«L’Italia è un paese che ha fame di storia ma che detesta cucinarla». Per questo incipit luminoso ci si addentra in un testo a tratti eccessivamente denso e persino involuto, ma che al fin della licenza non perdona e tocca. E dice, per esempio, che la storia produce una verità “mite”, precaria e fallibile, ma comunque capace di sottrarsi al chiacchericcio delle opinioni. E che dunque la presunta identità dei cristiani d’Italia (“la Chiesa" dei giornali) è solo un costrutto funzionale a schemi politici, mentre la realtà ci restituisce una molteplicità di esperienze spesso anche dissonanti fra loro, perché tutto è tollerabile purché si riconosca l’autorità di chi quella tolleranza concede. Che il paese cattolico per eccellenza conosce un livello di analfabetismo religioso impensabile in altri paesi europei considerati più laici. Che la decerebrazione del cattolicesimo italiano imposta dal perdurante appello a difendere la cittadella assediata ha soffocato il prodursi di un’intellettualità di alto profilo, ma potenzialmente critica, e così mentre altrove c’erano i Congar e Maritain noi eravamo fermi ai Guareschi – e ora ci teniamo, aggiungo io, i Brosio e i Socci, che vengono chiamati a interloquire con gli Odifreddi di modo che tutto vada sempre allegramente in vacca. Che anche questa è una conseguenza della vittoria di Giussani su Lazzati, quando lo slogan della “presenza” divenne un mero pretesto per entrare nei consigli di amministrazione e nei giri degli appalti in quota devozionale. E che in fondo, nonostante Lumen Gentium, siamo rimasti ancora papolatrici e rischiamo di restarlo anche con Francesco, demandando a lui ogni iniziativa per sventolarla come foglia di fico sopra il nostro torpore spirituale.
(finito il 29 giugno 2016)
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