domenica 3 marzo 2024

La donna in bianco

Fatico a immaginare destino più beffardo per uno scrittore – e per uno scrittore di talento, ingegnoso fabbricante di intrecci e splendido affabulatore – che quello di venir anzitutto conosciuto non già come autore, bensì come personaggio, almeno in parte, d’invenzione: eppure è proprio così che mi sono imbattuto per la prima volta, una decina d’anni fa, nel fino ad allora a me del tutto ignoto Wilkie Collins, leggendone le gesta romanzate da Dan Simmons in Drood, che è un libro meravigliosamente inquietante per il modo in cui rielabora in chiave moderna l’anima nera della letteratura vittoriana, con il solo difetto di rivelare l’enigma intorno a cui ruota, appunto, uno dei capolavori di Collins, La pietra di luna, e di rovinarne almeno in parte la lettura, se non ne sapevi nulla (come ho potuto poi sperimentare in prima persona quando ho voluto rimediare alla mia lacuna, sebbene poi il libro in questione, che è al tempo stesso uno dei prototipi del romanzo poliziesco e però già anche una sua garbata parodia, non si riduca solo a quell’enigma e valga la pena d’essere letto comunque).

Condensato in Bignami, Collins è uno che sarebbe potuto diventare Dickens se non avesse avuto la sfortuna di nascere quando già c’era un Dickens, quello originale, del quale peraltro era amico, sulle cui riviste pubblicava le sue opere e nel cui maestoso cono d’ombra in un certo qual modo è finito per restare a lungo imprigionato (anche se ora lo si sta riscoprendo, ritraducendo e, complice anche il bicentenario della nascita, ripubblicando in forze). Ma Collins è anche stato fra i primi a fiutare l’interesse crescente del pubblico per la cronaca nera e a intuire il potenziale narrativo di un racconto affidato a più voci, ciascuna delle quali fornita del suo peculiare timbro e soprattutto portatrice solo di un particolare punto di vista sull’intera storia, proprio come accade con le deposizioni giurate dei testimoni sottoposti agli interrogatori e ai controinterrogatori durante la fase dibattimentale di un processo. Non saprei decantarne meglio le doti se non attestando la sua capacità di prendere ingredienti che in altre mani avrebbe potuto produrre tranquillamente un indigesto polpettone ottocentesco e mescolarli così abilmente da rendere invece il prodotto finale tanto gradevole al gusto da farmelo divorare in una manciata di giorni appena, avvinto dall’ingarbugliarsi del mistero e più ancora dalla curiosità di capire quale sarebbe stato il trucco con cui sarebbe stato disfatto, perché si capisce benissimo che un trucco deve pur esserci da qualche parte, ma quando cresci e ti fai sgamato è proprio nell’assenza di magia che riconosci infine l’autentica magia della scrittura.

É facile immaginare che a coinvolgere il lettore originale fosse anzitutto la simpatia per il tormentato amore tra la bella e virtuosa eroina Laura e il suo generoso innamorato con tanta arte ma senza parte William – e ancor più l’ansia crescente per il lento dispiegarsi della diabolica macchinazione ordita ai loro danni che, in mancanza di uno Sherlock Holmes capace di smascherarla con due rapide occhiate ai dettagli giusti, pare a un certo punto stritolarli senza rimedio in una morsa di intollerabile infelicità. Ma per quanto il feuilleton risulti spesso, di fatto, una variante appena meno pericolosa degli oppiacei con cui ci si ottunde la mente dinanzi alle miserie della realtà (cosa che il fumatore compulsivo Collins sapeva bene), le sue regole – se lo si vuole fare e le si sa usare – possono anche essere impiegate per sollecitare un inaspettato sussulto di riflessione in chi abbocca all’esca dell’intrattenimento. Apparso a puntate su All the Year Round tra il novembre 1859 e l’agosto 1860 (subito dopo il Romanzo di due città e subito prima di Grandi speranze), La donna in bianco è infatti un potente atto di denuncia contro l’insostenibile condizione di subordinazione femminile che anticipa di appena qualche anno il famoso pamphlet di John Stuart Mill e Harriet Taylor Sulla servitù delle donne. Esasperata dai maneggi di sir Percival, un giovane aristocratico sommerso dai debiti che spera di dare una svolta alla sua disperata situazione finanziaria per via matrimoniale, in virtù di una legge iniqua secondo cui, in caso di morte, i beni della moglie devono passare per intero al marito (ma non il contrario), lady Marian, sorellastra della protagonista, meno bella di lei, tuttavia decisamente superiore per estro, intelligenza e lucidità come Cirano lo è rispetto a Cristiano, a un certo punto sbotta: «se solo potessi godere dei privilegi di un uomo (…). Ma poiché sono solo una donna, condannata a sfoggiare pazienza, decoro e sottane per tutta la vita, devo rispettare l’opinione comune e cercare di assumere modi femminili e delicati». In Inghilterra, del resto, «gli obblighi coniugali di una donna le concedono di avere un’opinione personale dei principi morali del marito? No! La sua missione è amare e onorare il consorte, obbedendogli senza riserve». E alle sciagurate che volessero mettersi di traverso, la civilizzatissima società inglese, scandalizzata nel suo buon gusto dai tetri conventi mediterranei descritti nei romanzi gotici come luogo di reclusione per le figlie cadette, spalanca poi con sin troppa disinvoltura le porte dei moderni manicomi che ne hanno preso il posto, sostenendo con l’autorità della scienza ciò che la religione non sembrava più in grado di giustificare da sola.

