)
320 pp. | 24 €
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