Se nella mia estate c’è una spiagga (anche fluviale), su quella spiaggia con me c’è sempre un’Urania. Questo risale agli anni ’30, ma è scritto al di qua dell’Atlantico e guarda a Wells, direi, più che ai coevi pulp americani. In un futuro postapocalittico e postglaciale, in cui sacche regredite di umanità vivono ancora a distanze quasi incolmabili, in quella che un tempo era stata la Russia il socialismo realizzato si è trasformato in religione, i suoi ispiratori sono venerati come santi e quel che resta delle antiche officine è diventata l’ossatura di lugubri cattedrali. Oratores e bellatores si chiamano ora Padri e Spade, ma sempre quelli sono, mentre i laboratores sono persino peggio: un popolo bovino in cui è quasi sopita la scintilla dell’intelligenza. Su questa base satirica, il colpo d’ala fantascientifico. Dai confini comincia ad arrivare una fiumana di migranti, a cui si tagliano i ponti e si chiudono le porte perché hanno le facce gialle e parlano lingue strane (no, non è questa la parte fantascientifica). Il problema è ciò da cui fuggono: grossi sauri coperti di scaglie, che hanno ben poco degli astuti velociraptor di Spielberg e appaiono persino giocosi nei loro movimenti. Ma che, con la divina indifferenza della vitalità naturale, avanzano e reclamano spazio. Costringendo gli ultimi smarriti esemplari di quella specie vorace e invadente che è stata homo sapiens a porsi per la prima volta la domanda cruciale: «perchè non dovrebbe giungere qualche altra creatura a prendere il posto degli uomini in questo mondo che abbiamo ereditato e che non sappiamo dominare? Una creatura che non vive come noi, diversa; il nostro successore e distruttore?». Il resto è cappa e spada.
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