«John l’inglese aborrisce i crimini di Cheng il cinese. É il più veloce gentiluomo del mondo quando si tratta di smascherare le colpe dei suoi vicini, e il più lento quando le colpe sono sue. Ma lui con la sua condotta è davvero migliore di coloro che condanna per la loro condotta?»: a gettare il sasso nello stagno del quieto perbenismo british – curiosamente, ma forse non troppo – è il personaggio più amorale del libro e a mio avviso anche quello più suggestivo. Come nei racconti di Hoffmann, anche qui il diavolo arriva dall’Italia e coniuga tratti paurosamente luciferini con l’ironico savoir-faire di chi la sa lunga sulle cose del mondo, se ne infischia di quelle che considera pure convenzioni sociali e non si vergogna di dichiararlo («dico quello che le altre persone pensano soltanto, e quando il resto del mondo cospira per accettare la maschera al posto del vero volto, la mia mano avventata strappa la cartapesta e mostra la nuda verità»). Collins gli dà un nome programmatico, battezzandolo conte Fosco, ma a parte questo non ha nulla a che spartire con la malaticcia antieroina immaginata da Tarchetti: «immensamente grasso» eppure sorprendentemente leggero e silenzioso nei movimenti, intelligentissimo, lezioso, manipolatore, seducente a canagliesco al tempo stesso, questo impasto di Napoleone e di Pulcinella sembra trattare tutti coloro che gli stanno attorno (a partire dalla moglie, zia della protagonista) come i topolini e i canarini che alleva amorevolmente e che si fidano a tal punto di lui da scivolargli fra le dita tozze da cui potrebbero in qualsiasi momento essere schiacciati. É solo quando prende davvero in mano lui la situazione per dirigere le manovre dello spregevole ma limitato sir Percival che si comincia davvero a temere che le cose possano volgere al peggio, perché è chiaro che uno come lui potrebbe davvero inventarsi di tutto, solo per il gusto di vincere la sua personale partita a scacchi, giacché – come spiega amabilmente alla vittima predestinata dei suoi raggiri – «il crimine di uno sciocco viene sempre scoperto, quello di un uomo intelligente mai. (…) Se la polizia vince, di solito se ne conoscono tutti i particolari, ma se perde non se ne viene a sapere nulla. E su queste fondamenta vacillanti voi costruite la vostra rassicurante massima morale che il crimine viene sempre a galla! Sì, è vero dei crimini che conoscete. Ma tutti gli altri?».

Serve proprio un personaggio così apertamente fuori dagli schemi, verso il quale si finisce per provare una morbosa ammirazione (analoga a quella che lui stesso comincia a provare per Marian, a cui parla «con il senno e la serietà che riserverebbe a un uomo»), per mostrare i cortocircuiti e le assurdità di un sistema sociale in cui i virtuosi che seguono le regole finiscono il più delle volte per perdere. Faccia fede questo apologo: «chi credete che starà meglio tra due povere sartine in miseria: quella onesta che resiste alla tentazioni o quella che cede e diventa una ladra? Sapete tutti che il furto farà la fortuna di quest’ultima, portandola all’attenzione dell’intera Inghilterra benevola e caritatevole, e così lei si salverà trasgredendo il comandamento, mentre sarebbe morta di fame se l’avesse osservato». E così, anche se alla fine qui le cose più o meno andranno per il verso giusto, è ben la poca consolazione che se ne trae, perché quel che più resta impresso è il fortissimo sospetto che nella maggior parte dei casi accada tutto il contrario.

Ps Mia moglie si è divertita moltissimo quando ha visto, leggendo il libro dopo di me, che, cedendo a un sussulto di vanità, avevo sottolineato questo passo: «persino la calvizie in un uomo è gradevole perché sottolinea l’intelligenza del viso».

(finito il 5 gennaio 2022)

Ho parlato di


Wilkie Collins
La donna in bianco
(Mondadori 2018)

trad. di A. Mantovani

626 pp. | 14 €

(ed. or.: The Woman in White, 1859-1860)

lunedì 22 gennaio 2024

Come ordinare una biblioteca

A quanti ci osservano con la stessa divertita curiosità che dedicherebbero a qualche buffa bestiolina, quando scoprono che siamo in grado di riconoscere al primo sguardo se c’è un volume fuori posto nella nostra libreria, soprattutto se tale discutibile talento s’accompagna ad eccentricità socialmente più rilevanti, come (per dirne solo una, realmente accaduta) il presentarsi in un ufficio pubblico con la maglietta girata al contrario, dovremmo avere una buona volta il coraggio di rispondere con le stesse parole con cui aprì questo suo aureo libretto – fra gli ultimissimi dati alle stampe in vita, quasi un testamento spirituale – uno che sapeva perfettamente quel che diceva poiché affetto dalla nostra stessa malattia: «come ordinare la propria biblioteca è un tema altamente metafisico» (stia dunque alla larga chi s’aspettasse banali consigli di biblioteconomia domestica). Questo non aumenterebbe probabilmente la nostra credibilità fra gli uomini di mondo, ma sarebbe una dichiarazione indubbiamente più sincera delle maldestre scuse spesso abbozzate per mascherare l’imbarazzo. Perchè sì, che ci crediate o no, quando disponiamo i nostri libri l’uno accanto all’altro, stiamo davvero provando a mettere in ordine l’universo. Concettualmente diversa da un semplice magazzino o da un deposito di merci, l’autentica biblioteca assomiglia piuttosto a quello che il mappamondo rappresenta per il globo terrestre, un principio di organizzazione – e proprio per questo dovrebbe sempre essere a scaffale aperto, poiché, anche solo aggirandosi tra queste foreste di simboli e scorrendo le coste dei singoli tomi si possono finire per scoprire le corrispondenze segrete che tengono insieme tutto ciò che c’è.

