venerdì 24 dicembre 2021

Bestiario

Immergersi nella lettura di questi racconti dell’esordiente Cortázar (anno di pubblicazione 1951) è come sprofondare in una concatenazione di sogni, quando ti capita di assecondare come perfettamente normale ciò che, d’altra parte e allo stesso tempo, avverti andare contro ogni ordine logico: lettura per questo impegnativa, non tanto per lo stile, che è limpido, quanto per il fatto che ad ogni riga può accadere letteralmente qualunque cosa e non ci si può perciò concedere la minima distrazione. Che fai, per esempio, se, dopo aver cominciato una storia in cui si narra in modo del tutto ordinario di come il protagonista si stia ambientando nell’appartamento di Buenos Aires messogli a disposizione da un’amica momentaneamente trasferitasi a Parigi, d’improvviso leggi che «proprio fra il primo e il secondo piano ho sentito che stavo per vomitare un coniglietto»? Ti fermi almeno tre volte per esser sicuro di non aver visto male. Eppure è proprio così: «non gliene avevo mai detto niente, non per slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato mentre ero solo, tenevo la cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che accadono (o facciamo accadere) nell’assoluta intimità». Diventa persino complicato riassumerli, racconti così – e forse fuorviante: anche per questo mi ricordano i sogni, la cui incongruità manifesta, al risveglio, non necessariamente ricompone il sommovimento che ti hanno creato dentro, neanche a distanza di anni. Certi sogni fatti da bambini non ci continuano forse a rigirare tuttora a pelo di coscienza? E proprio perché si tratta di esperienze profondamente intime – le più intime, forse, che si possano immaginare – non ci risulta quasi impossibile spiegare agli altri perché ci suscitino tanto orrore o tanta dolcezza? Non apparirebbero forse, ad orecchie estranee, non meno bizzarre ed insulse di un coniglietto vomitato? E non sono forse - i nostri pensieri inconfessabili, quelli che hanno il potere di portarci alla rovina – come questi coniglietti, che continuiamo a vomitare e a vomitare e a vomitare senza riuscire più a controllarli?

Anche il racconto che dà il titolo alla raccolta mette in scena la vicenda apparentemente normalissima di una bambina che va a trascorrere una parte delle vacanze da alcuni parenti nella loro casa di campagna. Niente di che, appunto, se non fosse che per le stanze di quella grande magione si aggira una tigre, ragion per cui occorre sempre preoccuparsi di chiudere bene le porte che conducono da un locale all’altro, onde evitare di imbattersi nell’animale durante i suoi spostamenti e finire sbranati. Come per i conigli di cui sopra, anche qui l’informazione è buttata lì con nonchalance, come una cosa del tutto ovvia, mentre i familiari della bambina discutono se lasciarla partire oppure no («a me, credimi, non piace che vada (…). Non tanto per la tigre, in fin dei conti ci stanno molto attenti. Ma quella casa così triste...»). Sarà suggestione, eppure sono certo di averla sognata anch’io, con qualche leggera variante, una situazione così, quasi fosse una sorta di archetipo (di cui la bersaniana mucca nel corridoio è come una versione popolare padana) – questa idea, intendo, di un mostro che si aggira famelico sotto il tuo stesso tetto e che c’è, eccome se c’è, anche se si va avanti come se non ci fosse e tutt’intorno la vita continua a scorrere con la sua consueta routine (basta non aprire la porta sbagliata!).

Attraverso l’innesto fantastico, Cortázar disvela tuttavia ciò che si annida in ogni racconto, compreso quello che definiremmo “realista”, giacché – sono parole sue – «un racconto è significativo quando spezza i propri confini con quell’esplosione di energia spirituale che illumina bruscamente qualcosa che va molto oltre il piccolo e talvolta miserabile aneddoto che narra», come «una specie di frattura del quotidiano» o un’onda anomala nel fluire degli eventi. La sua è una scelta pienamente consapevole, come illustrano i due lucidissimi saggi che arricchiscono questa edizione, in cui egli condivide alcune considerazioni teoriche sul racconto breve in genere e su quello fantastico in particolare, riallacciandosi esplicitamente a una tradizione che vede in Poe il proprio iniziatore. Scrive, infatti, Cortázar che il racconto «si propone come una macchina infallibile destinata a compiere la propria missione narrativa con la massima economia di mezzi», potenziando «vertiginosamente un minimo di elementi». Per questo, pur non essendo scritto in versi, è più simile alla poesia che alla prosa: in quel peculiare combattimento che la letteratura intraprende con il lettore, deve vincerti per knock out, e non ai punti, come farebbe invece un romanzo.

