Il nome di Bartolomé de Las Casas è universalmente legato alla sua attività di sostegno (ma si potrebbe parlare di autentico lobbysmo) alla causa persa degli indios presso la corte spagnola di Carlo V e poi di Filippo II. Ancor prima che difensore degli indigeni, qualora mai lo canonizzassero, credo però sarebbe giusto considerarlo patrono di tutti quelli che, rovesciato il catino di Pilato, scelgono di sporcarsi le mani per una giusta causa, e poiché se le sporcano alle volte sbagliano, e poiché talvolta sbagliano devono poi sorbirsi, oltre allo scacco della sconfitta, anche le rimostranze indignate dei leoni da tastiera che non muovono mezza chiappa, ma il ditino – quello sì – lo puntano volentieri non appena scorgono una macchiolina sulla veste di chi, con la sua semplice attività, ha smascherato la loro complice ignavia. Il guaio di un’educazione nazionale affidata alle fiction Rai è che non siamo abituati a eroi che non siano stucchevoli santini e finiamo così per confondere la complessità con la corruzione, sventolando la bandierina dell’honestà. Questo libro di Luca Baccelli – una sorta di profilo intellettuale di Las Casas – ha il merito di ricordarci che sì, d’accordo, questo frate domenicano parla tantissimo degli indios e lascia poco parlare loro, persegue un progetto di proselitismo, sia pure non violento, tuttavia coerente con una concezione esclusiva della verità, ha pronunciato parole avventate sugli africani e si è imbarcato in progetti avventurosi di colonizzazione (entrambe cose di cui poi si è pentito), ma che insomma, non si può pretendere da lui che «fosse un raffinato esponente dei cultural studies o un disincantato decostruzionista; decisivo è piuttosto valutare il significato politico della sua operazione interpretativa», perché su questo piano si possono fare delle interessanti scoperte (e pazienza se il suo discorso è stato strumentalizzato dai nemici della Spagna per screditarne l’espansione, quando il loro colonialismo non era affatto migliore).
Qual è infatti questo significato politico? Per Baccelli, anche se Las Casas, come molti dei protagonisti che fecero la modernità (come Colombo, come Lutero), resta di base un uomo del Medioevo, uno che segue – da teorico – gli argomenti di Tommaso senza sognarsi di scostarsene e che si esprime spesso – da vescovo – con gli stessi toni infervorati che i papi medievali riservavano ai sovrani violenti, quando promette l’inferno ai colonizzatori per i loro misfatti, è pur sempre «fra i primi a svelare quella moderna attitudine a nascondere lo sfruttamento estremo, fino alla riduzione in schiavitù de facto sotto la superficie della libertà giuridica, che sarà sempre più perfezionata nei modi di produzione capitalistici». Vissuto in un’epoca cruciale, alle soglie dell’età moderna, Las Casas prefigura, cioè, «quella straordinaria capacità di conciliare libertà ed uguaglianza sul piano giuridico con servitù e oppressione sul piano economico e sociale, a cominciare dai luoghi del lavoro, che segnerà la modernità europea. E intreccia la critica dello sfruttamento del lavoro con quella della violenza simbolico-culturale». Fenomenologo acuto del genocidio ben prima dei lager novecenteschi, sta in un certo senso lì a dirci, ovviamente al di là delle sue stesse intenzioni, che gli orrori del XX secolo non sono una imprevedibile deviazione dal luminoso progresso della nostra civiltà, ma la conseguente prosecuzione di un’attitudine cominciata con la sistematica distruzione dell’altro maturata nelle Indie e che dovremmo perciò cominciare a considerare i campi di sterminio come l’evoluzione delle piantagioni caraibiche di canna da zucchero e delle miniere di argento messicane. Se lo dimentichiamo, quando parliamo di Rinascimento, di Rivoluzione Scientifica, di Rivoluzione Industriale, quando ascoltiamo le accorate parole dei filosofi moderni, specie quelli che parlano di libertà, ci accontentiamo solo di una metà del racconto, rimuovendone una porzione decisiva, quella che concretamente veniva prodotta oltre le colonne d’Ercole, nei tanti cuori di tenebra lontani da occhi impegnati ad ammirare forse un po’ troppo i cieli stellati sopra di noi per rendersi conto che la legge morale non si avventurava oltre l’Atlantico (già le Canarie erano zona franca: ne sanno qualcosa i Guanci).