Lo aveva capito benissimo Aby Warburg, teorico della regola aurea del «buon vicino (…), secondo cui nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile di quello che cercavamo». Calasso ricorda di aver sperimentato personalmente la giustezza di questa regola quando ebbe modo di frequentare la biblioteca di Warburg a Londra per lavorare alla sua tesi sui geroglifici di Sir Thomas Browne; per parte mia, non posso trattenere un fremito di pura riconoscenza verso la vita per avermi dato l’occasione di sperimentare una gioia analoga, al tempo del dottorato, quando bazzicai anch’io le stesse stanze cercando una chiave per entrare nella testa dei miei medici rinascimentali. Quella biblioteca - e mettiamoci pure quella del Wellcome College, lì vicino - sono state per me vere e proprie baie delle Sirene in cui avrei potuto naufragare dolcemente per l’eternità (e non per nulla, nei miei sogni, il paradiso appare spesso come un’immensa biblioteca). Warburg, peraltro «non si stancava mai di spostare libri e poi spostarli di nuovo. Ogni passo avanti nel suo sistema di pensiero, ogni nuova idea sulla interrelazione dei fatti lo induceva a raggruppare in altro modo i libri che vi erano coinvolti. Sobrie parole che invitano a rassegnarsi una volta per tutte: l’ordinamento di una biblioteca non troverà mai – anzi non dovrebbe trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento. É terreno vulcanico, dove sempre qualcosa sta succedendo, anche se non percepibile dall’esterno».

Si annida qui una verità che non si può capire se si intende la lettura in termini di puro consumo e che permette a mio avviso di pronosticare ancora lunga vita ai libri cartacei – a differenza, per esempio, di quanto accade coi supporti materiali audiovisivi, che cambiano di continuo – e questo non solo perché con il papiro e l’ebook puoi fare molte cose (come leggere questo libro), ma non puoi farne moltissime altre («sfogliare un libro, leggere il risvolto, far cadere l’occhio su una pagina a caso, tenere il libro in mano e considerarlo come un oggetto, attraente o urtante»). Sebbene, infatti, non siano in origine pezzi unici come le opere d’arte, in quanto riproducibili in fase di stampa, una loro effettiva unicità i libri poi la guadagnano davvero, col tempo, entrando a far parte di quel personalissimo vissuto di cui la biblioteca personale registra, per così dire, le stratificazioni e i movimenti, proprio come se fosse un’estensione di te, che cresce con te, popolandosi via via di ciò che ti ha segnato o che reputavi importante e lasciando fuori ciò che non ritenevi invece meritevole di attenzione o che hai pensato non ti interessasse più (per questo «una biblioteca dovrebbe fondarsi su larghe esclusioni»: riflesso della vita, essa è sempre una selezione, così come quella è fatta di scelte). E poiché siamo creature distese nel tempo, una vera biblioteca non si limita a inquadrare l’esistente, ma esprime anche una promessa, un messaggio in bottiglia lanciato a se stessi da epoche diverse. «Essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro – e magari lo si troverà in uno scaffale poco frequentato della propria biblioteca. (…) L’importante è che ora si possa leggere subito. Senza ulteriori ricerche, senza provare a trovarlo in biblioteca. Operazioni laboriose, che conculcano l’estro del momento. Strana sensazione, quando si apre quel libro. Da una parte il sospetto di aver anticipato, senza saperlo, la propria vita (…). Dall’altra un senso di frustrazione, come se non fossimo capaci di riconoscere ciò che ci riguarda se non con un grande ritardo. (…) Oggi l’informatica ha ridotto enormemente i tempi dell’attesa e della ricerca di un libro. (…) Ma questo nulla toglie all’incanto di trovarsi fra le mani – immediatamente – un libro di cui non si sapeva di aver bisogno sino a un momento prima. Il gesto decisivo rimane quello di aver acquisito qualcosa, un giorno, pensando che il suo uso era soltanto ipotetico».

Se invece quel libro lo si è già aperto, bisognerebbe sempre potervi ritrovare segni dei propri precedenti passaggi. «Molto raro è il caso di libri che abbia letto e siano rimasti tali e quali, senza alcun segno a matita. Non aggiungere a un libro tracce della lettura è una prova di indifferenza. (…) E a partire dalle annotazioni su un libro svanito dalla memoria si può anche ritrovare quel certo passo che risulterà indispensabile “vent’anni dopo”». É di questi ghirigori e marginalia che il pensiero si nutre avidamente, costruendo continue connessioni ipertestuali con l’ausilio di strumenti apparentemente desueti come un lapis (così cominciò, più o meno, anche Montaigne, costeggiando lateralmente gli storici, e ne vennero fuori gli Essais). In fondo, «l’intrecciarsi delle letture nello stesso cervello è una versione impalpabile di quelle reti neuronali che fanno disperare gli scienziati»: «ogni lettore vero segue un filo (che siano cento fili o un filo solo è indifferente). Ogni volta che apre un libro riprende in mano quel filo e lo complica, imbroglia, scioglie, annoda, allunga». Per questo non è affatto la stessa cosa leggere un libro prima o poi e per questo soppesare quale libro cominciare, quale sia il libro da leggere proprio in questo momento, è sempre un’istanza cruciale. Se, dunque, è certamente una biblioteca quella che si estende nello spazio, lungo le pareti e i corridoi, non lo sarà di meno quella che si dispiega secondo l’ordine del tempo, nella quale la successione delle letture costituisce l’equivalente dell’affiancamento di un libro all’altro sui ripiani. É questo, dopotutto, il motivo per cui mi ostino a seguire con disciplina la regola che mi sono dato, anche se sconto ormai un ritardo di due anni sulla tabella di marcia, perché quelle che qui raccolgo non sono in realtà recensioni ma le coordinate della mappamente della mia vita.