Ma alla poesia il racconto breve si avvicina anche perché la sua stesura corrisponde più a una pratica terapeutica che a un “mestiere”. In quanto scrittore di racconti, Cortázar rivela infatti di sentirsi come posseduto, di volta in volta, da un tema che si agglutina «al margine della mia volontà, al di sopra o al di sotto della mia coscienza raziocinante, come se io non fossi altro che un medium attraverso il quale passasse e si manifestasse una forza estranea». Scrivere, a questo punto, diventa per lui l’unico modo per liberarsi di quell’ignoto predatore giunto da chissà dove ad attentare la sua psiche, l’unico espediente per sgravarsi di quel «coagulo abominevole» precedente ogni pensiero «che bisognava strapparsi a colpi di parole», quasi come una sorta di autoesorcismo. Questa medesima esperienza è, appunto, quella che egli offre, mediata, al lettore, dopo esserne scampato. «Nei miei racconti non c’è il minimo merito letterario, il minimo sforzo. Se alcuni si salvano dall’oblio è perché sono stato capace di ricevere e di trasmettere senza troppe perdite quelle latenze di una psiche profonda, e il resto è una certa abilità di veterano nel non falsificare il mistero, nel conservarlo il più vicino possibile alla sua fonte, col suo tremore originale. I racconti di questa specie si incorporano come cicatrici indelebili al corpo di qualunque lettore che li meriti: sono creature viventi, organismi completi, cicli chiusi, e respirano. Loro respirano, non il narratore», il quale, anzi, è «il primo a essere sorpreso dalla sua creazione, lettore turbato di se stesso».

Insomma, è come se quella specie di recettore ipersensibile e perennemente in funzione che è lo scrittore di racconti si rivolgesse al lettore per dirgli “lo senti anche tu quel rumore sinistro in sottofondo?” - e il lettore, che fin lì aveva vissuto tranquillo e non ci aveva mai fatto caso, di punto in bianco non possa più fare a meno di udirlo e interrogarsi su che cosa mai lo stia producendo (per la verità, l’effetto si può produrre anche con la luce e lo stupore, ma il motivo più diffuso in questi brevi pezzi mi sembra piuttosto essere la percezione di una minaccia indefinita). «Il racconto deve nascere ponte, deve nascere passaggio, deve fare il salto che proietti la significazione iniziale, scoperta dall’autore, a quell’estremo più passivo e meno vigile e molte volte persino indifferente che chiamiamo lettore». Per questo la grande letteratura è capace di toccare tutti - «a diversi livelli, sì, ma raggiungendo un po’ ognuno» - e per questo leggere la grande letteratura è un’esperienza totalizzante da cui «si esce come da un atto amoroso, esausti e fuori dal mondo circostante, cui si fa ritorno a poco a poco con uno sguardo di sorpresa, di lento riconoscimento, molte volte di sollievo, e tante altre di rassegnazione», sicuramente più consapevoli di quanto sia profonda e stratificata quella realtà di cui ci limitiamo spesso a sfiorare appena la superficie.

