giovedì 20 dicembre 2018

Cosmocopia

Quando ho comprato questo libro in edicola ho istintivamente pensato che il titolo andasse letto “Cosmocopìa”, con l'accento sulla i. E invece no, sbagliavo. Ci sarei dovuto arrivare da solo, ma per sicurezza a un certo punto l'autore te lo dice chiaramente che sta giocando col termine cornucopia, proiettato su scala galattica. Paul Di Filippo, del resto, è un noto pasticheur, uno che ama mescolare le carte e i generi, con risultati talvolta divertenti talvolta semplicemente strampalati. La sua opera forse più nota, la Trilogia Steampunk (che a me peraltro non è dispiaciuta), è piena di crossover in cui, per dire, personaggi e atmosfere lovecraftiane si fondono letteralmente con quelle melvilliane. Ma lì è anche un po' il genere stesso che trascina in quella direzione, in quanto vive di citazionismo vittoriano – e deve piacere. Qui invece siamo in presenza di una sorta di libero e consapevole tributo alla sfrenata creatività dell'arte, intesa come una forza debordante di natura quasi sessuale, sotto le spoglie di un romanzo direi più lisergico che propriamente fantascientifico. Pure come racconto è piuttosto debole, un pretesto per mettere appunto in fila invenzioni linguistiche e concettuali, alcune suggestive altre un po' stucchevoli, forse persino troppe per non venire a noia, alla lunga (e anche un tantino ambiziose, nelle premesse, rispetto ai risultati effettivamente raggiunti: proprio in questi giorni ho visto il film Arrival e lì il problema della traduzione tra sistemi simbolici totalmente alieni è affrontato con molta più cura rispetto a questo libro, dove è un po' tutto buttato in caciara. Di Filippo sembra quasi che ti dica “ehi, man, ci avevi mai pensato a questa cosa qui?”, si vede che si diverte un sacco a descrivere un rapporto erotico tra creature fisiologicamente differenti, poi però non ha la capacità, o forse la voglia, di dare autentico spessore al discorso). 

Il simbolo di questa incontinente immaginazione è – appunto - la Cosmocòpia del titolo, da pensarsi, si dice a un certo punto, «come una serie infinita di universi accatastati uno sull’altro, ognuno leggermente più largo e di conseguenza più esile del precedente. Risalendo indietro per tutta la lunghezza della Cosmocopia, gli universi diventano sempre più piccoli, finché si raggiunge il punto terminale… o per meglio dire, l’origine, l’Omphalos, che è al tempo stesso privo di dimensioni e tuttavia infinito, poiché racchiude il seme di tutto ciò che doveva venire. In questo punto risiede il Conceptus, colui che ha dato origine alla Cosmocopia e continua a informarla di sé. Il Conceptus ha manifestato la Cosmocopia come espressione della propria volontà e natura. Tutto ciò che vediamo, tutto ciò che sarà, su ogni piano, è insito nel carattere del Conceptus». Anche qui niente di nuovo, se non l'ennesima ripetizione dell'inesauribile mito neoplatonico dell'Uno traboccante di essere che lo stesso Plotino aveva cercato di descrivere con varie metafore complementari. Fatto sta che un anziano artista colpito da un ictus e ormai a corto di idee, Frank Lazorg, riceve da un vecchio conoscente caraibico un pacco dono contenente dei preziosissimi escarabejos psicodelicos: in teoria servirebbero per ricavarne un pigmento di una tonalità assolutamente inedita; in pratica, Lazorg comincia a succhiare i grani di questa sostanza dal nome parlante, riacquista la creatività perduta e si imbarca in un vero e proprio trip, quasi fosse catturato all'interno di uno dei suoi dipinti visionari. 

Da quel che si capisce ha invece fatto un salto verso il centro assoluto del sistema. Finisce così in un mondo dove esistono creature bizzarre come l'acqua viva (una sorta di gel che si muove lungo tutto il tuo corpo assorbendo la materia estranea e lasciandoti pulito come dopo un bagno o una doccia), umanoidi che hanno gli organi genitali al posto della bocca e per questo girano incappucciati, esseri al limite del pensabile come il volvox («di forma geometrica a multiple sfaccettature simmetriche, (...) era dotato di una pelle verde lustra, leggermente umida, la cui struttura cellulare macroscopica era del tutto evidente, ogni cellula munita del proprio nucleo e apparato vitale. Sotto alla pelle dell’essere, per il resto completamente vuoto, all’interno, si intravedeva lo scheletro, intricato e leggerissimo»). Qui, famelico di novità, impara una tecnica artistica più pura di quelle figurative diffuse fra di noi, consistente nella capacità di individuare con una bacchetta le increspature presenti nei nodi interstiziali della realtà, aprirle e modellare la materia primordiale che ne scaturisce, come da un piccolo big bang, in manufatti chiamati “ideazioni”. Non pago di ciò, a un certo punto il nostro si mette in testa di scendere fino al punto da cui tutto ha inizio (d'altronde l'opera a cui sta lavorando quando inizia il suo viaggio era un rifacimento personale dell'Origine del mondo di Courbet) per prendere per il collo nientemeno che il Creatore e inchiodarlo alle sue presunte responsabilità, come farebbe un bravo gnostico. Solo che la sua quest finisce quasi subito e della fantasmagorica Cosmocopia noi alla fine non vediamo che una misera periferia. Sarà pure stata una lettura da spiaggia, ma alla fine mi è mancato l’arrosto.

(finito il 22 agosto 2018)

Ho parlato di


Paul Di Filippo
Cosmocopia
(Mondadori, 2018)

(Urania 1653) 

trad. di M. Jatosti

182 pp. | 6,50 €

(ed. or.: Cosmocopia, 2008)

venerdì 14 dicembre 2018

Guerra giusta e schiavitù naturale

Se non aveste mai sentito parlare di Juan Ginés de Sepulveda, potete immaginarvelo come un ospite fisso dei talk-show televisivi in quota teo-con, uno di quelli invitati apposta per soffocare con argomentazioni dotte, sottili e spesso provocatorie il facile sentimentalismo dei soliti buonisti a proposito dell'invasione degli immigrati islamici (che ne so? Una specie di Luttwak). Dato però che questo Sepulveda visse nel XVI secolo, quando gli invasori eravamo noi, il ruolo che si ritagliò allora fu ovviamente quello di apologeta della conquista spagnola delle Indie (non c’è da stupirsi: ancora oggi Salvini si fa i selfie davanti ai poster dei pellerossa come se niente fosse). Lo fece, tra l’altro, in un contesto particolarmente solenne, quello della disputa appositamente convocata a Valladolid nel 1550 dall’imperatore Carlo, tormentato dal sospetto che la sua anima di scrupoloso principe cristiano potesse essere gravata da colpa mortale per tutto quello che era stato combinato in suo nome oltreoceano.

Per l'occasione, Sepulveda rimise a nuovo le tesi espresse in un testo a cui era stata fino a quel momento vietata la pubblicazione, il Democrates alter. L'idea per sommi capi era questa. I re di Spagna si erano imbarcati nell'avventura americana su mandato papale, con lo scopo dichiarato di portare il Vangelo nel Nuovo Mondo – e tanto sarebbe dovuto bastare a garantire loro che nessun altro sovrano si intromettesse nella faccenda. Ma poiché l'autorevolezza papale, in tempi di pasquinate e sacchi di Roma, non pareva sufficientemente forte, parve utile escogitare altre ragioni, basate su principi diversi e più solidi, per garantire la legittimità della conquista. É in fondo lo stesso problema che si era posto anche Vitoria a Salamanca, quando aveva sostenuto che l'unica giustificazione possibile della guerra contro gli indios sarebbe potuta essere l'eventuale negazione, da parte loro, di un diritto naturale fondamentale degli uomini, quale la libera circolazione delle persone o delle merci. Sepulveda, invece, da umanista qual era, trovò la sua soluzione nelle prime pagine di quella Politica di Aristotele da lui stesso ritradotta in buon latino, e precisamente in quel passo sconcertante in cui si parla espressamente di “guerra giusta” per indicare una particolare forma di caccia che ha per oggetto gli uomini naturalmente inferiori e perciò altrettanto naturalmente destinati a servire i loro razziatori come schiavi. E chi più degli indios scoperti da Colombo poteva corrispondere a questa definizione? Vanno in giro nudi, non hanno istituzioni stabili, vivono in villaggi di capanne. Quanto a Incas e Aztechi, avranno anche parvenze di strutture statali e discreti gusti architettonici, ma gli orrendi sacrifici umani con cui condiscono le loro liturgie lasciano pochi dubbi sula loro natura semiferina. Tutto ciò è contrario alla legge naturale che Dio ha scritto nel nostro cuore – e che per sicurezza ha poi dettato anche nella Bibbia: violandola, gli indigeni sono rei di un'offesa a Dio che va punita e risarcita (e proprio per questo il papa ha piena giurisdizione in materia e la può delegare ai sovrani). Non solo – e qui sta il tentativo di scacco al re: distogliendoli con la forza dalle loro pratiche idolatriche, si compie nei loro confronti una vera opera di misericordia cristiana, perché li si salva da una destino di dannazione eterna. Suvvia, come si può accusare di violenza chi trattiene energicamente un uomo perché non finisca in un burrone? Quelli che lo fanno, quei profeti disarmati che vorrebbero presentarsi come pecore in mezzo ai lupi e provano orrore per ogni goccia di sangue versato, semplicemente dimostrano di non amare sul serio quegli indios che tanto coccolano, perché senza un intervento diretto costoro, da soli, non saranno mai in grado di tirarsi fuori dalle tenebre in cui sguazzano. Lo dice anche il vangelo: costringili a entrare! Bei pacifisti, quelli, che per non sporcarsi le manine fanno invece morire migliaia di innocenti negando loro un aiuto in attesa di una conversione pacifica che chissà se e quando mai arriverà! 