(finito il 30 dicembre 2021)

Ho parlato di


Roberto Calasso
Come ordinare una biblioteca
(Adelphi 2020)

127 pp. | 14 €

domenica 14 gennaio 2024

Il giro del mondo in sei milioni di anni

Anche se su scala geologica siamo poveri parvenus, rispetto per esempio ai coccodrilli, nel corso dei millenni abbiamo comunque macinato sufficiente terreno da non essere poi più stati in grado di riconoscerci come parenti, quando alfine ci siamo reincontrati. Già Agostino escludeva l’abitabilità e quindi l’esistenza stessa degli antipodi sulla base del fatto che gli pareva impossibile che dei figli di Adamo si fossero potuti avventurare nell’Oceano grande e terribile in tempi tanto remoti, per poi dimenticarselo, quando neppure all’apogeo dell’Impero Romano v’erano a disposizione i mezzi tecnici per farlo. E invece, del tutto controintuitivamente, le cose pare siano andate proprio così. É pur vero che, fino a 8 mila anni fa, in tempi di glaciazioni e di arretramento delle acque, oltre che in assenza di dogane e confini minati, la Terra era più facilmente percorribile di quanto non lo sia ora. Ciò non toglie, tuttavia, che, per esempio, tra Sunda e Sahul, ovvero tra la piattaforma continentale che sorregge l’attuale Indonesia occidentale e quella su cui poggiano Australia, Papua e Tasmania (per intenderci, ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là della linea di Wallace), restasse comunque «un bel po’ di mare: almeno 90 km. Per un potenziale viaggiatore questo avrebbe voluto dire mettersi in acqua senza riuscire a vedere, se non a viaggio già iniziato, la propria destinazione. Sulla base delle informazioni archeologiche di cui disponiamo sappiamo anche che, con tutta probabilità, le imbarcazioni utilizzate da questi migranti non avevano vele ed erano simili alle attuali canoe. Questa carenza di mezzi adatti alla navigazione in alto mare rende ancora più stupefacente la conquista dell’Oceania da parte della nostra specie in tempi così remoti». Insomma: Colombo, scansati pure.

Si dirà che parliamo comunque già di Sapiens e quei loro grandi cervelli, che sono poi sostanzialmente i nostri, a qualcosa dovevano pur servire. Ma questa storia di dispersione globale comincia in realtà assai prima, praticamente da che Homo è Homo – ossia da molto più tempo, anche se non proprio da sei milioni di anni, perché quella è solo la data approssimativa di quando è cominciata la divaricazione tra i nostri più antichi progenitori e quelli degli odierni scimpanzè a partire dall’ultimo antenato comune, ed è assodato che il bipedismo obbligato non fu una conquista immediata, tant’è che la piccola Lucy, la più celebre australopiteca, pare proprio sia morta cadendo da un ramo su cui continuava pur sempre a cercare rifugio la notte. Tanto basta, comunque, per riconoscere all’uomo la qualità di specie mobile per eccellenza. Come suggerisce l’antropologo Marco Aime, qui citato, «oggi si fa un gran parlare di radici e dei diritti che deriverebbero dall’averle in un posto e non nell’altro, ma basta abbassare gli occhi (…) per rendersi conto che in fondo alle gambe non abbiamo radici, ma piedi: piedi che servono per andare in giro e di cui ci serviamo dall’alba dei tempi per il colossale viaggio in cui l’umanità è impegnata fin da quando ha mosso i primi, timidi passi sul suolo, con arti ancora poco adatti a camminare, con un cervello piccolo e poca forza muscolare, ma spinta a procedere da due caratteristiche umane già allora pienamente sviluppate (…): irrequietezza e curiosità».

Con un occhio rivolto, dunque, a Jules Verne ed uno alle Cosmicomiche di Italo Calvino, questo libro si propone pertanto di raccontare, alla luce dei risultati più recenti della ricerca scientifica, le principali tappe di un cammino che ci ha portato a occupare (qualcuno direbbe anche: a infestare) persino le regioni più remote e inospitali del pianeta, al ritmo apparentemente lento, ma inesorabile, di circa 3 km all’anno, pagato con i cronici mal di schiena imputabili al progressivo raddrizzamento di una colonna vertebrale che non era stata brevettata per la postura eretta (poiché la natura ricicla tutto e, non potendo inventare dal nulla, come McGyver, accrocca con ciò che ha a disposizione). Con la sottolineatura che, dovunque ci siamo spinti, a ondate successive, abbiamo finito bene o male sempre per rimescolarci. I risultati acquisiti dalla genetica «confermano qualcosa che avevamo intuito da tempo: siamo tutti bastardi. Abbiamo bisogno di nomi per definire le tantissime forme dei viventi, ma limiti fra una specie e l’altra sono meno definiti e più permeabili di quanto queste etichette possano far pensare. (…) Nella biologia contemporanea, (…) l’appartenere a specie diverse non significa che non ci possa essere stato qualche scambio, e che gli individui ibridi non possano, a loro volta, aver lasciato dei discendenti». A maggior ragione questo processo sarà poi valido per i Sapiens soltanto, cosicché, quando dal comune retroterra biologico cominceranno a delinearsi le popolazioni storiche, nessuna di queste risulterà nettamente isolabile rispetto a un’altra. «Neolitici, Egizi, Greci: tutti questi popoli antichi avevano le loro caratteristiche, che oggi riusciamo in parte a decifrare nei loro genomi. Ma nessuno di questi genomi era puro, perché, e lo si vede bene, tutti contengono componenti eterogenee, di origini eterogenee. L’umanità, fin da prima di Homo sapiens, è sempre stata in movimento, e i risultati delle migrazioni e degli scambi si vedono nel nostro DNA, in cui coesistono, oggi come ieri e l’altro ieri, i contributi di antenati di tante origini diverse». Se siamo ciò che siamo, dunque, non è malgrado gli incroci, ma proprio in virtù di essi. Per quanti masticano già un po’ questi argomenti, tali considerazioni suoneranno ovvietà, eppure potremo dire di aver compiuto davvero il grande passo solo quando, divulgatili al punto di averli finalmente resi senso comune, riusciremo a far capire anche ai più cocciuti che proprio quei romani di cui si fregiano di imitare il saluto sono stati in realtà fra i primi a rivendicare la condizione di migranti e di meticci - in quanto eredi del troiano Enea e della latina Lavinia - come motivo d’orgoglio e non di vergogna.