(finito il 26 dicembre 2020)

Ho parlato di

Julio Cortázar
Bestiario
(Einaudi 2014)

trad. di F. Nicoletti Rossini e V. Martinetto

156 pp. | 11 €

(ed. or.: Bestiario, 1951)

mercoledì 8 dicembre 2021

I russi sono matti

La giornata siberiana era oggi particolarmente indicata per pensare ai russi e sui russi uno che indubbiamente la sa lunga è Paolo Nori. Ma non chiamatelo esperto, per carità. Vi risponderebbe, infatti, che «si può essere esperti di tante cose, di cinema, di meccanica, di elettronica, di statistica, di raccolta differenziata, di agricoltura, di calcio, di pallacanestro, di sport estremi, di pattinaggio in linea, di tutto, tranne forse che di letteratura perché i grandi scrittori, i grandi libri, sono, forse, come diceva quel grande poeta russo mai esistito, Koz’ma Prutkov, inabbracciabili». Meglio dire, allora, «appassionati». E da un siffatto ed eclettico appassionato di letteratura russa quale lui è non ci si dovrà ovviamente attendere il classico condensato manualistico valido per cinque crediti universitari, bensì quello che egli stesso propone come un “corso sintetico”, dove l’espressione sottintende «un procedimento che, partendo da elementi semplici e parziali, si propone di arrivare a una rappresentazione unitaria» - definizione che, per inciso, mi pare calzi bene anche per questi miei saggetti in cui provo a trasmettere attraverso pochi dettagli significativi lo spirito di un libro e forse ancor più l’esperienza vitale che l’incontro con quel libro ha prodotto su di me.

Infatti, quando prova a spiegare perché, fra tutti gli autori che pure ama, prediliga proprio i russi, Nori risponde che non sa bene come dirlo, ma che per lui quella letteratura ha qualcosa di speciale perché, se non ti perdi d’animo e superi l’ostacolo rappresentato da «quei personaggi che hanno almeno tre nomi e un cognome e un paio di soprannomi e dei gradi che li collocano in una gerarchia incomprensibile e che sono legati da intricatissimi vincoli di parentela», se nonostante tutto tieni duro, dopo un po’ arriverai infine alla radura che si apre al centro del bosco e scoprirai «che è un posto che si sta benissimo. O malissimo, a seconda dei casi», dato che il principale pregio della letteratura russa, secondo Nori, è che ti «fa star più male di tutte le altre». Riflettendo sul perché proprio i russi gli siano entrati così tanto nelle ossa, Nori finisce in realtà per sviluppare trasversalmente, attraverso aneddoti, divagazioni, passi avanti e passi indietro, anche una certa idea di cosa sia, o cosa debba essere, la letteratura in quanto tale. Se ti ferisce, ci siamo; se ti compiace, è qualcos’altro (e si può ferire anche con il sorriso: i russi hanno un senso dell’umorismo tutto loro, ma ce l’hanno).

Non solo. Nori condivide anche il pensiero secondo cui scrivere «vuol dire sforzarsi di vedere il mondo come se lo si vedesse per la prima volta», liberati una buona volta dai pensieri associativi che ci fanno passare continuamente da una cosa all’altra sotto l’influsso dell’abitudine o della retorica: esattamente quel che accade, in una scena stupenda di Guerra e Pace, al principe Andrej, quando, rimasto ferito sul campo di Austerlitz, alza gli occhi verso l’alto ed è come se vedesse per la prima volta il cielo. Ossia, direbbe Nori, «senza il suo imballaggio», il rivestimento preconfezionato con cui ci viene per lo più rappresentato. E poiché, riprendendo un’intuizione folgorante di Agamben, «quel che fa l’arte non è rendere visibile l’invisibile, ma rendere visibile il visibile», scopo della letteratura sarà allora di farci «crescere dentro la pancia una piccola macchina per lo stupore», capace di rendere «memorabile» anche ciò che a prima vista può apparire «marginale e insignificante», quel “sacro” quotidiano di cui sono composte gran parte delle nostre vite, ingiustamente derubricato a uno scontato insieme di banalità. L’artista è esattamente colui che «ci fa vedere le cose alle quali siamo tanti abituati che non le vediamo più bene».