Animato da un sincero risentimento verso l'irenismo erasmiano (se il cristianesimo fosse davvero una folle religione di pace, avrebbe allora ragione Machiavelli nel dire che i cristiani sono imbelli rispetto agli antichi e virtuosi pagani), Sepulveda si ritrova a sostenere questo complesso di idee di fronte a Bartolomé de Las Casas, che a Valladolid assume invece le parti di difensore degli indios. La cosa forse più interessante è che questi due sfidanti sono, com’è ovvio, entrambi figli del loro tempo e, cosa un po’ meno ovvia, ragionano entrambi a partire dalle stesse autorità di riferimento. Anzi, dei due forse il più moderno è proprio Sepulveda, con il suo richiamo al vero Aristotele anziché a quello battezzato da Tommaso, e con la sua spregiudicata logica laica di potenza mondana («nel corso del Cinquecento (…) si poteva confutare Machiavelli e nello stesso tempo recepire del suo pensiero»). Si tratta, però, di una modernità solo apparente. Per come la vedo io, la scoperta del Nuovo Mondo pose sul piano giuridico e morale lo stesso genere di sconcertanti problemi che la rivoluzione copernicana poneva in campo astronomico: esploso l’orizzonte chiuso medievale, l’ordine che la scolastica aveva ingegnosamente cercato di edificare non tiene più e affiora urgentemente l’esigenza di ricostruire da capo un ordine nuovo. La mossa di Sepulveda consiste nel sovrapporre progressivamente l’idea di umanità a quella di cristianità, in modo da far sempre più coincidere il concetto di evangelizzazione con quello di civilizzazione, inaugurando uno schema di pensiero che sarà ancora operante quando Kipling parlerà a fine Ottocento del fardello dell’uomo bianco. In questo modo cambiano i totem, non la sostanza. La natura diventa il termine di riferimento di un ordine già dato, valido anche se Dio non ci fosse (che è poi un po' la stessa logica capziosa che usava Ruini con il suo “progetto culturale”). L’umano comune resta gerarchicamente strutturato e il diritto naturale può tranquillamente girare armato. Sebbene sotto una patina terminologica depurata di riferimenti religiosi, la politica resta ontoteologica. Un solo re, un solo battesimo, una sola fede, una sola cultura.

L'alternativa sembrerebbe essere il riconoscimento di un insuperabile relativismo, che però – su basi opposte, scettiche – rischierebbe di compromettere la possibilità di tessere una qualche forma di orizzonte comune per tutta l’umanità, che non è una perdita da poco. Las Casas cerca di aprire una terza via, provando a porsi espressamente dal punto di vista dei nativi, «il che mostra che una dottrina universalistica dei diritti umani non comporta necessariamente la giustificazione di un “intervento umanitario” armato per difenderli, ma può anche sopportare la tolleranza e il riconoscimento dell’alterità». In realtà anche per lui si dà un’oggettiva superiorità del cristianesimo, e ciò che occorrerebbe fare sarebbe accompagnare passo passo gli americani perché raggiungano il livello di civiltà già acquisito dagli europei (i quali, anticamente, non erano meno barbari di questi moderni selvaggi), ma poiché il solo modo per annunciare la vera fede è quello non-violento praticato dallo stesso Gesù, finché lo si predica a schioppettate, l'unica guerra giusta è quella che gli indigeni intraprendono per difendersi da quella che è a tutti gli effetti un'illecita aggressione, materiale e simbolica, nei loro confronti. Non è poco, per un confratello e connazionale di Torquemada. Da un lato c'è una concezione del progresso che non fa sconti, dall'altra una visione della storia dalla parte delle vittime, per cui nessun fine giustifica i mezzi, nessun oggetto può schiacciare il soggetto. Da un lato una concezione istituzionale della salvezza, vincolata al battesimo terreno; dall’altra un affidamento alla volontà divina del destino ultraterreno di chi, spesso per colpa dei cristiani stessi, non ha ancora conosciuto Cristo. Va beh, sì lo dico, da una parte Hegel, dall’altra Benjamin. L’Occidente è entrambe le cose.

Questo libro a più voci, che raccoglie i risultati di un convegno tenutosi nel 2010, cerca appunto di sviscerare tale intricato complesso di questioni filosofiche e giuridiche, con un occhio molto attento alla nostra contemporaneità e alle discussioni intorno alla legittimazione fornita per gli interventi umanitari del recente passato, dal Kosovo all’Afghanistan. Se siamo ancora lì a parlarne perché in fondo non abbiamo ancora sciolto il nodo di come conciliare universalismo e pluralismo. 

Ps: Alla fine Sepulveda uscì sconfitto a Valladolid e le sue opere rimasero inedite. Las Casas vinse, ma la conquista, di fatto, non si fermò – anzi. Il che conferma una volta di più che il sedicente “potere dei più buoni” è solo sulla carta.

(finito il 13 agosto 2018)

Ho parlato di



Marco Geuna (a cura di)
Guerra giusta e schiavitù naturale. 
Juan Ginés de Sepulveda e il dibattito sulla Conquista
(Biblioteca Francescana, 2015)


320 pp. | 24 €

venerdì 7 dicembre 2018

Armi, acciaio e malattie

Piccolo aneddoto con doppia morale. Di ritorno da una lezione in università, un giovane studente di filosofia incontrò un giorno un giovane professore di storia di fronte all’invitante scaffale di una libreria centrale di Torino. Esauriti i convenevoli, il più grande dei due d'improvviso esclamò, con postura a metà tra il penitente e l'uomo di mondo: “ma lo sai quanti libri mi è capitato di citare senza averli mai letti? Questo, per esempio” - e afferrò uno di quei superclassici effettivamente troppo noti per prendersi pure la briga di perderci del tempo sopra (eddai, che gusto c'è se conosci già l'assassino?). L'altro ne restò un po' sconfortato. All'epoca credeva ancora che una vita sola fosse sufficiente per leggere quantomeno l'essenziale, mentre quel colloquio cominciò ad aprirgli gli occhi su come andassero davvero le cose una volta usciti dalla bambagia dell'accademia. Però su una cosa almeno pensava di poter resistere: si parla solo di ciò che si legge davvero, non si discute. 

E invece no, ci sono cascato anch'io – e pure un sacco di volte, anche in contesti seri e solenni, perché si fa presto a dirsi socratici, ma poi al dunque spesso si cede e ci si ritrova – per capriccio, gioco, per necessità - a far finta di sapere. Per dirne una, stando a quanto da me scritto in una delle risposte alle domande del concorso a cattedra, io questo libro qui dovrei averlo letto almeno due-tre anni fa, eppure eccomi qua. Per la verità non si trattava di una mera millanteria. Ne avevo sul serio divorato una parte, in una versione digitale, assimilando, per così dire, il nocciolo della questione. L’idea – cioè - per cui la ragione della conquista europea del Nuovo Mondo andrebbe ascritta a processi iniziati più di diecimila anni prima, con la rivoluzione agricola nel Neolitico; e poi che la diversità fra le culture andrebbe spiegata in termini geografici e ambientali anziché su basi biologiche; e che la storia potrebbe e dovrebbe essere trattata come una scienza a tutti gli effetti (con tanto di esperimenti), ma con un metodo tutto suo, che richiede un continuo scambio interdisciplinare e un intreccio di competenze – e poi tante altre cose ancora che mi sembra vano elencare perché mi sembrerebbe di raccontare la favola di Cappuccetto Rosso. Questo testo arguto e pieno zeppo di domande, capace di saltare dalla paleobotanica alla sociologia delle migrazioni, animato da una curiosità vorace e dal coraggio di muoversi su una scala temporale che, come recita il sottotitolo, copre la “storia del mondo negli ultimi tredicimila anni” mi aveva a tal punto appassionato che, giunto più o meno a un terzo dell'opera, decisi di comprarlo in edizione cartacea, perché pensai che libri come questo uno che fa il mio mestiere deve possederli, pasticciarli, consumarli a forza di ritornarci sopra, portarli in classe e magari imprestarli anche ai suoi studenti. 