Ps: a uno di questi rimescolamenti neolitici è dedicato un recente podcast in cinque puntate pubblicato dal Post. S’intitola “L’invasione” e parla, per sommi capi, dell’espansione degli Indoeuropei: per quel poco che sono fin qui riuscito ad ascoltare, mi pare che meriti un surplus d’attenzione.

(finito il 30 dicembre 2021)

Ho parlato di


Guido Barbujani - Andrea Brunelli
Il giro del mondo in sei milioni di anni
(Il Mulino 2018)

198 pp. | 15 €

mercoledì 3 gennaio 2024

Bartleby lo scrivano e altri racconti americani

Ma dopo che hai scritto una cosa come Moby Dick, che altro potresti volere ancora dalla vita? Uomo bennato a cui è stato concesso il privilegio di arpionare davvero la tua personale balena bianca, goditi il tuo sabato, lascia che ora ci provino gli altri, se ci riescono, a fare altrettanto, e ritirati per sempre a fumare con calma la pipa accanto al grandioso camino della tua casa di campagna, proprio come vorrebbe il protagonista dell’ultimo, delizioso, racconto contenuto in questa raccolta (intitolato appunto Io e il mio camino). E invece no, il buon Herman l’idillio non se lo può gustare. La sua controfigura narrativa, descritta con meravigliosa autoironia come una persona così visceralmente all’antica da possedere persino «la curiosa abitudine di gironzolare con le mani… dietro alla schiena», è costantemente assediata da «una moglie intraprendente (…) progettatrice per natura», che sconvolge continuamente con i suoi piani e il suo amore per le novità l’inerzia di un marito impietosamente bollato come “vecchio” (e in effetti, glielo riconosce, «vecchio io stesso, sono sensibile alla vecchiaia delle cose: amo, perciò, soprattutto il vecchio Montaigne, il formaggio stagionato e il vino vecchio; ed evito i giovani, i panini caldi, i libri nuovi, le patate novelle, e sono affezionato alla mia antiquata poltrona dai piedi ad artiglio e al mio vecchio vicino dal piede deforme, il diacono White, e all’ancor più prossima mia annosa vicina, la vecchia vite nodosa, che, nelle sere d’estate, dà di gomito al davanzale della finestra per farmi cordiale compagnia, mentre io, dall’interno, spingo all’infuori il mio, per incontrare il suo; e, soprattutto, di gran lunga al di sopra di tutto, sono molto affezionato al mio vecchio camino dall’alta cappa»).

Forse, quando mia moglie, tempo addietro, mi regalò un’altra edizione di questo racconto qualcosa voleva scherzosamente farmelo capire (e a ragione, giacché – pigro come sono – senza di lei avrei conosciuto un’infinitesima parte di mondo), ma nel caso di Melville si trattava solo di una proiezione letteraria. Non era infatti la remissiva consorte a tormentarlo, ma un ben più incalzante demone, quello che lo induceva a continuare comunque a scrivere, perché scrivere probabilmente gli serviva per vivere, ma forse ancor di più perché scrivere è una malattia, che si fa tanto più acuta quanto meno vieni capito – e in quella moglie così perennemente affaccendata e attiva mi verrebbe allora da scorgere anche un simbolo dei suoi stessi connazionali, così pieni di spirito pratico e così inebriati di quello che appariva loro come un destino manifesto da non sapere assolutamente che farsene di quell’eccentrico scrittore di balene che col suo lento salmodiare satireggiava la loro retorica efficientista e le sedicenti meraviglie del progresso tecnico.

Col suo talento innato per l’allegoria, a coloro che non erano stati convinti dal capitano Achab, Melville portò dunque in dono lo scrivano Bartleby, altro personaggio memorabile, che di Achab può essere considerato per certi aspetti l’opposto, sebbene ne condivida in sostanza la medesima fine. Assunto come copista nell’ufficio di un avvocato di Wall Street, quest’uomo mite, silenzioso e quieto sarebbe stato l’impiegato perfetto se a un certo punto non avesse del tutto inaspettatamente cominciato a rifiutare gli incarichi assegnatigli, opponendo alle direttive del capufficio il suo pacato, ma irremovibile, “preferirei di no”. Le cause di questa sua ribellione restano e resteranno per sempre misteriose: la sua, per dire, non appare affatto una scelta etica come potrebbe essere quella di chi antepone la voce della coscienza all’ordine ingiusto – ma proprio in questo sta la sua grandezza simbolica, quell’elemento conturbante che ci disarma e ci procura una sottile angoscia. Noi che, per garantire un servizio adeguato, facciamo le ore piccole, ben oltre gli orari e le remunerazioni stabiliti dal contratto, potremmo essere tentati di liquidare la sua inspiegabile protesta come una semplice variante della comoda negligenza che contraddistingue il solito collega svogliato alle cui inadempienze tocca di volta in volta porre rimedio coi salti mortali. Tuttavia, rifiutando di partecipare al grande gioco che tutti quotidianamente giochiamo, svenandoci senza sapere neanche il perché, Bartleby ci suggerisce con candore che in realtà tutto questo affaticarsi non porta da nessuna parte, se non ad aumentare ulteriormente la stretta della gabbia di ferro che ci incatena, con le frustrazioni e le ingiustizie che ne conseguono (come mostrano anche altri racconti qui presenti, spesso giocati proprio sulle ambivalenze di una società profondamente contraddittoria, in cui il paradiso degli uni è l’inferno degli altri). Forse, come avrebbe ribadito, con tutt’altro stile, anche Bianciardi, in un mondo in cui tutti si agitano nevroticamente, bisognerebbe avere il coraggio di restare fermi, muti «come l’ultima colonna di un tempio in rovina», terribilmente soli come «un pezzo di relitto in mezzo all’Atlantico», pur sapendo che il nostro destino sarebbe comunque quello di venire triturati e infine sputati dal sistema. Melville l’ha profetizzato ma poi, per fortuna, ha continuato a scrivere, scrivere e scrivere.

