venerdì 30 marzo 2012

Biforcuta e bicefala

  La notizia del giorno, come voi tutti saprete, è ovviamente la ricomparsa in Danimarca dopo i rigori dell'inverno del rarissimo esemplare di vipera bicefala avvistata per la prima volta ad ottobre e data a suo tempo per spacciata dai naturalisti. Ne parlava, questa mattina, Repubblica, dedicandole una gallery che potete andarvi a vedere cliccando qui

  Confesso che mi fa un certo effetto vedere in foto un esemplare che sembra uscito dai trattati teratologici rinascimentali, come il De Monstruorum natura caussis et differentiis di Fortunio Liceti (1577-1657), da cui traggo l'immagine sottostante in cui un esemplare analogo alla vipera danese è raffigurato insieme ad altri degni rappresentanti di un gustoso serraglio di freaks (si riconosce chiaramente l'agnello tricefalo segnalato nel 1577, anno di comete e di prodigi; per gli altri sono più in difficoltà). Di questa serpe si dice solo che fu vista "altrove" da Venezia - cui si riferisce l'aneddoto opposto, rievocato subito prima, dei due cani uniti sotto un'unica testa (che potrebbero essere quelli sullo sfondo) - nel 1575. Poco prima, tuttavia, Liceti aveva già scomodato l'autorità di Aristotele, il quale, in un capitolo dedicato alle anomalie biologiche nel De generatione animalium, citava appunto il caso del serpente a due teste (IV, 4, 770a 24-25). La notizia che giunge dalla Danimarca mi spinge a pensare che allora, forse, non erano poi tutte balle...

Immagine tratta da Fortunio Liceti, De monstris,
editio novissima, Patavii, 1668, p. 22.


 Ma più interessanti ancora, sebbene meno fantasmagoriche, sono le prime pagine delle Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano dentro gli animali viventi di Francesco Redi (1626-1697), uno dei più grandi scienziati italiani ed europei del Seicento (per intenderci, è quello che con un esperimento semplice semplice confutò la tradizionale teoria della generazione spontanea degli insetti dalla materia in putrefazione - o almeno le assestò un colpo decisivo). Redi la prende alla lontana risalendo sino all'Idra di Lerna, celeberrimo sauro dalle sette teste affrontato da Ercole, per concludere che non è poi così raro imbattersi in animali del genere, di cui parlano personaggi di indiscussa affidabilità (un esemplare imbalsamato era conservato nel museo del grande naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi). Egli stesso racconta che
questo presente anno [siamo nel 1684], essendo in Pisa colla Corte, ebbi fortuna di vedere, e di maneggiare un simile Serpentello con due teste, trovato, e preso nella stessa Città, mentre se ne stava lungo la riva d'Arno a riscaldarsi disteso al Sole nel bel mezzo di Gennaio.
La povera creatura che se ne stava spaparanzata a godersi il pallido sole invernale non sapeva di essere caduta nelle mani di un incallito indagatore della natura, curioso come tanti altri al suo tempo di ogni eccezionalità e stranezza. Senza pensarci su due volte, continua Redi, 
volli farvi sopra qualche curiosa osservazione, e particolarmente nel dare un'occhiata per passatempo all'interna fabbrica, ed all'interno ordine, e posture delle viscere; giacchè da veruno di coloro, che [h]anno menzionati i serpentelli da due teste, non n'è mai, ch'io sappia, stata fatta parola.
  Redi ebbe lì per lì l'impressione che si trattasse appunto di «una Viperetta» (specie a cui aveva dedicato un trattatello giusto vent'anni prima e che perciò conosceva molto bene). Due considerazioni, però, lo indussero a ricredersi. La prima è che la serpe «non portava in bocca quei denti maggiori, o canini, o maestri, che portano le vipere, racchiusi nelle loro guaine»; la seconda è che «intorno a' due colli, immediatamente dopo le due teste, avea una striscia bianca lattata, che cingea l'uno, e l'altro collo in foggia di due collarini, il che non [h]anno le Vipere». Tale serpe «di poco passava la lunghezza di due de' miei palmi, e nella grossezza poteasi dir simile al dito minore della mano di un uomo». Di colore chiaro, rugginoso, tempestato di macchie nere, aveva appunto due teste perfettamente uguali, due bocche con altrettante lingue biforcute e due occhi per ogni testa; e poi due trachee, due polmoni, due cuori con i rispettivi canali sanguigni (con il destro un po' più grande di quello sinistro), due esofaghi e due stomachi, che infine confluivano in un solo e comune intestino.  Anche di questo animale possediamo un disegno, un po' più accurato del precedente essendo frutto dell'indagine diretta del nostre Redi.