Ora, i russi non solo hanno una parola precisa – byt - per indicare proprio «quello che succede tutti i giorni», ma hanno anche una lingua adattissima, secondo Nori, per descriverlo: «uno dei pregi della letteratura russa, per conto mio, è il fatto che rarissimamente gli scrittori russi salgono sullo scoglio del verbo amare per dettare da là le proprie regole, ma scendono piuttosto per strada» e parlano di quel che avviene nelle nostre vite quotidiane con un linguaggio che non è l’estrema propaggine di una tradizione letteraria, e dunque, va da sé, sempre un po’ artefatto e sostenuto, ma il linguaggio popolare delle nonne e dei servi. Parole come “amare” o “felicità”, osserva Nori, in dialetto parmigiano, il dialetto in cui si è scavato «il pozzo delle mie emozioni», in cui lui stesso ha imparato a pensare, semplicemente non esistono – e usarle nello scritto gli sembrerebbe un travisamento e una posa («mi creperebbe la faccia», dice, più precisamente). L’estetica non può simulare: per questo, secondo Nori, che sul punto sposa la linea di Brodskij, è bene che un poeta non si preoccupi tanto di stare dalla parte giusta, di essere inserito in un organigramma o di sottoscrivere un appello, quanto di scrivere bene, così come un uomo non dovrebbe porsi l’obiettivo di fare la storia, quanto di rendersi responsabile delle scelte che compie ogni giorno. Sia pure con una maggiore torsione impolitica, non mi pare un’osservazione poi troppo distante da quanto scriveva Edmondo Berselli, quando rimproverava a Dario Fo di sospendere i suoi formidabili misteri buffi per avanzare sul proscenio e spiegare agli spettatori “la rava ideologica e la fava sociale del Medioevo”. Rappresentare una scena di fustigazione nella sua crudezza, come fa Tolstoj in un suo articolo, mettendocela davanti agli occhi – “disimballandocela”, appunto - è gesto in realtà più politico e potenzialmente eversivo che limitarsi a parlarne, anche per contestarla. «Rallentando il riconoscimento (subito non si capisce che sta parlando di fustigazione), allungando la visione, sperperando delle energie, anziché risparmiarne, Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, gliela rende sensibile, gliela fa vedere come se fosse nuova, gliela toglie dall’imballaggio, e il lettore non ha tempo di pensare alle sue convinzioni, ai dibattiti che ha sentito, ha gli occhi pieni di questi uomini denudati, gettati a terra e colpiti sulla schiena con le verghe, e colpiti ancora sulle natiche nude».

Ecco dunque cos'hanno i russi di speciale: ci aiutano meglio di altri a guardare quel che abbiamo sotto gli occhi, il nostro quotidiano, così che possiamo lasciarci ferire dalla sua scabrosità nonostante tutti i tentativi messi all’opera per immunizzarcene – o perlomeno ci hanno aiutato a farlo dall’Eugenio Onegin di Puskin (il primo che cominciò a usare la lingua della sua balia, la lingua dei servi della gleba, per scrivere in russo) fino a Viktor Erofeev, vale a dire fino al crollo dell’Unione Sovietica, giusto trent'anni fa. Prima, i cosiddetti romanzi russi erano semplicemente «imitazioni dei romanzi sentimentali francesi», dopo – beh, dopo la sensazione di Nori è che i romanzi russi non siano più autentici romanzi russi, bensì semplicemente dei romanzi occidentali scritti in russo, che è tutta un’altra storia. «Per ritrovare delle teste diverse, per ritrovare la letteratura russa che ci dà quella sensazione di malessere che ci piace così tanto, dobbiamo rivolgerci alle cose che sono state pubblicate, più o meno, dal 1820 al 1990; e, per fortuna, c’è tanta di quella roba che non basta una vita, per studiarla come si deve».

P.s. Se qualcuno avesse bisogno di una spinta in tal senso, Nori suggerisce anche qual è secondo lui il libro ideale per cominciare a leggere la letteratura russa: non Delitto e castigo o Anna Karenina, ma Chadzi-Murat di Tolstoj, «perché è corto, poco più di cento pagine e anche perché qui, in questo romanzo (...), buona parte dei personaggi non hanno nomi e patronimici complicati perché non sono russi, sono ceceni». Buona lettura.

(finito il 22 dicembre 2020)

Ho parlato di


Paolo Nori
I russi sono matti
Corso sintetico di letteratura russa. 1820-1991
(Utet 2019)

184 p. | 15 €