(finito il 22 novembre 2021)

Ho parlato di


Herman Melville
Bartleby lo scrivano
e altri racconti americani
(Mondolibri 2013)

Trad. di M. Bagicalupo

226 pp. | 5,90 €

sabato 23 dicembre 2023

Credere

Quando, soprattutto tra i miei studenti, qualcuno prima o poi tira fuori la domanda se credo o no in Dio – l’ultima volta proprio ieri, al bar, dopo la fine delle lezioni –, provo sempre un sottile imbarazzo, non tanto perché fatichi a esplicitare un’appartenenza (lo dico, infatti, quasi subito che sono un chierichetto emerito e che porto ancora addosso i residui di tutto l’incenso scaricato a suo tempo nei turiboli), quanto per i sottintesi impliciti all’uso di quel verbo – credere – che rendono impossibile dare una risposta secca, in termini di sì o no. Cosa mi sta chiedendo davvero chi mi sta ponendo la domanda? E come potrebbe interpretare una mia risposta affermativa o negativa? Siamo sicuri che se io dicessi di “credere”, lui, udendo quella parola, intenderebbe la stessa cosa che intendo io? Per esempio, nella società ultrapolarizzata in cui viviamo, una tale affermazione non rischierebbe di essere intesa né più né meno che come l’espressione di una tifoseria, un tenere per Jahvé o per Allah come si tiene per la Juve o per l’Inter? É davvero questo quello che intenderei dire? E poi, anche tra chi dice di credere, siamo sicuri che ci sia davvero accordo su cosa credere con chi dovrebbe condividere la stessa fede? Per restare nel mio ovile, in cosa crede davvero quel particolare credente che dice di credere nel Dio cristiano in versione cattolica e che, almeno ogni domenica, fa come me la sua professione di fede tra l’omelia e la preghiera universale? Pensiamo realmente le stesse cose quando sovrapponiamo le nostre voci l’una all’altra? Di più, orientiamo realmente le nostre vite nella stessa direzione, pur celebrando un rito di comunione?

A chi si sentisse toccato da tale intrico di questioni mi sento di suggerire questo ponderoso volume di cui venni a conoscenza suppergiù una quindicina d’anni fa, quando mi capitò di partecipare ad un seminario che ne usava alcune parti come filo conduttore – e che, dopo molto tempo, mi sono poi deciso a leggere per intero. Il teologo gesuita che lo scrisse si era infatti riproposto di provare a ripercorrere, all’alba del nuovo millennio, l’asse portante del Credo e di rielaborarlo in linguaggio corrente, allo scopo di illustrare il senso di espressioni coniate a suo tempo per fare sintesi, ma che senza adeguato retroterra rischiano appunto di restare puro flatus vocis. «Questo libro – spiegava appunto nelle prime righe – è un invito. (…) Mentre tanti libri propongono dei contenuti, io vorrei presentare un itinerario. (…) Io quindi non mi faccio l’obbligo di affrontare tutti gli argomenti della fede cristiana. (...) L’importante non è dire tutto, bensì esprimere ciò di cui si parla, secondo un ordine e un movimento che siano significativi per il lettore. Questo libro che parlerà del cristianesimo, intende quindi rivolgersi alla persona umana in quanto persona. L’esperienza umana di tutti e di ciascuno sarà in certo qual modo il suo punto di partenza. Un vangelo che non si rivolgesse all’esperienza umana più profonda non interesserebbe nessuno. Una risposta che non corrisponde ad una domanda non è una risposta: è un parlare vano. (…) Vorrei dare la testimonianza personale della mia fede dicendo: ecco ciò che mi rende felice, ecco ciò che mi fa vivere. (…) La testimonianza che io cerco di dare è dunque quella di un’esperienza che si rivolge ad altre esperienze. Io ho vissuto questa cosa: corrisponde forse a qualche cosa per te?». Detto altrimenti: al di là del formulario imparato a memoria, abbiamo realmente ancora qualcosa da dire?

In fondo, il progressivo svuotamento di chiese progettate per racchiudere un popolo che, in quelle proporzioni, vi si raduna giusto per la messa di Natale o per certi funerali, in ossequio a tradizioni e riti sociali condivisi, è forse dovuto, più che alla durezza del messaggio che vi si proclama, alla sua sostanziale indecifrabilità, che ne facilita la riconversione in un più abbordabile paganesimo, spesso proprio ad opera di chi più sbraita di essere cristiano e per cui il credere fa immediatamente rima con l’obbedire e il combattere. Mettere alla portata di tutti, con estrema chiarezza di linguaggio, i risultati di una teologia aggiornata, non convertirà probabilmente nessuno, però può aiutare chi crede a chiarire a se stesso il nucleo vitale della propria fede ed anche mostrare al non credente che, dopotutto, il cristianesimo ha un volto e delle risorse – come sono anche state chiamate – non proprio deprecabili. Ciò potrebbe garantire a tutti quegli uomini di buona volontà a cui l’angelo annuncia la pace di percorre comunque dei tratti di strada assieme, interpellandosi a vicenda, nel rispetto delle reciproche differenze, ma consapevoli che si sta cercando di andare, con mezzi diversi, nella stessa direzione. Anche perché lo spaventoso analfabetismo religioso che paradossalmente appesta il nostro paese di campanili fa solo il gioco degli sbandieratori di rosari che non sapranno quello che fanno ma si fa sempre più fatica a perdonare.