Immagine tratta da Osservazioni di Francesco Redi Accademico
della Crusca intorno agli animali viventi che si trovano dentro
gli animali viventi,
Firenze, 1684, tavola prima.

  Per la verità Redi per condurre le sue indagini anatomiche aspettò che la vipera morisse, cosa che accadde nel giro di poche settimane. Tuttavia, lo scienziato lascia intendere di aver forse accelerato il corso delle cose.
Quando questo serpentello si morì, il che avvenne poco dopo il principio del mese di Febbraio, e la sua morte avvenne forse per gli strapazzi da me fattigli nel forzarlo a mordere alcuni animaletti, come appresso riferirò, ebbi campo di vedere, che morì prima la testa destra la mattina alle quindici ore, e la sinistra testa morì lo stesso giorno sett'ore dopo la destra.
  Che cos'aveva fatto Redi?
Molti giorni prima, che morisse, volli accertarmi, se il suo morso era velenoso: Onde operai, che mordesse con l'una, e con l'altra bocca replicatamente un piccion grosso, il quale non solo non ne morì; ma non ne ebbe male alcuno, per lo meno, apparente. Lo stesso avvenne a quattro Passere, e a due Calderugi di gabbia.
   Questo risultato lo incuriosì molto, poiché sapeva per esperienza diretta che, anche se vi erano animali che durante l'inverno rilasciavano il veleno per riprenderlo a primavera, le vipere non solo lo mantenevano, ma il loro siero era così potente da colpire mortalmente anche quattro giorni dopo la morte.
Quindi è che mi venne pensiero di voler in qualche altra congiuntura osservar minutamente, e a bella posta quanto tempo dopo morte conservano le Vipere il veleno, facendone replicate esperienze col tener minuto conto dell'ore, al che io non avea badato nelle mie prime Osservazioni intorno Vipere.
  É questa l'occasione per cominciare una nuova ricerca, in cui ci si è già dimenticati della portentosa vipera bicefala e si intraprendono altre indagini, cui verrà dedicato il resto dell'opera. Perchè - ed è questo il bello - se si hanno gli occhi per vederlo, come i nostri scienziati della prima modernità, tutto è un portento meravigliosamente degno di essere indagato.

mercoledì 21 marzo 2012

Un caso di spionaggio bioartigianale

  Si legge nelle antiche Historie de' Filosofi che il sapientissimo Apollonio Tianeo, nonostante che fosse letteratissimo e dottissimo Filosofo e molto esperto nelle cose della Naturale Filosofia, si partì di Grecia, passò il mar Rosso, caminò le grandi Indie e peregrinò quasi tutto il mondo e non ad altro effetto che per haver intiera cognitione di tutte quelle cose che a' Filosofi si appartengono. Non dirò di Hippocrate Greco, di Galeno Pergameno, di Plinio, di Trogo, di Laertio e infiniti altri, quai tutti caminarono il mondo per tale effetto: e io ad imitatione di questi tali, già molti anni sono che mi partì della mia dolce patria Bologna e cominciai a caminar la terra e solcare il mare, vedendo molte città e Province e praticando con diverse qualità di gente, medicando molti huomini e donne di diverse sorti di infermità: e fra questo tempo, ho voluto avere cognitione di tutte le scienze e arti che in queste nostre parti di Europa si usano, come nel mio Specchio di Scientia universale si può vedere. E tutto questo ho fatto non ad altro effetto se non per spogliarmi della ignoranza, nella quale molti siamo involti: e vestirmi di virtù e conoscenza delle cose, praticando sempre con Reverendi Theologi, con Filosofi, Medici, Cirugici, distillatori e tutte sorti di esperimentatori: mediante i quali sono interamente venuto prima in cognitione della santa fede cattolica del nostro Signore Christo Giesù e poi della filosofia e altre scienze e arti, delle quali ho conosciuto la verità del tutto; e subito venuto in tal cognitione, mi son messo a scrivere gli otto volumi, quali ho dato in luce, scoprendo in essi molti abusi e mostrando la verità a tutti, e massime nella medicina e cirugia, arti le più importanti di tutte l'altre, perciò che con quelle si conserva la vita degli huomini.

