venerdì 6 novembre 2020

La fanta-scienza di H. G. Wells

Se è vero che non possono avere propriamente un solo inventore, perché richiedono un contesto entro cui maturare e tempi lunghi per stabilizzarsi, è però altrettanto vero che nel corso della loro evoluzione i linguaggi passano di tanto in tanto al vaglio di geni capaci di codificarne in modo così potente certe regole da condizionare poi il modo di esprimersi di tutti quelli che proveranno a utilizzarli dopo di loro. É questo il meno che si possa riconoscere a un autore come Herbert George Wells, senza correre il rischio di scivolare nella melmosa diatriba su quali debbano essere considerati gli autentici padri della fantascienza. Infatti, con la cinquina di romanzi raccolti in questa elegante edizione Oscar Draghi, uno più seminale dell’altro, sfornati a ritmo impressionante nell’arco di poco più di un lustro proprio sulla soglia del XX secolo, Wells ha fatto ben più che popolare di macchine volanti le solite storie d’avventura, adeguando gli antichi duelli cavallereschi all’epoca del ferro e dell’acciaio, ma ha insegnato un vero e proprio metodo di scrittura. Esattamente come la filosofia dovrebbe assecondare il corso del pensiero per vedere dove ci conducono i ragionamenti, così lui ha dato corso alla sua fertile immaginazione, lasciando che la miccia delle più scottanti questioni socio-politiche del tempo innescasse il combustibile altamente esplosivo dei suoi interessi scientifici, per costruire non tanto ipotetici scenari futuri quanto specchi deformati del suo magnifico presente e progressivo – da cui poi, sì, qualcosa del suo futuro effettivamente si può ricavare, col senno di poi. 

Rivelatoria è già di per sé la scelta dell’ambientazione temporale dei suoi racconti, immaginati tutti come già accaduti - persino il più cataclismatico del lotto, l’invasione aliena, datata 1894 (il che rende La guerra dei mondi, a tutti gli effetti, un’ucronia). Sotto la forma, solo apparentemente ingenua, del kolossal ricco d’effetti speciali viene così dato sfogo a quegli stessi incubi vittoriani che prendono letteralmente corpo in un Mr. Hyde e che ossessionano la psiche tormentata di un Kurtz, compresa – non a caso - la cattiva coscienza dell’Occidente imperialista: i marziani ci avranno pure schiacciati senza pietà come fossimo formiche, ma «prima di giudicarli troppo severamente, dobbiamo ricordare quale spietata e completa distruzione la nostra specie ha compiuto, non solamente di animali, come lo scomparso bisonte e il dodo, ma delle stesse razze umane inferiori. I tasmaniani, nonostante le loro sembianze umane, furono completamente annientati in una guerra di sterminio sostenuta dagli immigrati europei per ben cinquant’anni. Siamo dunque apostoli di misericordia tali da lamentarci se i marziani combatterono con lo stesso spirito?». Da questo punto di vista, anzi, il dittico composto con I primi uomini sulla Luna non riprende solo la matassa delle speculazioni sull’abitabilità dei mondi, da Keplero fino a Schiaparelli, ma tira anche le fila del dibattito moderno sulla scoperta del Nuovo Mondo, riallacciando i fili di un discorso in cui, già prima di Wells, indiani ed extraterrestri erano spesso andati a braccetto. Come afferma, in un momento di euforia, uno dei due esploratori del suolo lunare, quello più pragmatico: «bisogna annettere la luna! […] Fa parte del fardello dell’uomo bianco […]. Noi siamo come Colombo…!». 

