Che un papa appena eletto si affacci dal loggione di san Pietro invocando per il mondo una pace «disarmata e disarmante», oggi, dopo il “mai più guerra!” strozzato in gola dell’ultimo Wojtyla, dopo l’angelus del 2007 in cui Benedetto XVI proclamò che la “nonviolenza”, per un cristiano è da assumere non come «un mero comportamento tattico», bensì come «un modo di essere della persona», dopo l’impegno profuso da Francesco lungo tutto il suo mandato, tutto sommato, non fa più notizia, anzi pare persino un’ovvietà. Che vuoi mai che dica un papa? Eppure qui c’è assai poco di scontato. Il tema guerra/pace costituisce infatti uno dei casi studio più interessanti per misurare il rapido addomesticamento con cui è stata depotenziata la radicalità evangelica, quando la comunità dei credenti è scesa a patti con il precedente ordine pagano, ha trovato posto a corte, e anziché scardinare la logica mondana che la pervadeva e destrutturare così il dominio del principe di questo mondo, se n’è appropriata e l’ha battezzata, sostenendo ad esempio che, a ben vedere, il precetto evangelico di non opporsi al malvagio e di amare il nemico potrà forse valere per i santi - che non per nulla sono santi e i cui meriti garantiranno anche a noi poveri peccatori di salvarci -, ma non annulla la legge naturale, che impone invece l’autodifesa e l’adozione di tutti i mezzi necessari allo scopo, fossero anche violenti. Allo stesso modo, l’obiezione di coscienza è stata considerata degna di lode finché a praticarla sono stati gli apostoli dinanzi ai Sinedri e agli imperatori romani, salvo essere da un certo momento in poi bollata come una pericolosissima devianza soggettivistica, attraverso cui il suddito si arroga presuntuosamente il diritto di opporsi ai legittimi governanti, dei quali bisogna invece pensare che sappiano sempre quello che fanno, e se non lo sanno peggio per loro, perché andranno all’inferno, trascinando però con sè – paradossalmente, e contrariamente a quello che penseremmo noi oggi – chi si è opposto alle loro inique ingiunzioni e non chi ha loro obbedito senza farsi domande. A livello magisteriale, peraltro, la posizione ufficiale della Chiesa resta tuttora saldamente ancorata al principio della guerra giusta. Dunque, da questo punto di vista, che cosa è cambiato, se qualcosa è cambiato, nell’arco del XX secolo? Il volume di Menozzi, uscito quando si era da poco concluso l’ultimo, lungo, pontificato novecentesco, prova appunto a fornire una risposta a questa domanda e la racchiude nel suo sottotitolo, a beneficio del lettore, anche se, come accade sempre nei libri di storia, la cosa interessante è in realtà seguire passo passo come ci si arriva, a quella conclusione.
L’esigenza di un ripensamento dottrinale sul tema della guerra ha cominciato a farsi strada, più o meno all’altezza della Prima Guerra Mondiale, con l’irruzione sulla scena della strumentazione bellica moderna, che rese d’un tratto obsoleto ogni possibile criterio di proporzionalità tra i mezzi e i fini – considerata da sempre un requisito minimo indispensabile per parlare di “guerra giusta”. E tuttavia l’accorato appello contro «l’inutile strage» lanciato nel 1917 da Benedetto XV, spesso citato proprio come spia di un nuovo orientamento “pacifista” della Santa Sede, conserva ancora un retrogusto intransigente. Magistero e apologetica del tempo, infatti, concordavano spesso nel considerare la Grande Guerra come la prova empirica della teoria secondo cui, venuto meno il riferimento univoco all’autorità normativa della Chiesa cattolica, a partire almeno dalla Rivoluzione Francese, la società europea non sarebbe più stata in grado di governarsi da sola e non avrebbe potuto far altro che autodistruggersi («“Fate pure da voi”, disse Dio – e il mondo andò in pezzi», come ebbe a scrivere De Maistre). Posizione, questa, che sarebbe stata certo più credibile se le conferenze episcopali nazionali, come quella francese o tedesca, non avessero indossato l’elmetto con sin troppa nonchalance, e, confondendo Dio con la patria, non avessero invitato a travolgere, rispettivamente, i nipotini di Lutero o di Robespierre – perché è sospetto lamentarsi che non c’è la pace, se poi sei tu stesso a fomentare il disordine, dimostrando per inciso che del Vangelo e del suo invito a non considerare più né Giudeo né Greco ci hai capito davvero poco. D’altra parte, e coerentemente con queste premesse, proclamare che solo la pace di Cristo può davvero salvare il mondo e al contempo boicottare tutti i tentativi laici finalizzati alla costruzione di organismi sovranazionali per promuovere la risoluzione non violenta dei conflitti, come la Società delle Nazioni, era tutto sommato un modo per rivendicare in modo esclusivo al Vicario di Cristo il ruolo di supremo arbitro internazionale, in conformità con una visione fortemente idealizzata del Medioevo, presentato nei termini di un sistema ordinato e armonico quale mai realmente esso fu. Che l’orrore suscitato dalla guerra non autorizzi a concludere che ogni pace sia di per sé “giusta” è un assunto da tenere bene a mente; meno condivisibile è invece far discendere da questo principio la conclusione secondo cui, piuttosto che finire sotto chi sembra minacciare i valori cristiani (soprattutto se “rossi”, con più indulgenza se “neri”), sia preferibile l’apocalisse. Neppure un evento che per altri aspetti costituì un punto di non ritorno nella discussione sulla liceità della guerra come l’invenzione della bomba atomica scalfì questa convinzione, se è vero come è vero che, in un radiomessaggio del 1956, Pio XII lasciò intendere, sia pure in felpato linguaggio diplomatico, che l’uso di tale arma sarebbe stato moralmente giustificabile qualora i comunisti, dopo l’intervento a Budapest, avessero seriamente minacciato di invadere l’Occidente.