Di che genere di libri sto parlando? Di quelli che, per un motivo o per l’altro, segnano uno snodo importante nella storia intellettuale, introducono categorie promettenti per provare a comprendere il mondo in cui viviamo, sfruttando tutte le potenzialità di cui una ragione attenta alla complessità può servirsi, sia sul piano tecnologico che su quello metodologico. Libri che possono finire nelle mani di un diciottenne e offrirgli una chiave d'accesso a una realtà che è o sarà la sua, e non quella di un suo coetaneo del Seicento o dell'Ottocento (il quale giustamente leggeva di nascosto i libri che oggi facciamo leggere a scuola). Libri che posso mostrare a quegli allievi che ogni anno mi chiedono se esistono ancora dei filosofi viventi, dal momento che quelli di cui parliamo di solito sono tutti morti. Libri in cui le discipline dialogano fra loro in modo intelligente, mostrando che è bene per uno storico saperne di genetica come è bene per un medico saperne di poesia, perché la ragione sarà pure una sola come diceva Cartesio, ma è multiforme, è plastica, non può pensare di ritagliarsi un angolino grazie alle sue regolette per poter dire che quello è il mondo vero e tutto il resto è letteratura. Ecco: esistono libri di questo tipo, che un corpo docente aggiornato (direi di più: un qualsiasi professionista, sia avvocato o economista) dovrebbe conoscere a prescindere dalle rispettive aree di competenza e che degli studenti interessati potrebbero sfogliare con la stessa sensazione di stare sul pezzo che potevano avere i giovani hegeliani quando sentivano parlare il loro maestro? Non smetterò mai di suggerire la lettura diretta dell’Apologia di Socrate, ma non ci si può neanche fermare lì. 

Non è a un canone normativo, ovviamente, che penso. Però, in questi anni in cui le edicole traboccano degli allegati più disparati ai quotidiani ho già visto trite e ritrite ristampe filosofiche (che per bene che vada si spingono al massimo ad Heidegger e Popper), diverse proposte di storia e anche alcune collane di taglio più scientifico: possibile che nessuno abbia mai pensato a una raccolta tipo “i grandi classici per capire il presente” o “i grandi pensatori di oggi”, “i venti libri che ci aiutano a comprendere il mondo contemporaneo”? Una traccia, una pista, dei punti di riferimento per gettare qualche ponte fra continenti sempre più alla deriva: non chiedo altro. Toccasse a me stilare una proposta, Armi acciaio e malattie (che nel frattempo ho finalmente ripreso e concluso) lo inserirei di sicuro. Quali altri volumi potrebbero fargli compagnia?

(finito l'11 agosto 2018)

Ho parlato di


Jared Diamond
Armi, acciaio e malattie.
Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni
(Einaudi, 2014)

400 pp. | 14 €

(ed. or. Guns, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies, 1997)

giovedì 22 novembre 2018

Il simpatizzante

Ammetto di aver sempre avuto una particolare predilezione per quelli che Parmenide avrebbe definito con sarcasmo “uomini dalla doppia testa”. Non che mi piaccia avere a che fare con chi cambia idea dalla sera alla mattina, né tantomeno amo discutere con chi si autocontraddice in modo così spudorato da non potere mai avere torto, ma ho sempre pensato che una qualità essenziale dell'intelligenza consista appunto nella capacità di mantenere sempre aperta un'alternativa all'ordine del proprio discorso, pena il rischio di irrigidirlo irreversibilmente in dogma, peggio ancora in tormentone, e ridurre noi stessi a macchietta anziché sapiens. Ci sono pur sempre delle differenze tra Socrate con il suo demone e tutta la cabala dei sofisti, anche se non è sempre facile coglierle a un primo sguardo. Scriveva Montaigne in quel passo luminoso che guida il mio cammino: «se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei. Essa è sempre in tirocinio e in prova». 

Ciò detto, si capisce perché abbia provato immediata simpatia per il “simpatizzante” che dà il titolo a questo libro e che così si presenta all'inizio di quella che – come si capirà – è a tutti gli effetti una confessione, un disperato tentativo di provare a fissare gli indefinibili contorni della sua eccentrica personalità: «sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce. E un uomo con due menti diverse, anche se questo probabilmente non stupirà nessuno. Non sono un mutante incompreso, saltato fuori da un albo a fumetti o da un film dell'orrore, anche se c'è chi mi ha trattato come se lo fossi. Sono semplicemente in grado di considerare qualunque argomento da due punti di vista antitetici». Se lo ritenga un pregio o un difetto, un punto di forza o di debolezza saranno le successive cinquecento pagine a cercare di mostrarcelo, senza riuscirci peraltro fino in fondo, perchè se no il giochetto salterebbe per aria (quello che invece è certo è che per i suoi avversari, che ragionano con l'accetta, si tratta di una colpa imperdonabile: sei «una strana creatura che riesce a vedere tutte le cose da due prospettive diverse. La gente come te deve essere purgata perché rischia di contaminare e distruggere la purezza rivoluzionaria»). 

Le ragioni di questa peculiarità cognitiva è presto detta, inscritta com'è nel destino personale di quest'uomo, di cui per tutto il libro, significativamente, non salta mai fuori il vero nome (l'appellativo preferito è “il Capitano”, per ragioni di gerarchia militare, e pertanto ne farò uso anch'io, sforzandomi di non pensare a quell'altro sedicente capitano che - al contrario - in un solo, unico, inesorabile e prevedibile modo pensa, parla e scrive, come un generatore automatico di post di se stesso). Figlio irregolare di un missionario francese e di una ragazza vietnamita - e dunque già bastardo per i suoi stessi compatrioti, che lo prendono per uno straniero, non diversamente da come fanno gli occidentali, per i quali un asiatico è ovviamente sempre e solo un cinese - una volta cresciuto, il Capitano si affilia segretamente ai vietcong e da loro viene inviato in America come borsista allo scopo di studiare la mentalità del nemico (tesi di laurea a Berkeley su “Miti e simboli nella narrativa di Graham Greene”), diventando infine un agente sotto copertura nella cerchia di collaboratori più stretti di un Generale del Sud, che se lo porta con sé in California dopo la caduta di Saigon, dove continua a fare l'informatore segreto dall'interno della comunità di esuli, costretto a fingere quotidianamente di essere quello che non è al punto da non riuscire poi più esattamente a capire bene quello che davvero è. Nel suo percorso formativo si mescolano infatti la Bibbia, le direttive della CIA e gli aforismi di Ho Chi Min, le canzonette pop americane e i testi fondativi del marxismo-leninismo, la giustizia sociale e l'edonismo borghese, in un intreccio inestricabile che rende impossibile fornire una risposta definitiva al dilemma sulla sua identità. Come era solita ripetergli la madre: «ricorda, tu non sei la metà di nulla, tu sei due cose insieme!». 

Il Grande Romanzo Americano approda così alla sua versione 2.0 trasformandosi in Grande Romanzo Meticcio, un po' The Americans, un po' Montesquieu., avventuroso e saggistico in egual misura. Certo, qui si parla di Vietnam e boat people – l'autore stesso è un accademico statunitense originario dell'Indocina – ma in filigrana si può vedere il nostro tempo, con gli immigrati di seconda generazione e le nazionali multietniche che non fanno che rendere evidente quello che in realtà è un dato di fatto, direi quasi biologico, che ci riguarda tutti o quasi: «la maggior parte degli esseri umani è composta da tante pagine diverse, e non da una sola». Il problema è che è così semplice costruire delle categorie e discettarci sopra come se fossero realtà effettive. L'Oriente e l'Occidente, l'americano e il vietnamita, i valori degli uni e quelli degli altri, l'islamico e il cristiano, dove il gioco resta in mano a chi ha il potere di costruire questo genere di rappresentazioni e di offrirle al resto mondo, magari sotto forma di blockbuster, perché ne tragga le volute conseguenze. Effettivamente, c'è da uscirne un po' frastornati da questa perenne ambiguità e a causa del suo continuo doppio gioco anche il Capitano perderà più di una volta l'innocenza, finché i casi della vita e la fedeltà a un legame di sangue e di amicizia lo riporteranno in Vietnam. Qui andrà incontro a un'ulteriore maturazione che lo spingerà, nelle ultime pagine del libro, ad adottare addirittura la prima persona plurale per parlare di sé. «L'unica, vera illusione ottica è quella che ci fa vedere gli altri e noi stessi come entità indivise e integre, come se essere sempre a fuoco fosse una condizione più autentica rispetto all'essere sfocati». E forse sì, ciò che oggi ci spaventa non è tanto “l'altro” in sè, per il quale si potrebbe provare anche una tranquilla indifferenza, quanto il fatto che esso porti a galla qualcosa che è sempre stata parte di noi, ma non siamo mai stati capaci di accettare fino in fondo.