(finito il 19 novembre 2021)

Ho parlato di

Bernard Sesboüé
Credere. Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo
(Queriniana 2000)

trad. di P. Crespi

536 pp. | 42 €

(ed. or.: Croire. Invitation à la foi catholique pour les femmes et les hommes du XXIe siècle, Paris 1999)

giovedì 23 novembre 2023

La Primula rossa

Se questo libro fosse stato scritto oggi da un irriverente autore postmoderno che si fosse celato dietro allo pseudonimo di una baronessa ungherese per poter liberamente pasticciare con i tipici clichés dell’eroe senza macchia e senza paura al fine di mostrarne tutta la loro ambiguità, qualcuno evocherebbe senz’altro il colpo di genio. Ma qui, a differenza che nel racconto di Borges, non siamo alle prese con un novello Pierre Menard e con il suo tentativo di riscrivere, parola per parola, il Don Chisciotte tre secoli dopo: qui è già davvero tutto messo nero su bianco, sin dall’inizio, con una trasparenza così candida da non poter non suscitare un po’ di imbarazzo nel sia pur moderato nerd che mi porto dentro e che si è emozionato tante di quelle volte per le avventure dei suoi miti in calzamaglia.

Prototipo novecentesco di tutti i successivi campioni mascherati (questo suo esordio data appunto 1905), la Primula Rossa è infatti il leader di una rete segreta di nobiluomini inglesi (nobiluomini nell’animo come nel patrimonio, va da sé), i quali fingono solo di essere dandy preoccupati esclusivamente di come occupare il tempo fino alla prossima ora del thé, mentre in realtà organizzano degli spericolati blitz nella Parigi giacobina per sottrarre i poveri aristocratici alla lama della ghigliottina e scortarli verso le bianche scogliere di Dover, dove potranno finalmente tornare a respirare l’aria pulita della civiltà anziché il puzzo della feccia sanculotta (sarebbero tecnicamente anche loro taxisti del mare, ma poiché trasportano dei ricchi signori anziché dei poveri cristi non lo si dice e anziché gli strali dei benpensanti si guadagnano i sospiri delle loro figlie adolescenti). Nessuna concessione nemmeno all’ombra di una sfumatura, figuriamoci alle radici sociali o politiche dei problemi. Alla principessina Orczy, scampata anch’essa da piccola a una rivolta contadina, pare del tutto inconcepibile che qualcuno possa voler rovesciare il mondo incantato della sua infanzia asburgica. Per lei i buoni sono sempre aquile impavide che frangono le correnti a mille piedi d’altezza e i cattivi squallidi ratti sprofondati nella melma del loro bieco risentimento, «belve assetate di sangue, belve sotto spoglie umane, che aspettavano la preda per dilaniarla senza pietà come un branco di lupi affamati, solo per soddisfare il proprio odio».

Partendo da simili premesse, ripetute quasi come un mantra, oggi si potrebbe arrivare a immaginare ronde di Macho-men pronte a fare da scudo ai molestatori accusati di violenza da gruppuscoli di frigide femministe isteriche per aver dato una pacca sul sedere a una bella ragazza senza il suo consenso o giustizieri israeliani che si avventurano nei cunicoli di Gaza uccidendo chiunque passi loro a tiro perché, se non è un terrorista, sarà comunque complice di un terrorista, fosse pure un neonato: non è purtroppo così difficile da immaginarselo, una sorta di super-Capezzone che spara raggi letali addosso ai servi che si permettono di non prostrarsi in adorazione dei padroni. Ora, che personaggi come Tony Stark e Bruce Wayne se ne vadano in giro a picchiare teppisti da quattro soldi per sfogare i loro conflitti interiori irrisolti, ammantandoli così di un’aura fascinosa e romantica da bei tenebrosi, mentre le rispettive aziende multimilionarie contribuiscono a scavare solchi sempre più profondi di autentica ingiustizia vendendo armi agli sceicchi o speculando sulle materie prime, lo si è in fondo sempre saputo, ma abbiamo fatto finta di non vederlo, perché col tempo si è cercato di edulcorarlo e perché comunque ogni tanto si ha pure il bisogno di accantonare tutte le complicazioni del mondo, alleggerirsi la coscienza del peso di non sapersi districare tra le ragioni e i torti e abbandonarsi con semplicità di cuore a una versione lineare degli eventi, chiarissima, in cui il bianco sta da una parte, il nero dall’altra e tutto si risolve a cazzotti – se no, sai che pesantezza (del resto, non sterminavo anch’io, senza troppi rimorsi, la feccia ribelle, quando mi si sollevava contro a Europa Universalis?). Alla fin fine, anche l’avventura della Primula Rossa è così meravigliosamente ingenua, prevedibile e priva di spessore da risultare perfino divertente - e va dunque gustata per quello che è, una potente macchina narrativa che, se a distanza di un secolo, perde ogni tanto di brio, non è per colpa sua, ma perché, proprio per la sua efficacia, è stata saccheggiata da migliaia di sceneggiature successive che hanno contribuito a forgiare il nostro immaginario collettivo. Tuttavia, diretta com’è, un po’ di veleno in corpo te lo lascia, nel momento in cui ti sbatte in faccia che le presunte grandi responsabilità sono solo un modo per ingentilire (e legittimare) il fatto che ci debbano essere dei grandi poteri, suscitandoti il terribile sospetto che sotto la maschera dell’Uomo Ragno non ci sia mai stato tuo fratello Peter Parker, ma Elon Musk.

(finito il 12 novembre 2021)

Ho parlato di


Emma Orczy
La Primula rossa
(Feltrinelli 2020)

trad. di G. Carlotti

304 p. | 11 €

(ed. or.: The Scarlet Pimpernel, 1905)







lunedì 23 ottobre 2023

Il pericolo di un'unica storia

Sia detto per inciso che, per quanto abbia le pagine di carta, una rilegatura a norma e la sua riconoscibile copertina, a rigore ceci n’est pas un livre, trattandosi della trascrizione di una Ted Conference che l’autrice ha tenuto nel 2009 e che chiunque può tranquillamente ascoltarsi online, gratis, persino coi sottotitoli in italiano – e poiché c’è una bella differenza tra lo scrivere immaginando di rivolgersi a un pubblico uditorio oppure a un singolo lettore solitario, consiglierei al curioso di andarsela a ricercare in rete (dura poco meno di venti minuti), in modo da usufruirne nella modalità per cui era stata originariamente pensata. Però, dal momento che io invece di qui sono passato, di questo parlo.