Con personaggi come Hyde e Kurtz, del resto, è strettamente imparentato quel Griffin che, scoprendo la formula dell’invisibilità, e restandone rocambolescamente vittima, protesta la sua marginalità e il risentimento che la abita, rendendo manifesto - sia pure in modo paradossale – un disagio distruttivo che troverà sfogo solo in una disperata lotta contro il mondo intero. Dietro la leggerezza di un racconto a tratti persino comico e pieno di scenette da film muto, si snodano gli assai più tetri cunicoli del sottosuolo, lungo i quali si va da Dostoevskij giù giù fino alle sclaviane Memorie dall’invisibile. In questo modo, dando l’impressione di non far nient’altro che rielaborare l’antico apologo dell’anello di Gige in una satira adatta ai fumetti di Weird Science, con la disinvolta semplicità dei grandi Wells finisce per fornire, probabilmente al di là delle sue stesse intenzioni, una rappresentazione della base psico-sociologica cui attingono i moderni populismi. Con una nota d’ottimismo, se volete, per quanto ambiguo: alla fine il buon senso popolare prevale, se non altro perché non si può vivere in eterno sotto stress. É solo qualche esempio di quella «gigantesca valanga di idee nuove» che questi romanzi racchiudono quasi ad ogni pagina e che hanno reso così gustosa, ancorché più sinistra, questa matura rilettura, dopo il primo, più scanzonato, assaggio avvenuto ai tempi delle medie, quando a colpirmi era piuttosto il loro ritmo, tutt’altro che invecchiato male (curiosamente, da ragazzino leggevo queste cose qui e Salgari, come se non ci fosse stato il Novecento di mezzo: si capisce che poi mi sia rimasto il tarlo dello steampunk). 

Delle infinite cose che si potrebbero dire, azzardo appena qualche spunto che mi sembra degno di nota. Anzitutto, la straordinaria capacità che Wells ha di rielaborare idee che erano nell’aria (dal darwinismo, di cui coglie le immense potenzialità conoscitive, al marxismo, alle indagini genealogiche di Nietzsche), centrifugandole in un concentrato narrativo in cui è possibile individuare non solo una quantità di futuri soggetti letterari o cinematografici – dall’invasione aliena, appunto, al body horror - ma anche intuizioni fondamentali di settori disciplinari che troveranno pieno riconoscimento solo nei decenni successivi (uno su tutti, la sociobiologia). Penso ad esempio alle puntuali descrizioni dei corpi dei marziani e dei seleniti: i tempi lunghi dell’evoluzione e le peculiari condizioni dei rispettivi habitat hanno prodotto, nel primo caso, un potenziamento del loro apparato cerebrale a scapito del resto del corpo e della componente affettiva riconducibile ad esso (ciascuno di essi appare infatti come «una massa grigiastra e arrotondata, grande pressappoco come un orso», con una bocca priva di labbra da cui cola saliva e un’appendice tentacolare; «essi sono delle teste, semplicemente delle teste», ma, «senza il corpo, il cervello doveva naturalmente diventare un’intelligenza più egoista, del tutto ignaro del sostrato emotivo degli esseri umani»); nel secondo, invece, l’effetto finale è quello di una specializzazione estrema degli arti a seconda delle funzioni sociali svolte dai singoli individui, anche qui con l’implementazione abnorme del cervello nel caso del Gran Lunare, l’ape regina di quell’alveare cavo che è la Luna («lo sviluppo illimitato delle menti della classe intellettuale è reso possibile dall’assenza assoluta, nell’anatomia lunare, di un cranio osseo, quella strana scatola che contiene il cervello umano e ne limita imperiosamente le possibilità»; ad atrofizzarsi, per lo stesso motivo che rende insensibili i marziani, è qui, invece, con reminiscenza forse scolastica, «la capacità di ridere, eccettuato il caso dell’improvvisa scoperta di un paradosso [...]; la sua più profonda emozione è data dalla soluzione d’un nuovo calcolo»). Sulla Luna l’opera della natura è però accelerata dalla tecnica, che procede alla modellazione, sin dalla culla, di creature abilitate a una specifica attività («esiste pure una specie di selenita girarrosto, assai comune, il cui dovere e la cui unica delizia consistono nel fornire la forza motrice a svariati apparecchi»). Ma per quanto questo invasivo condizionamento infantile possa risultare disturbante, si tratta pur sempre – nota con ironico candore il protagonista – di «un processo molto meno crudele del nostro terrestre di lasciare che i bambini divengano uomini per trasformarli, allora soltanto, in macchine». Analogamente, «narcotizzare l’operaio di cui non ci si può servire e tenerlo come riserva è meglio certamente che cacciarlo dalla fabbrica ed esporlo a morire di fame sulla strada». Siamo proprio al punto di congiunzione tra Swift ed Huxley, direi. 