Insomma, proprio mentre l’Europa cominciava quel decisivo processo di sviluppo che l’avrebbe portata a dominare il mondo, Las Casas fu capace, con tutti i suoi limiti, «di cogliere in nuce alcuni elementi della sua dialettica perversa e di elaborare un embrione di “teoria critica”. Ai primordi del colonialismo egli apre al pensiero teorico-politico europeo una via differente rispetto a quelle che porteranno all’elaborazione delle “mitologie bianche” e alle giustificazioni teologiche, filosofiche e pseudoscientifiche del dominio imperiale, dalle narrazioni sul “fardello dell’uomo bianco” alla “guerra umanitaria”. Il suo lavoro teorico indica uno dei sentieri interrotti di un’altra modernità: sconfitta e tuttavia tale da offrire ancora oggi feconde prospettive critiche. La sua opera di intellettuale militante – a sua volta eccentrica rispetto alle genealogie più accreditate di questa figura – può così contribuire alla problematizzazione dell’immagine standard del pensiero politico occidentale». Lo ripeto perché ci tengo: l’Occidente è una cosa e l’altra insieme, e secondo me sbaglia tanto chi lo idolatra senza riserve, quanto chi lo si demonizza senza possibilità di appello. Uno dei motivi che rendono interessante anche sul piano teoretico la storia della filosofia è appunto provare a riaccendere quelle potenzialità rimaste inespresse nella nostra storia che possono aiutarci a misurarci anche con il presente, i controcanti e le dissonanze che interrompono l’apparente monologo. E allora anche «il realismo di Las Casas», lungi dall’essere un fattore di debolezza, «è un altro elemento della sua rilevanza teorica: rappresenta uno dei primi tentativi di uscire da quel dilemma fra utopismo impotente e ragion di Stato conservatrice che segna tanta parte del pensiero politico moderno». Tentativo che non si vede perché non valga la pena di rilanciare.
Ora, l’ultima cosa che voglio fare è dedicarmi a quella pratica stucchevole di esibire le figurine dei buoni per dire che sono dei “nostri”. Però trovo interessante che lo stesso Baccelli metta in evidenza come questo sforzo di riflessione da parte di Las Casas maturi a partire da un’assunzione del Vangelo non quale oppiaceo, ma come stimolante. «L’alterità terrorizza»: questo l’incipit del volume. In teoria il cristianesimo, che pensa in aramaico e parla in greco, avrebbe dovuto riconoscere sin dal principio l’ineludibilità dell’inculturazione e valorizzarne le possibilità positive, col suo monoteismo bastardo in cui neppure Dio sta al di fuori di una relazione – e in parte lo fece; ma non appena cominciò a ragionare in latino, ha ricondotto questa eccedenza a un più rassicurante dispositivo di ripetizione dell’identico, applicato in modo spericolato proprio in quelle regioni che, corrispondendo alle parti ancora bianche delle mappe, si ritenne fossero lì apposta per farsi soggiogare. Come lo scriba della parabola, invece, Las Casas “estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”, andando incontro a una vita di continue “conversioni” a partire dalle sollecitazioni che il Nuovo Mondo, coi suoi mille paradossi, gli poneva sotto gli occhi. Qualcun altro, partito da quelle stesse terre, va ripetendo da un po’ di tempo che “la realtà è superiore all’idea”, opponendosi con parole miti ma forti al grande Leviatano, e a molti pare che stia rivoltando tutto ciò che è sacro. Segno che non abbiamo ancora capito in che cosa davvero crediamo.
(finito il 14 settembre 2018)
Ho parlato di
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Luca Baccelli
Bartolomé de Las Casas.
La conquista senza fondamento
(Feltrinelli, 2016)
282 pp. | 25 €
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