(finito il 3 agosto 2018)

Ho parlato di


Viet Thanh Nguyen
Il simpatizzante
(Neri Pozza, 2016)

trad. di L. Briasco

512 pp. | 18 €

(ed. or.: The Sympathizer, 2015)

giovedì 25 ottobre 2018

L'anno dei dominatori

Fa sempre un po' effetto leggere un romanzo di fantascienza ambientato in quello che nel frattempo è diventato già il nostro passato. L’“anno dei dominatori” è infatti un ucronico 2010, in cui una specie aliena così evoluta da aver imparato a trapiantare le proprie menti in organismi ospiti stabilisce un primo contatto con l’umanità promettendo di rimettere in sesto il nostro pianeta devastato dal riscaldamento globale e dall’inquinamento. «Neppure quattrocento anni prima gli indiani avevano venduto l’isola di Manhattan agli olandesi per una cifra ridicola. Le nazioni della Terra, ora, avrebbero ottenuto ben di più»: la fusione fredda, gli impianti di dissalazione, le industrie alimentari, l’asfalto eterno... In cambio di tutto questo ben di Dio, si chiede solo la possibilità di costruire stazioni di transito attraverso cui dei corrieri appositamente selezionati e sufficientemente masochisti per sostenere il trauma del teletrasporto possano veicolare, impacchettate nei loro cervelli, delle coscienze aliene perché vengano trasferite da chissà dove nei corpi di tossici la cui identità è stata resettata dal consumo di una droga extraterrestre chiamata Beatitudine. Massimo riserbo sui dettagli dell’operazione e nessuna ulteriore informazione sulla tecnologia che la consente.

Ce n’è abbastanza per sentire puzza di bruciato: Timeo Danaos et dona ferentes. Curiosamente gli unici che senza saperlo fanno memoria di questo motto sono quegli stessi integralisti islamici che - si presume - avrebbero dovuto distruggere tutte le copie dell’Eneide prima o dopo aver fatto saltare in aria i Buddha di Bamyan. Il resto dell’umanità, invece, abbocca, ed anzi fa a gara per assicurarsi una linea diretta con i mondi alieni. Ahinoi, dietro le profferte di collaborazione interplanetaria si nasconde davvero un piano di conquista globale, previa ricostruzione di un habitat più consono alla vita rispetto a quello avvelenato che abbiamo allestito noi dopo appena trecento anni di industrializzazione. «Noi umani abbiamo sognato per secoli di viaggiare per lo spazio, di modificare la nostra biologia fino a diventare, in effetti, gli alieni delle nostre fantasie. Invece, è il contrario. Gli alieni diventeranno noi». É la nemesi del colonialismo. Non per nulla, l'invasione comincia dalla Gran Bretagna.

Ma l’occupazione della Terra non è che l’ennesimo passo di una storia cominciata molto prima e destinata a durare ancora a lungo, in vista di uno scopo ben più sofisticato che il mero dominio intergalattico. Questi non sono marziani da b-movies: dopo aver consumato il proprio ambiente natio ed essere trasmigrati via via in altri viventi, il loro «piano finale» consiste infatti nel «diventare degli esseri di pura energia e sopravvivere in qualche modo al collasso dell’universo, da qui a qualche miliardo di anni, e continuare a vivere in un coraggioso, nuovo universo. (...) Con ogni mondo che conquistano, sembra che ottengano qualche nuova conoscenza, e questa è la ragione tre della loro pirateria planetaria. Mettete insieme abbastanza conoscenze, e forse sul lungo corso potrete diventare qualcosa di simile a Dio». Sulla Terra, però, questi Finti-Uomini (Mockymen, titolo originale del romanzo) si imbattono anche in qualcosa di inaspettato ed estremamente interessante per i loro esperimenti metempsicotici, vale a dire un ex-SS che, a coronamento di un rituale nazi-tibetano consumato nel parco Vigeland di Oslo (dove si sarebbe dovuto svolgere il Ragnarok ariano, il supremo conflitto spirituale contro le forze nemiche), riesce a reincarnarsi in un proprio discendente con un supremo, titanico, sforzo di volontà - perché «una volontà adeguatamente mirata può ottenere qualsiasi cosa». Sta a vedere che i fanatici dell’antica Thule ci avevano visto giusto: tutto l’armamentario misticheggiante coltivato nel loro circolo «credo che fosse una visione del futuro, un’intuizione della venuta dei Finti-Uomini, superiori a noi, a occupare i nostri corpi umani, a prepararsi per soppiantarci. Si mascherano come uomini. Il nazismo fu mal diretto, eppure il nazismo parlava di ebrei tra noi come membri di una specie differente che si mascheravano come esseri umani». Immagino sia più o meno la stessa poltiglia ideologica che marciva nella testa di Breivik quando escogitò la strage di Utoya. Per paradosso, a salvare capra e cavoli ci penserà (con l’appoggio dei mullah e lo zampino dei servizi segreti di sua Maestà) un manipolo di alieni alienati, pronti a tradire il loro stesso sangue per salvaguardare il pluralismo biologico dell’universo.

Come spesso capita con questi romanzi, la trama si ingarbuglia e ti confonde, muovendosi tra noir scandinavo, spy-story spaziale e utopia postumana, però vuoi mettere il gusto di starsene spaparanzato in spiaggia fantasticando di menti disincarnate, nuove soglie della coscienza cosmica, Sé che diventano qualcos’altro travalicando le barriere dell’Io e altre diavolerie del genere mentre lì intorno imperversano le solite, interminabili partite a racchettoni?

(finito il 29 luglio 2018)

Ho parlato di


Ian Watson
L'anno dei dominatori
(Mondadori, 2018)

(Urania Collezione 185)

trad. di C. Scerbanenco

266 pp. | 6, 90 €

(ed. or.: Mockymen, 2003; 1ª ed. italiana 2005)

giovedì 18 ottobre 2018

La lezione sugli indios di Francisco de Vitoria

Io non capisco molto quei libri in cui si sottrae spazio al testo per corredarlo di prefazioni e postfazioni che si potrebbero riassumere nel fantozziano “è un bel direttore!” applicato, nella fattispecie, all'autore. Grazie tante. Purtroppo questa è la versione del De indis che sono riuscito a recuperare e me la sono dovuta far piacere (con meno salamelecchi ne sarebbe venuta fuori senza problemi un’edizione integrale; so che ne esiste un’altra in italiano, più scientifica, ma com’è difficile studiare fuori dal circuito delle biblioteche specializzate!). Che poi, editorialmente parlando, un suo perché questo volume ce l’avrebbe pure, inserito com’è in una collana di presentazione di quei classici del pensiero cristiano che hanno esercitato un’influenza persistente sulla cultura occidentale, come le Confessioni di Agostino o la Summa di Tommaso. L’inserimento di Vitoria in questa Hall of fame è meno scontato, e anche se può apparire un po’ come una foglia di fico stesa sul genocidio americano, ha il valore di una definitiva presa di coscienza. L’idea è che la sua importanza risieda nell’aver riconosciuto agli indios piena dignità umana e correlativi diritti – e questo sicuramente è vero; resta da vedere se sia proprio questo il suo lascito autentico e duraturo (e su questo ho purtroppo qualche dubbio). 

Francisco Vitoria appartiene a quel gruppo di teologi spagnoli che, nel cuore del Cinquecento, si proposero di ristrutturare l’ordine cristiano elaborato dalla Scolastica alla luce delle nuove sfide lanciate dall’incipiente modernità – tra cui, appunto, la scoperta di quel Nuovo Mondo che le tradizionali categorie giuridico-teologiche codificate in epoca medievale facevano così fatica a inquadrare, evidenziando le stesse difficoltà di tenuta che, di lì a poco, avrebbero incontrato gli argomenti aristotelici di fronte all’esplosione dell’universo copernicano. Lo sforzo è ragguardevole e merita attenzione. Dimostra anche l’ardire di una teologia che non esita a esporsi su delicate questioni di pubblico interesse, non solo con generici per quanto benemeriti appelli, ma con tutto il pathos di un ragionamento rigoroso capace di sgretolare le costruzioni ideologiche dei falsi devoti. In virtù di questo approccio, Vitoria si spinge a negare qualsiasi valore legale alle concessioni papali che avevano ratificato la spartizione del globo terrestre tra spagnoli e portoghesi subito dopo l’impresa di Colombo. C’è tutto un mondo, là fuori, su cui il papa non ha la minima giurisdizione – dice – e potrebbe forse non averla mai, almeno in teoria. In questo vasto mondo abitano popoli estranei all’orizzonte cristiano, ma non all’orizzonte umano, ed è semmai a partire da questa base comune che si può e si deve trattare con loro. Certo, questi americani sono un po’ strani, girano nudi e hanno abitudini sessuali quantomeno discutibili, eppure sanno gestirsi, possiedono magistrati, templi, mercati – indizi tutti di una forma di organizzazione diversa dalla nostra, ma legittima. Non ci si può semplicemente presentare, imporre loro (in latino) di sottomettersi a un’autorità remota e poi punirli perché non lo fanno. Sì, forse non farebbe loro male affidarsi alle più sapienti mani europee, come un figlio si affida a un padre o un discepolo a un maestro, per abbandonare quella situazione di oggettiva inferiorità, anzitutto tecnologica, di cui hanno dato prova e raggiungere quanto prima un grado di civiltà superiore, ma ci sono molti sospetti sul fatto che quelli che si presentano loro come pastori, inebriati di potere, non ne abusino trasformandosi in lupi per queste pecorelle (del resto, la rete di missionari domenicani forniva a Salamanca informazioni di prima mano sulle malefatte dei conquistadores, ed è anche per togliere loro ogni alibi che Vitoria incentra la sua prolusione magisteriale del 1539 su questo argomento: era ancora fresca la memoria della proditoria uccisione di Atahualpa in Perù ad opera di Pizarro).