Non che non ci fossero voci dissonanti, nel mondo cattolico - spesso provenienti da percorsi ecumenici -, ma fin qui trovarono poco ascolto. Lo snodo decisivo fu il papato di Roncalli, e in particolare le intuizioni consegnate alla quantomai profetica Pacem in terris, in particolare l’esortazione rivolta agli uomini di buona volontà, dietro la quale c’è il riconoscimento di un possibile impegno comune per la pace mondiale che non si risolva in una semplice ricapitolazione di tutte le cose sotto il vessillo della chiesa romana, e l’esplicita affermazione secondo cui, nell’era atomica, ricorrere alla guerra è assolutamente contrario alla ragione, e dunque anche alla stessa legge naturale, con buona pace del predecessore (e pazienza se l’incisiva versione latina alienum a ratione sia stata annacquata da qualche manina nella prodigiosa perifrasi italiana «riesce quasi impossibile pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia»). Questa progressiva circoscrizione dei margini di legittimità della guerra giusta non significava però eliminare del tutto la liceità del principio; al contrario, lo sfocarsi dei parametri tradizionalmente presi in considerazione rendeva, se possibile, ancora più necessaria la funzione interpretiva del papato, che – con Montini – parve nuovamente avocare a sé il potere di dirimere tra conflitti “buoni” e “cattivi”. Erano, del resto, anni problematici, segnati in primo luogo dagli eventi del Vietnam, ma più in generale da tutte quelle lotte per l’emancipazione del mondo coloniale che, seppur animate dalle ineludibili esigenze di giustizia che lo stesso Paolo VI riconosceva nella Popolorum progressio, nel momento in cui si andavano a porre sotto la tutela sovietica, rischiavano anche di rafforzare il campo del materialismo ateo comunista, oltre che di mettere in discussione la tradizionale e rassicurante centralità di un’Europa concepita come facente tutt’uno con la Cristianità. D’altra parte, come non appoggiare invece analoghi moti di ribellione in nome della libertà contro i regimi del sedicente socialismo realizzato?
Tali tensioni esplosero, com’era naturale che fosse, con l’avvento del papa polacco, il quale però, convinto com’era che tutte le contraddizioni potessero riconciliarsi nella sintesi superiore del suo carisma personale, anche sul tema della guerra e della pace disseminò il suo pontificato di parole e azioni diversissime, in grado di poter offrire facile supporto a chi volesse garantire una copertura petrina a posizioni anche significativamente diverse fra loro. Nonostante queste oscillazioni, restano però dei punti che, considerati retrospettivamente, sembrano più fermi di altri. Dagli incontri interreligiosi di Assisi fino alla freddezza manifestata nei confronti della retorica della crociata impiegata da Bush figlio e dai suoi consiglieri neo-con ai tempi dell’intervento in Afghanistan e in Iraq, passando per le richieste giubilari di perdono, una delle perle di Giovanni Paolo II è stata infatti senz’altro quella di aver tolto ogni sostegno all’idea che si possa fare la guerra “in nome di Dio”. E quand’anche si fosse trattato, almeno in parte, di una mossa estrema per salvaguardare il primato del sacro nell’ordine politico, nondimeno sembra che l’idea abbia attecchito e prodotto già qualche primo germoglio positivo. Sarà poca roba, ma in un’epoca nella quale stanno riemergendo pulsioni belliciste che pensavamo ormai superate, si può sperare che almeno su questo punto non si torni più indietro.
(finito il 2 luglio 2022)
Ho parlato di
Chiesa, pace e guerra nel Novecento.
Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti
(Il Mulino 2008)
336 p. | 27 €