Se ci sono arrivato è per diretta continuità con l’ultimo libro recensito. Gli scrittori sono estremamente sensibili al potere delle storie, avendone fatto il loro mestiere. Chi altri potrebbe infatti apprezzarne di più la forza assolutamente magica che consente loro di contornare un ideale e trascinarlo poi dal piano dell’etereo a quello concretissimo dell’esistenza quotidiana, trasmutandone all’occorrenza la forma e le proprietà? “Gran dominatore” è la parola – diceva già Gorgia – “che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere”. E così, se Labatut spiegava che la nostra fame di storie ci spinge a inventarcene anche di totalmente folli, per ovviare alla nostra crescente incapacità di capire il mondo, Ngozi Adichie, che ha una manciata di anni più di lui e più di me, sottolinea le controindicazioni che si verificano quando di tutte le storie possibili si fa un unico fascio (e non lo dico a caso). Non poteva che essere una storia, la sua storia personale, ad averglielo reso evidente. «Ho iniziato a scrivere – racconta – e tutti i miei personaggi erano bianchi, anche se vivevo in Nigeria, perché così facevano i personaggi dei libri inglesi che leggevo». Neanche le era passato per la mente che i libri potessero contenere altro: «dato che avevo letto solo libri in cui i personaggi erano stranieri, mi ero convinta che i libri, per loro natura, dovessero avere personaggi stranieri, e dovessero parlare di cose con cui non potevo identificarmi». E si capisce, persino leggere Lolita a Teheran perderebbe tutta la sua carica eversiva se a Teheran non si potesse leggere altro che Lolita. Il paradosso è che, quando poi si è trasferita negli Stati Uniti a studiare, la sua coinquilina americana è rimasta sconcertata dal fatto che parlasse un inglese fluente, sapesse usare un fornello e ascoltasse Mariah Carey anziché musica tribale. «La mia coinquilina aveva un’unica storia dell’Africa» e con quella storia la sua nuova amica Chimamanda, nonostante quel nome così esotico, sembrava non c’entrare nulla. Persino uno dei suoi professori americani aveva liquidato il suo romanzo osservando che “non era abbastanza africano”, perché i suoi personaggi guidavano automobili e non morivano di fame (che poi anche l’idea di una “storia dell’Africa” è abbastanza discutibile: «prima di andare negli USA non mi consideravo africana, consapevolmente. Ma in America ogni volta che si parlava di Africa ci si rivolgeva a me, anche se non sapevo nulla di posti come la Namibia. Ora mi considero africana anche se mi irrita quando ci si riferisce all’Africa come a unico Paese». Chissà cosa penserebbe di quel leghista di genio che all’Africa vorrebbe addirittura vendere Lampedusa...).

Il meccanismo è abbastanza semplice: «mostrate un popolo come una cosa sola svariate volte e quel popolo diventa quella cosa», per esempio un concentrato di terroristi assetati di sangue o un’orda di minacciosi predatori di donne e lavoro. «Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona». L’alternativa proposta non è però quella di rovesciare quella storia, come si fa con le statue dei personaggi scomodi, sostituendola con una storia opposta, altrettanto definitiva e altrettanto sospetta, ma accettare la possibilità di una pluralità di storie, persino sulle stesse vicende, perché la realtà è per sua natura complessa e controversa e non c’è punto di vista che possa presumere di riassorbirla completamente. Non mi pare, del resto, che si renda un buon servizio alle giuste cause se le si infioretta troppo, perché sarebbe un po’ come ammettere che, prive di trucco o di artifici, perderebbero quella credibilità che dovrebbe derivare dalla loro autenticità, con tutto il suo carico di contraddizioni. Il che non vuol dire garantire semplicemente la proliferazione delle voci, se no finiremmo per ricadere invariabilmente nel dramma di questi giorni, in cui, prigionieri ciascuno di un’unica storia - la propria -, continuiamo in realtà a monologare e a dividere il mondo in fazioni inconciliabili, dichiarando preventivamente di stare con questi o con quelli, senza capire che una storia non può in realtà mai stare senza l’altra e – soprattutto – che una storia non è davvero una storia se manca un ascoltatore che la raccolga e sia disposto a farsi mettere in discussione da essa. Perchè mai dovrei infatti confrontarmi con qualcuno, se sono convinto di sapere già tutto quello che quel qualcuno avrà da dirmi? «L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia»: addomesticano, semplificano, riducono. Le storie hanno però questo di bello: se è vero che, quando si consolidano, possono diventare un macigno sotto il cui peso restare, non solo metaforicamente, schiacciati, al tempo stesso sono anche sufficientemente duttili per riaprire sempre e di nuovo gli orizzonti quando non sappiamo più dove sbattere la testa. Quante volte è accaduto che proprio l’inizio di una nuova storia ci abbia tirato fuori dall’abisso? Persino la rivelazione biblica, per chi ci crede, è assai più storia, con i suoi alti e bassi, anziché norma assoluta. E dunque non stanchiamoci mai di raccontare, ascoltare e divulgare quante più storie possibile: che ce ne rendiamo del tutto conto o no, sarà anche quella una forma di resistenza.

(finito il 10 novembre 2021)

Ho parlato di


Chimamanda Ngozi Adichie
Il pericolo di un'unica storia
(Einaudi 2020)

trad. di A. Sirotti

48 pp. | 7 €

(ed. or.: The Danger of a Single Story, TED Conference, 2009)