E tuttavia, probabilmente al di là delle sue intenzioni, con questo suo modo di ragionare Vitoria finisce anche per consegnare ai suoi avversari un argomento destinato ad avere ben più fortuna di quelli formulati contro lo sfruttamento coloniale. Gli indios sono umani a pieno titolo, d’accordo; dunque, sono titolari degli stessi diritti e doveri riconosciuti agli altri uomini. Ora, fra questi diritti inalienabili rientra anche quello di muoversi liberamente su tutto il pianeta, senza restrizioni né ostacoli. Proprio così: «in effetti in tutte le nazioni è considerato inumano, se non vi è un motivo speciale, non ricevere gli ospiti, o ricevere male i pellegrini e, al contrario, si considera umano comportarsi bene con i pellegrini, a meno che i pellegrini seminino il male quando si recano nelle nazioni straniere». Siamo umani, apparteniamo alla stessa famiglia, è naturale (si badi: non “cristiano”) aprire la propria porta a un simile in difficoltà, come è naturale accostarsi a un connazionale quando ci si trova all’estero (solo che qui non c’è estero che tenga, poiché i confini sono una rete artificiosamente sovrapposta a quella patria comune che il mondo). Fa bene ripeterselo, e fa bene ripeterlo ai cantori delle nostre tradizioni: è questa la nostra tradizione! E allora via gli steccati e via le dogane: se gli spagnoli non hanno il diritto di depredare gli indios, gli indios non hanno dal canto loro il diritto di chiudere i porti agli spagnoli, qualora si presentino con la borsa a tracolla anziché armati di cannone. É già un passo in avanti, senza dubbio. Ma dove si va a finire, partendo di qui? Amitav Ghosh, in quel grandioso libro che è Mare di papaveri, ambientato al tempo della guerra dell’oppio, lo fa dire così a un commerciante inglese trapiantato in India: «La guerra, quando verrà, non sarà per l’oppio. Sarà per un principio, per la libertà... libertà di commercio e libertà del popolo cinese. Il Libero Commercio è un diritto conferito all’Uomo da Dio, e i suoi principi valgono sia per l’oppio sia per qualunque altra merce. tanto più che, mancando l’oppio, a milioni di nativi sarebbero negati i duraturi vantaggi dell’influenza inglese». Non c’è nessuna grande idea che non si riesca a pervertire. Guarda che fine ha fatto la sovranità popolare...

(finito il 19 luglio 2018)

Ho parlato di


Ramon Hernandez Martin
La lezione sugli Indios di Francisco de Vitoria
(Jaca Book, 1999)

Trad. di S. Casabianca

128 pp. | 13,43 €

domenica 7 ottobre 2018

Dal Nuovo Mondo all'America

Un manuale è quel tipico genere di libro che quando te lo fanno leggere, all'università, tendenzialmente non lo puoi capire (troppo compresso: in pratica ti pieghi a dei dogmi) e quando finalmente lo puoi capire, di solito non ti serve più (troppo superficiale: ormai sai già tutto quello che di essenziale c’è da sapere sull’argomento). Io, però, che sono ostinatamente metodico e pedante, quando sintonizzo le antenne su un certo argomento, tendo comunque a ripartire sempre dai fondamenti, e di testi così ne ho perciò mandati giù e ne mando ancora giù a palate, con la controindicazione non proprio irrilevante di ritardare, talora, la lettura di cose più interessanti, ma anche più peculiari. Così, non appena ho cominciato a immaginare un corso dedicato al confronto tra europei e americani agli albori dell’età moderna, la prima cosa che ho fatto è stata appunto quella di ordinare un agile volumetto di sintesi, per avere fra le mani il mio aggiornato status quaestionis e non correre il rischio di divulgare palesi castronerie, che è poi uno dei rischi della specializzazione (quante volte, passando da un’aula all'altra, scoprivi che molti illustri cattedratici, negli ambiti non di loro stretta competenza erano spesso rimasti fermi alle conoscenze acquisite quand'erano a loro volta studenti e adesso, passati trenta o quarant’anni, su certi temi ne sapevano meno di te che eri semplicemente stato attento alla lezione dell’ora precedente). E poi sono all'antica, non riesco a farne a meno: prima di parlare, mi documento. Una collana intitolata “Aulamagna” è quello che ci vuole – ed in effetti, in tre sezioni declinate in forma verbale (“Scoprire, esplorare, rappresentare”, “Conquistare, governare”, “Conoscere, descrivere, disputare”), sono qui riportati tutti i nomi e tutte le date che servono allo scopo.

Sarebbe però ingeneroso presentare questo testo come un mero bignamino. Ciò che Donattini traccia, in modo intelligente, è in effetti un perimetro delle svariate questioni che girano intorno a quelle che oggi magari ci vergognamo un po’ a chiamare ancora “scoperte geografiche” (perchè si è capito che i nativi sapevano di esserci, senza bisogno che arrivassimo noi a “scoprirli”), ma di cui si è tornati a sottolineare con forza, da un po’ di tempo a questa parte, l'assoluta centralità in ogni discorso che abbia a che fare con la modernità, sia dal punto di vista socio-economico, sia dal punto di vista culturale. A patto che si riconosca – ed è questa una delle idee-chiave del volume – la «reciprocità del cambiamento». Il contatto tra Vecchio e Nuovo Mondo, se fu devastante sul piano anzitutto materiale per quest’ultimo, si rivelò non meno shockante per il primo, costretto a ripensare dal profondo la propria identità e a rimettere in gioco molti dei propri presupposti (la comune derivazione da Adamo, per dire, ma anche l'ipotesi di possibili abitanti su altri pianeti), avviando quello che un altro storico ha definito la “fase di rullaggio” necessaria per il decollo industriale. Insomma, senza Colombo e senza Vespucci non solo non avremmo avuto Galileo e Cartesio, ma neanche Watt – e lì in mezzo, nel ruolo di voce della coscienza, più che Erasmo o Voltaire, il buon Montaigne.

La cosiddetta “scoperta” non va dunque intesa come un fatto puntuale, né unilaterale, e tanto meno come l’occasione per operare un semplice travaso di valori europei sulla vergine terra americana, ma si trattò di «un percorso mentale ricco e complesso, nel corso del quale lo scopritore giunge ad attribuire un senso alla realtà ritrovata, tale da integrarla nella sua visione complessiva del mondo: percorso che richiede un arco di tempo lungo per sistematizzare i propri risultati; nel caso dell’America, quasi due secoli...». Il risultato fu, in un primo momento, una ridefinizione dei rapporti di forza a livello planetario. D’altronde, lo slancio coloniale fu messo in moto da un desiderio di sottrarsi a una marginalità su cui agivano ancora le potenti mitologie medievali della reconquista ma anche, e soprattutto, la febbre mercantile di far fruttare il più possibile i propri investimenti (con buona pace di Max Weber, sembra che i banchieri fiorentini abbiano giocato un ruolo quantomeno analogo a quello svolto qualche tempo dopo dai loro colleghi puritani nel tessere la tela del capitale sull’intero globo terracqueo). Non è un caso che ormai tutti i libri di storia del liceo dedichino delle pagine all’ammiraglio cinese Zheng He e al perché le sue giunche non siano sbarcate a Lisbona prima che i portoghesi arrivassero a Calicut: nel momento in cui si comprende che la conquista dell’America non fu solo il «punto di partenza (...) di molte e complicate storie», ma anche il «punto d’arrivo di altre storie, molteplici e complicate a loro volta», si è capito che la storia d’Europa non può essere più raccontata senza considerarla congiuntamente a quella del resto del mondo. E se questo è già vero prima di Colombo, «dopo l’incontro nulla resta uguale a prima. Sul suolo americano piante, idee e uomini (americani ed europei), si confondono in una storia di meticciato progressivo, dagli esiti imprevedibili». Parlare dell’America del XVI secolo è allora come parlare del mondo odierno: con il vantaggio, però, che la prospettiva storica ci può rieducare a chiamare col loro vero nome ciò per cui oggi usiamo invece delle perifrasi edulcorate, per sedare la coscienza e occultare l’evidenza che non c’è problema che non sia globale e che non richieda soluzioni di carattere globale.