La divaricazione specifica indotta dai diversi ruoli sociali e da una diversa simbiosi con le macchine è anche al centro de La macchina del tempo, con quella visione dell’anno Ottocentomila in cui la separazione tra capitalisti e lavoratori non si sarà risolta con la rivoluzione, ma avrà determinato la scissione dell’umanità in una razza di imbelli e fanciulleschi abitanti del mondo di superficie e in un’altra di scimmiesche creature sotterranee dedite esclusivamente alla produzione. La «tendenza dei ricchi all’isolamento e all’esclusione degli altri» porterà «alle estreme conseguenze logiche il sistema industriale dei nostri tempi», rovesciamento dialettico compreso: i ferini Morlocks provvederanno sì alla necessità dei belli e fatui Eloi per atavica abitudine alla schiavitù, ma per ancora più atavico istinto naturale, ne faranno anche oggetto di preda in apposite razzie notturne. Ecco come si presenterà «l’ultima grande pace» sulla Terra, prima che il «tramonto eterno» si inghiottisca tutto, trenta milioni di anni nel futuro, come delineato in uno squarcio visionario di «desolazione paurosa» che lascia veramente un brivido lungo la schiena, anche per l’apparizione, su questo sfondo crepuscolare, delle estreme creature del pianeta, «una cosa simile a una grande farfalla bianca» e un’altra «simile a un mostruoso granchio». Tutto qui, dunque? - verrebbe da dire. Bisogna forse pensare che, nonostante la presunzione di vivere in una belle époque e le nostre tronfie Esposizioni Universali, non siamo noi i veri padroni della Terra (difesa meglio, peraltro, dalla carica virale di un batterio che da tutte le nostre armi messe insieme)? 

D’altra parte, la presenza di un ineliminabile residuo bestiale sotto la scorza della nostra umanità può avere risvolti anche meno rassicuranti dell’affermazione di una pura, ma anaffettiva, intelligenza. É l’acquisizione angosciante cui approda il protagonista de L’isola del dottor Moreau, dopo aver assistito al gigantesco e fallimentare progetto, messo in piedi da uno scienziato eretico, di riplasmare animali di vario genere in forma umana, riproducendo in vitro, su un’isola del Pacifico dimenticata da Dio, il processo doloroso di costruzione della morale e della religione (tutti spunti che non resteranno ignorati – in William Golding, per dirne solo uno). «Gli uomini e le donne che incontravo», osserva il narratore, una volta rientrato nella civile Inghilterra, «erano creature bestiali ancora passabilmente umane, animali plasmati in parte, così da avere l’aspetto esteriore di esseri umani; presto sarebbero regrediti mostrando, prima uno, poi un altro, carattere bestiale. […] Allora guardo i miei simili intorno a me. E ho paura. Vedo volti acuti e brillanti, altri stolti o pericolosi, altri volubili e insinceri; nessuno che abbia la calma autorità dell’essere ragionevole. Mi sembra che l’animale stia per affiorare in loro, che presto la degradazione degli abitatori dell’isola tornerà a manifestarsi su larga scala. […] Neanch’io ero una creatura ragionevole, ma un animale tormentato da qualche strana malattia cerebrale che mi spingeva a vagare solitario, come una pecora impazzita». E difatti basta che un trauma faccia saltare come un tappo le regole abituali su cui si basa la nostra fragile convivenza, perché a quel punto possa capitare davvero qualunque cosa. Tutti sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato, in teoria, «ma non sanno di che cosa può essere capace un uomo messo alla tortura. Ma coloro che sono stati nelle tenebre, coloro che le hanno discese fino in fondo, avranno più carità». É sempre e solo La guerra dei mondi, dobbiamo dirlo, ma si stanno già preparando le condizioni per I sommersi e i salvati.

(Finito il 22 gennaio 2020)

Ho parlato di


La fanta-scienza di H.G. Wells
La macchina del tempo, L'isola del Dottor Moreau, L'uomo invisibile, La guerra dei mondi, I primi uomini sulla Luna
(Mondadori, 2018)

Trad. di M. Monti, G. Mina, A. Monti

538 pp. | 25 €

(ed. or.: 1895-1901)

Nessun commento:

Posta un commento