(finito il 6 luglio 2018)

Ho parlato di


Massimo Donattini
Dal Nuovo Mondo all'America.
Scoperte geografiche e colonialismo (secoli XV-XVI)
(Carocci, 2017)

208 pp. | 12 €

venerdì 21 settembre 2018

Dora Bruder

Ci sono scrittori che variano continuamente il loro menu e sono in grado di spaziare con ammirevole disinvoltura dalle piramidi alle astronavi, per dire, senza apparenti controindicazioni. Ce ne sono invece altri che sembrano come ossessionati da un’idea-madre, o anche da un’epoca, un luogo, un tema che torna e ritorna insistentemente nelle loro opere, dando quasi l’impressione che esse non siano altro che tentativi irrisolti e provvisori di riscrivere, meglio che si può, lo stesso libro. Una volta Camus osservò che «in fondo a se stesso, ogni artista custodisce un’unica sorgente che nel corso della vita alimenta quel ch’egli è e quello che dice». Ciò che per lui era stato il quartiere povero di Algeri, dov’era cresciuto con pochi soldi ma irrorato di sole, per Patrick Modiano è senza dubbio il biennio dell’occupazione tedesca in Francia: un vero e proprio buco nero della storia in cui finirono risucchiate le vite di migliaia di persone che non ne riemersero più, come se non fossero mai esistite. 

Una di queste è, appunto, la Dora Bruder del titolo e della foto riprodotta in copertina. Il suo nome compare in un trafiletto pubblicato su “Paris Soir” il 31 dicembre 1941, dove se ne denuncia la sparizione, con quegli scarni dettagli che si forniscono sempre in questi casi: l’età – quindici anni –, un ritratto sommario, i vestiti indossati al momento della scomparsa. Quando Modiano si imbatte per caso, oltre quarant’anni dopo, in queste poche righe, la sua fantasia di scrittore entra subito in azione, non foss’altro per il fatto che la famiglia di Dora abitava in una zona di Parigi che da bambino anche lui aveva regolarmente frequentato e conosceva bene (boulevard Orano, 18° Arrondissement, un po’ più su del Sacre-Coeur). Perché mai sarà scappata? – si domanda. E, soprattutto, dove sarà andata, e come avrà fatto questa adolescente a superare da sola l’insopportabile, gelido, inverno del 1942? Ci sarebbero i presupposti per ricavarne un racconto. Modiano, però, sceglie di non inventare nulla e intraprende un’altra strada. Con pazienza – gli ci vogliono anni – comincia a raccogliere indizi setacciando i documenti ancora reperibili negli archivi cittadini, molti dei quali prodotti diretti o indiretti della luciferina burocrazia nazista. Scopre così che i genitori di Dora erano due ebrei di origine austro-ungarica emigrati in Francia negli anni ’20; che all’arrivo delle truppe hitleriane, la coppia non aveva fatto registrare Dora come israelita, affidandola invece alla custodia di un convento di suore, e che proprio da lì era fuggita; che nella primavera successiva sarebbe poi scappata nuovamente (questa volta da casa: segno che nel frattempo era tornata); che sarebbe poi stata arrestata e infine destinata ad Auschwitz con il convoglio partito il 18 settembre 1942, esattamente 76 anni fa. 

Tutto questo negli stessi luoghi in cui Modiano, ignaro, andava da piccolo a far la spesa con la madre, in edifici e strutture che nel dopoguerra sarebbero poi state tranquillamente riconvertite ad uso civile. La caserma delle Tourelles, per esempio, usata dai tedeschi come campo di internamento: Modiano torna a visitarla, mentre segue la sua pista. «Dietro il muro si stendeva una no man’s land, una zona di vuoto e d’oblio. (...) Eppure, sotto quella spessa coltre di amnesia, si sentiva qualcosa, di quando in quando, un’eco lontana, soffocata, anche se nessuno sarebbe stato in grado di dire cosa, con precisione. era come trovarsi all’orlo di un campo magnetico, senza pendolo per captare le onde. Nel dubbio e nella cattiva coscienza, avevano affisso il cartello “Zona militare. Divieto di filmare o fotografare”». Lungo la strada per Drancy, altro infame luogo di prigionia, hanno invece «costruito un’autostrada, raso al suolo delle villette, sconvolto il paesaggio», per rendere quell’area periferica «il più grigia e neutra possibile». In certi quartieri si è proceduto a una vera e propria ricostruzione che ha fatto sparire le vecchie strade in cui avvennero le perquisizioni e le retate, «e i numeri delle case e i nomi delle vie non corrispondono più a niente». «Ho la sensazione di essere il solo a reggere il filo che collega la Parigi di quell’epoca a quella di oggi, il solo che si ricordi di tutti questi particolari. A volte, il filo si assottiglia e rischia di rompersi, altre sere la città di ieri mi appare con riflessi furtivi dietro quella di oggi». Si stenta a credere che la gente dovesse nascondersi proprio negli stessi luoghi dove poi tu saresti andato senza paura a giocare ai giardinetti, vero? 

Il materiale così raccolto non viene però riassemblato per fornire quella che sarebbe pur sempre una versione romanzata della vicenda di Dora e della sua famiglia. Al contrario, le informazioni recuperate servono piuttosto a far risaltare ancor di più quelle che mancano. «Scrivendo questo libro, lancio appelli, come segnali di luce che, sfortunatamente, dubito possano rischiarare il buio. Ma spero sempre». Del resto, mi pare proprio questa la più autentica cifra stilistica di Modiano, riscontrabile anche in altri suoi testi (di cui questo libro può essere considerato una sorta di chiave d’accesso, sospeso tra il saggio e la narrazione – ogni tanto, anche per questo, un po’ didascalico): «il vuoto che si prova davanti a ciò che è andato distrutto, raso al suolo» deve rimanere tale, come il segno permanente di un’assenza, come l’impronta che attesta il passaggio di qualcuno di cui però non si sa più nulla. Dora e i suoi genitori, del resto, «sono persone che lasciano poche tracce», ma queste tracce sono tutto quello che resta delle loro complicatissime vite – come per i migranti imbarcati sui gommoni affondati nel Mediterraneo, come per gli schiavi stipati sulle navi negriere, come per tutta quell’umanità ridotta a nuda vita e divorata da uno dei tanti olocausti della storia. Unire arbitrariamente i puntini, provare a fornire un’ipotetica cornice di senso, tradirebbe quello che è il significato autentico e straziante di un’esistenza interrotta e letteralmente perduta. Che però, proprio da questo scacco guadagna una, parzialissima, forma di riscatto: «ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l’inverno della sua prima fuga e nelle poche settimane di quella primavera in cui scappò di nuovo. É il suo segreto. Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità cosiddette d’occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo – tutto ciò che insozza e distrugge – non sono riusciti a rubarle». 

Ps. Però qualcosa che si può ricordare c’è: l’esempio di quelle donne francesi che ebbero il coraggio di indossare la stella gialla per solidarietà con le ebree, ma in modo insolente, per irritare le SS – chi attaccandola alla coda del cane, chi ricamandoci sopra nomi denigratori. Questi i loro mestieri: «dattilografa. Cartolaia. Giornalaia. Domestica. Impiegata alle Poste. Studentesse». Giusto per chiarire la differenza che passa tra popolare e populista.

(finito il 10 luglio 2018)

Ho parlato di


Patrick Modiano
Dora Bruder
(Guanda, 2011)

trad. di F. Bruno

136 pp. | 14,50 €

(ed. or., Dora Bruder, 1997)

mercoledì 29 agosto 2018

Illusione di potere

Poiché la mia sincronizzazione tra lettura e scrittura è paragonabile alla velocità dello streaming di Dazn, parlo del mio primo libro da spiaggia stagionale quando ormai la stagione è finita, e dagli esami di maturità sono passato a quelli di recupero. Pazienza. Spiaggia, dicevo, e dunque fantascienza, con un ripescaggio proveniente nientemeno che dall’altro millennio. Il bello di avere in casa una libreria personale che contiene sempre più libri di quelli che hai già letto è che ogni tanto puoi girare tra gli scaffali come se davvero fossi un po’ in una libreria autentica, se non addirittura a un mercatino dell’usato, e gustarti un godibilissimo imbarazzo della scelta, riscoprendo come se fossero sempre nuovi testi che invece sono lì da un po’. Questo volume, per dire, uscì dai torchi nell’estate del 1999, quella dei miei diciott’anni e dell’eclisse di sole, quando compravo a scatola chiusa qualsiasi Urania riportasse in copertina l’invitante trigramma di Philip K. Dick, avido di quel carico da novanta di paranoie, deliri e scarti tra realtà e illusione che sapevo vi avrei sicuramente trovato dentro – ma l’ho letto solo ora, e ci ho trovato dell’altro. Un po’ è l’età, ma va detto che rispetto a quell’ingenuo impulso adolescenziale si è nel frattempo incuneata, come un’intercapedine, la biografia dickiana di Carrère, che ha ulteriormente arricchito la stratificazione dei possibili livelli di lettura, sì, ma mi ha anche sparigliato un po’ le carte interpretative, aprendomi gli occhi su elementi che altrimenti non avrei più di tanto considerato. 

Il romanzo in questione è un caso esemplare: Dick lo tira giù nel 1966, un anno dopo il divorzio dalla terza moglie Anne, donna volitiva, forte, ma soprattutto capace di mantenere lui e le due figlie mentre Philip si barcamenava con lavoretti poco remunerativi. Scrive Carrère al riguardo: «per guadagnare quello che Anne considerava comunque poco, gli toccava lavorare a ritmi serratissimi. Le anfetamine gli permettevano di scrivere, se si impegnava al massimo, un romanzo in poche settimane; in due anni ne pubblicò una decina, ma a prezzo di atroci periodi di depressione. Si sentiva inadeguato, incapace di assumersi le sue responsabilità. Imbruttiva. Sotto la barba la sua faccia era diventata livida e gonfia. Grossi insetti neri ronzavano alla periferia del suo campo visivo. Ora Anne gli appariva come una nemica» (al punto da convincersi che lei lo volesse uccidere, finché riuscì a farla davvero internare per un certo periodo). E insomma, va bene le pecore elettriche, i simulacri e gli androidi, e va bene pure il sottotesto gnostico, il pleroma e la teologia paolina, ma la sensazione è che fantascienza e religione siano, almeno qui, depistaggi e coperture per affrontare un altro genere di ossessioni e cercare di venire a capo di una dolorosa vicenda personale.

A prima vista, in realtà, il contesto è quanto di più lontano si possa immaginare dall’interno familiare. In un futuro non troppo remoto, la Terra si ritrova presa nel mezzo di una guerra galattica tra due superpotenze aliene, alleata dell’una, ma pronta – se il caso – a chiedere l’armistizio e a schierarsi con l’altra, dal momento che a a tirare le fila della politica mondiale è un duttile italiano, il Segretario Generale dell’ONU Gino Molinari, capace di imbastire un pericoloso doppio gioco e di rinunciare alla sua anima, come il principe di Machiavelli, per la preservazione del pianeta - un misto di Lincoln, Mussolini e Gesù Cristo, si dice, e potete immaginarvi il guazzabuglio grottesco che ne esce. Da buona figura cristologica, Molinari paga questo suo sacrificio fin nelle carni, ricavandone una salute malandatissima. Anzi, la sua scommessa più ardita è proprio quella di mantenersi sempre al pelo della sopravvivenza, in modo da sfruttare il collasso in cui inevitabilmente precipita, ogni qual volta è chiamato a trattare con gli alieni, come scusa per procrastinare le scelte e prendere altro tempo prezioso. Per reggergli il gioco gli occorre però un medico abilissimo, ed è in questa veste che entra in scena il dottor Sweetscent (Dolceprofumo, una variante del quasi coevo Stranamore?), il vero protagonista della storia. Ora, questo Sweetscent non è esattamente un arrivista e in quella posizione di responsabilità ci arriva un po’ per caso, trascinato dagli eventi. A raccomandarlo è il direttore di una megacorporation a cui il dottore trapianta di continuo nuovi organi artificiali per garantirgli una quasi-immortalità, incarico che Sweetscent ha però assunto – ed ecco il punto – grazie ai maneggi della moglie, che lavora nella stessa azienda ma ha tutt’altra tempra e ambizioni, e non manca occasione di rinfacciarglielo. «Mi hai sposato per avere il lavoro. E non stai lottando da solo; invece un uomo dovrebbe farsi da solo la propria strada. (...) Sali più in alto. Trova un lavoro migliore», dice lei. «Ma a me piace il mio lavoro», replica lui. «Così ti contenti (...) di dar l’impressione di essere un uomo arrivato. Mentre in realtà non lo sei». Ecco, il mondo scivola letteralmente sull’orlo dell’apocalisse – ci sono gli alieni alle porte, perdio! - ma quasi ad ogni pagina ti imbatti di continuo in battibecchi come questo o monologhi come quest’altro: «quel mio dannato marito... Non mi lascerebbe venire. Io basto a me stessa, sono più che indipendente sotto il profilo economico; tuttavia devo sorbirmi i piccoli suoni irritanti e gli strilli che emette ogni volta che cerco di fare da sola qualcosa di originale». Tu volevi gli omini verdi e ti ritrovi Ibsen (sia pure sotto acido).

Poi si aprono pure le realtà parallele, perché sbuca fuori una droga che consente di fare degli autentici trip nel tempo e fra le dimensioni – e di questa droga si serve segretamente lo stesso Molinari, per esplorare scenari alternativi, in cui i nemici sono amici e gli amici nemici, per comprendere che la realtà non deve per forza andare così come va in questo mondo, e pure per assoldare dei suoi doppi che nel loro mondo non sono diventati nessuno, ma che condividono la sua intelligenza e potrebbero perciò prenderne il posto nel caso lui alla fine ceda fisicamente, come Roosevelt, o forse l’hanno persino già preso, all’insaputa di tutti («tre o quattro Gino Molinari, costituenti un comitato, sarebbero piuttosto terribili... Non è d’accordo? Pensi alla somma dei loro ingegni! Pensi ai progetti fantastici, astuti, grandiosi, che potrebbero stendere lavorando insieme») – e no, niente, nonostante questi squarci visionari sempre lì si va a parare, e ad ogni essere che incontra, sintetico o organico, Sweetscent tira giù dei pipponi sui suoi problemi relazionali: «un uomo impelagato in un matrimonio infelice perde la facoltà metabiologica di sapere ciò che vuole: ne è totalmente depauperato, capisce? Lei è un piccolo mollusco andato a male, che cerca di agire nel modo giusto ma che non ce la fa mai completamente, perché non ci mette il cuore, il suo cuore infelice e paziente». Insomma, l’Alto Castello in cui ci si ritrova imprigionati qui sembra proprio essere la vita matrimoniale («Bene, ecco il matrimonio d’oggi. Odio legalizzato») e il vero risiko non è quello militare-fantapolitico che fa solo da sfondo bensì quello nuziale, pieno di ripicche e dispetti e però, al tempo stesso, attraversato da improvvisi e inspiegabili ritorni di fiamma. «Sua moglie, per esempio. I sentimenti che lei prova sono contrastanti: per la maggior parte paura, poi odio, e quindi un certo quantitativo di amore sincero». L’illusione di potere sembrerebbe dunque essere quella di chi crede di controllare la propria vita e in realtà è controllato da un altro, anche se il titolo originale, Now Wait for Last Year, punta per la verità l’indice su un altro pericolo non meno insidioso nella vita coniugale: «Da tanto tempo aspetto l’anno passato. Ma suppongo che non tornerà più» (“Non può essere mai come ieri”, cantavano giustappunto proprio tra ’98 e ‘99 Mario Venuti e Carmen Consoli). 

Quando scrive questo libro, dicevo, è ancora fresco in Dick il ricordo dell’ex-moglie rientrata a casa e ridotta a uno straccio dalle terapie farmacologiche subite in ospedale. «Lui si chiedeva – leggo ancora in Carrère – che cosa avrebbe fatto se le condizioni di Anne non fossero migliorate. Avrebbe divorziato, avrebbe cercato un’altra donna? O avrebbe continuato a sopportare per tutta la vita quella palla al piede (a portare quella croce, come direbbe un cristiano)?». Non so se qui il biografo abbia altre fonti o se estrapola la sua ricostruzione dai testi dickiani, ribaltando sulla sua vita considerazioni sparse nei libri, ma – date le circostanze – le ultime righe del romanzo sembrano effettivamente abbozzare la risposta che, dopo tutto quel girovagare fra i mondi possibili, Dick a un certo deve essersi dato. “Lei rimarrà con lei”, confida un androide a Sweetscent, «perché la vita è una realtà che deve essere accettata così com’è. Se lei abbandonasse sua moglie, sarebbe come se dicesse: “Io non posso sopportare questo tipo di realtà. Deve avere delle condizioni speciali, più favorevoli”». Quanto credesse a questa morale lo dimostra il fatto che, quando la scrive, Dick se ne era già andato di casa (anche se va detto che, nel frattempo, Anne si era ripresa). E con tutto questo, alla fine, da che parte ha deciso di stare Molinari? Boh, te lo sei dimenticato.

(finito il 23 giugno 2018)

Ho parlato di


Philip K. Dick
Illusione di potere
(Mondadori, 1999)

(Classici Urania 270)

trad. di G. Tamburini

288 pp. | 6500 lire

(ed. or. Now Wait for Last Year, 1966)

venerdì 17 agosto 2018

La fine degli Incas

Non nascondo che di episodi del passato a cui mi piacerebbe assistere dal vivo, se avessi a disposizione la macchina del tempo di Zapotec e Marlin, ce ne sarebbero a bizzeffe, nonostante il rischio altissimo di delusione a cui ci espone l'ordinarietà del reale, specie se commisurata con le aspettative suscitate dalla mediazione di fonti storiche che spesso sono riuscite a superare i secoli proprio perché hanno romanzato un po' i fatti. Ciò detto, un saltino a Cajamarca lo farei ugualmente. Non tanto la Cajamarca odierna – che per ragioni logistiche è persino rimasta fuori dalle rotte quando in Perù ci sono andato sul serio, in viaggio di nozze. No, oggi non ci sarebbe poi molto da guardare. Quella notte, però, ah, quella notte, «pochi dormirono; restammo di guardia sulla piazza, dalla quale si potevano vedere i fuochi dell'accampamento dell'esercito indigeno. Era uno spettacolo pauroso. Molti fuochi apparivano vicini gli uni agli altri sul fianco della collina: sembrava di vedere un cielo sfavillante di stelle». 

Chi parla è uno dei 168 spagnoli (bene o male tutti farabutti, guidati da un analfabeta) che, partiti da Panama con la bava d'oro alla bocca e inoltratisi per oltre 2000 km sui bricchi delle Ande, avevano finito per tagliare la strada a un'armata forte di decine di migliaia di uomini, guidata nientemeno che dall'Inca Atahualpa, fresco vincitore sul fratello Huascar nello scontro per la successione al padre Huayna Capac (ucciso, pare, da uno dei conquistadores più letali: il bacillo del vaiolo, giunto nel Nuovo Mondo con le navi di Colombo, ma molto più rapido degli umani a diffondersi poi sul continente). Questi omaccioni svezzati nel sangue delle guerre d'Italia erano perfettamente consapevoli di quanto fosse disperata la loro situazione, al punto che l'unico piano che venne loro in mente era talmente ingenuo da non avere praticamente possibilità di successo: invitare Atahualpa nel loro accampamento e catturarlo. Anche noi che non siamo mai stati su un campo di battaglia, ma abbiamo letto Montaigne e Machiavelli, sappiamo benissimo che non si deve mai, mai accettare quel tipo di inviti. Lo sventuato Atahualpa, invece, rispose. E a prima vista, pareva anche avere dei buoni motivi per farlo: quando si presentò in città, con una calma sprezzante davvero imperiale, portato a spalla su una lettiga da ottanta dignitari e preceduto da uno squadrone di indios che spazzavano il cammino su cui avrebbe dovuto transitare, molti spagnoli se la fecero letteralmente sotto dalla paura. Poi, nel giro di un attimo, tutto cambia. Le trombe, il rumore dei cannoni, l'assalto della cavalleria: in un amen migliaia di indigeni furono trucidati e Atahualpa preso effettivamente prigioniero. 

Comincia così, il 16 novembre 1532, la “fine degli Incas” annunciata dal titolo, il prototipo di tutte le future guerre dei mondi (e peccato che sulla copertina dell'edizione italiana sia raffigurato un tempio Maya, che non c'entra proprio nulla, anzi sa pure di ennesimo sberleffo eurocentrico: quei lì, ‘sti “precolombiani”, sono più o meno tutti la stessa cosa...). Comincia e per certi aspetti si conclude anche subito, con un cappotto in trasferta che non contempla gare di ritorno: «l'invasione del Perù fu una vicenda unica sotto molti punti di vista. La conquista militare precedette la penetrazione pacifica: né mercanti né esploratori avevano mai visitato la corte dell'Inca, e non c'erano resoconti di viaggiatori che ne descrivessero gli splendori. Il primo contatto degli europei con la maestà inca coincise con l'abbattimento di essa». Eppure non siamo neanche a pagina 50 di un libro che ne conta oltre 600. Di che si parla, allora? Il punto è che, se anche «la Conquista principiò con uno scacco matto», la presa di possesso effettiva del Perù non fu poi esattamente una passeggiata di pochi giorni (come si è fatto finta di dimenticare in Iraq o in Afghanistan). Questo saggio copre infatti tutto l'arco dell'invasione, da queste prime iniziative private fino all'instaurazione del vero e proprio vicereame e all'esecuzione – un mese dopo la strage di San Bartolomeo – del diciottenne Tupac Amaru, pronipote di Atahualpa e ultimo degli incas ribelli rifugiatasi nella città perduta di Vilcabamba (quella che Hiram Bingham stava cercando quando si imbatté incidentalmente in Machu Picchu), passando per le faide che condussero a morte violenta, uno a uno, tutti i principali capi della spedizione e con una curiosa appendice dedicata alle sorti degli eredi degli incas regnanti, alcuni dei quali finirono molto male, altri in un modo un po' patetico, mentre altri ancora si riciclarono bene e diventarono ricchi rentiers con nome e blasone cristiano - perché alla fin fine erano pur sempre teste coronate (e a Carlo V proprio non andava giù che un signor nessuno come Pizarro potesse mandare a morte un suo collega, anche se idolatra). 

Va detto che Hemming non indugia col patetismo e questo libro non vuole essere un'appendice alla leyenda negra, anche se poi di fatto un po' lo diventa, perché di quello si è trattato: una razzia, sia pure condotta con scrupolo notarile. «Era chiaro che gli indigeni si trovavano in balia di un gruppo di predoni», i quali riuscirono nell'intento di far passare questo saccheggio sistematico come se fosse uno pacifico scambio, in cui a guadagnarci davvero sarebbero stati, anzi, proprio gli indios: «e affinché voi possiate accettare questi tributi con meno ansia o scrupoli di coscienza, vi incarichiamo di istruire i detti indigeni nella dottrina della nostra Santa Fede Cattolica...» (così recita, per dire, un atto ufficiale datato 1550). Con molta misura, l’autore prova a ricostruire il tentativo complesso, e a suo modo affascinante, messo in atto dagli spagnoli per cercare di impiantare le loro istituzioni su un terreno totalmente alieno, esaminando le centinaia di fonti (non immaginavo fossero così tante) a disposizione, tra testi letterari, dispacci e documenti pubblici. Si dà il dovuto spazio ai più o meno eroici tentativi di resistenza, ma alla fine la conclusione è quella che è: «i peruviani erano stati strappati dalla protezione di una monarchia assoluta benevola e quasi socialistica, per finire nel mondo crudele dell'Europa feudale. Dati gli svantaggi della lingua, dell'educazione e della razza diverse, essi restarono al livello più basso della struttura feudale: solo un esiguo gruppo di aristocratici della nobiltà inca o tribale poterono apprezzare gli aspetti più squisiti della cultura europea postrinascimentale». I più diventarono semplici ingranaggi funzionali alla costruzione di quella macchina mondiale che è la moderna economia capitalistica, anche se rispetto ad altri progetti coloniali qui, sul lungo periodo, si riuscirà a formare una società meticcia. 

Un tale processo non mancò di sollevare reazioni anche critiche e discussioni molto accese – ed Hemming sottolinea più volte come in ambito spagnolo, per lo meno, il problema ce lo si pose (il controcanto autocritico, da allora in poi, è forse il frutto più prezioso del nostro repertorio intellettuale). Lo stesso imperatore Carlo, con un atto idealmente senza precedenti, decise di sospendere a un certo punto la conquista – come se fosse possibile – in attesa di un parere giuridico definitivo sulla sua legittimità: la famosa controversia di Valladolid tra Las Casas e Sepulveda, che vide la vittoria del primo, ma che nei fatti non cambiò nulla, anche perché ogni tentativo riformatore elaborato in Europa era poi puntualmente sconfessato e rimodulato dai coloni (che talora non si preoccupano più di tanto di mascherare i loro argomenti invocando apertamente il diritto allo sfruttamento: ma come? Avete messo a rischio le nostre vite per ingrandire i vostri domini e ora vogliete toglierci la nostra meritata ricompensa?). «É un fatto straordinario che le opere degli autori che recarono gli argomenti più forti a favore del dominio spagnolo non fossero pubblicate in Spagna nel XVI secolo, mentre fu pubblicata ogni cosa scritta da Las Casas»: il che fa pensare all'effettivo peso che possono avere i dibattiti filosofici o le recensioni di libri su Facebook quando a portare davvero avanti la storia sono gli spiriti animali degli avventurieri senza diploma, che di tutti quei discorsi semplicemente se ne infischiano – o, peggio ancora, approfittano di queste pubblicazioni per denunciare un sedicente “pensiero unico” e legittimare le brutalità della ben più corposa “pancia unica” da cui sono usciti. Sì, me lo immagino facilmente un Don Salviños commentare col suo scudiero Giggio Panza - di fronte al lavoro forzato nelle miniere, alle deportazioni di massa, alle morti per intossicazione o polmonite, al depauperamento indotto dai tributi straordinari imposti in cambio di quelli che non venivano pagati nel proprio vilaggio - “che pacchia queste loro gite in montagna... e li paghiamo pure per farle!”.

Ps. É interessante notare che, come accade spesso con gli eretici, la cui memoria è trasmessa proprio da quegli zelanti avversari che avrebbero voluto estirparli, così una parte non irrilevante di quello che sappiamo degli Incas e della loro ascesa è dovuto all'impegno profuso dal viceré Francisco de Toledo per dimostrare, sulla scorta di testimonianze dirette ancora disponibili, che quell'impero era recente, costruito da un'etnia proveniente da una piccola parte del Perù impostasi "tirannicamente" sulle altre popolazioni aborigene e dunque "usurpatrice" dei legittimi titoli a governare. Che, ovviamente, non avevano neppure gli spagnoli. Ma tanto bastava per dare un po' di argomenti in pasto alla propaganda.



(finito il 17 giugno 2018)

Ho parlato di


John Hemming
La fine degli Incas
(Rizzoli, 2016)

a cura di Furio Jesi

730 pp. | 13 €

(ed. or. The conquest of the Incas, 1970; 1ª ed. it. 1975)