Ritratto di Fioravanti
  Comincia così, dopo un'eterna e vagamente fantozziana carrellata di epistole dedicatorie (nell'ordine: alla Signoria di Lucca, agli "huomini eccellentisimi in diverse professioni quali al presente vivono", al molto magnifico dottor Alfonso Barozzi ferrarese, ai magnifici scolari Artisti di Padova, all'eccellentissimo dottor Girolamo Capo di Vacca, al dottor Bernardin Trivisano, al molto magnifico dottor Francesco degli Alessandri di Asti, all'eccellentissimo dottor Decio Bellobuono napoletano, agli "huomini eccellenti in diverse professioni", evidentemente diversi da quelli di prima, al sacrosanto Collegio degli Artisti dell'alma Bologna, ai magnifici scolari dello studio dell'alma Bologna, al maestro dottor Conte di Monte vicentino) il Tesoro della vita humana del medico bolognese Leonardo Fioravanti (1518-1588), stampato per la prima volta a Venezia nel 1570. Fioravanti è un personaggio interessantissimo: un po' medico un po' avventuriero, un po' filosofo un po' cialtrone, guascone d'indole e chiacchierone per vocazione, per circa un decennio, dal 1548 al 1558, risalì la penisola italiana dalla Sicilia al Veneto cimentandosi tra le altre cose come medico militare nella sfortunata spedizione di Tripoli da parte dell'esercito imperiale (1551) e come medico cortigiano in alcune ricche case di diplomatici accreditati presso la corta papale. Stabilitosi a Venezia, cominciò a divulgare con grande acume editoriale i propri scritti, accreditandosi come titolare di un vastissimo sapere maturato sul campo attraverso centinaia di esperienze e di incontri effettuati nel corso nei suoi viaggi. In pagine animate da un'eccezionale sicurezza di sé, Fioravanti promette di curare le malattie più pericolose grazie a rimedi da lui stesso escogitati, a cui appioppava nomi misurati come quinta essenza, olio philosophorum, lattuario angelico e magna medicina (capace, a suo dire, di guarire nientemeno che tutte le infermità).

  Le opere di questo medico, scritte in un italiano freschissimo e così piene di vita vissuta, andrebbero lette direttamente come una sorta di romanzo picaresco (e per chi ne ha voglia, grazie a Google Books, è possibile farlo con relativa comodità). In alternativa, esiste una bella biografia di Piero Camporesi che, in omaggio a un'espressione tipica di Fioravanti presente anche nel passo che ho citato in apertura, si intitola Camminare il mondo. Dei mille e uno episodi che si potrebbero ripescare da quel pozzo di aneddoti, ne ho scelto qui uno in particolare, che ho sempre trovato curioso e che dà un'idea delle malizie che caratterizzano il mondo degli artigiani e dei tecnici del '500.

Veduta di Tropea, oggi
  Alla fine del capitolo 26 del secondo libro del Tesoro, messer Leonardo racconta che, prima di recarsi da Messina a Napoli, com'era nelle sue intenzioni, decise di passare per Turpia - ossia Tropea - attiratovi dalla fama di due fratelli, Pietro e Paolo, «huomini nobili e facoltosi in quella città, e cirugici dignissimi, i quali facevano il naso a coloro che per qualche accidente l'havevano perduto». Erano costoro infatti gli eredi di una dinastia di medici, quella dei Vianeo, che aveva saputo guadagnare rinomanza europea perché gelosissima depositaria di quello che nella lingua del tempo veniva definito un "secreto", ossia (riprendo dal Vocabolario della Crusca del 1626) «qualche ricetta, o modo saputo da pochi, d'operar qualche cosa». Siamo in un'epoca in cui tecnici di vario genere cercano di sopravvivere mostrando di possedere capacità che altri non hanno (lo stesso Fioravanti scrisse un Compendio de' secreti rationali). Si tratta in molti casi di presunte competenze astrologiche o magiche, in altri di conoscenze relative ai propri settori professionali, dalla matematica alla medicina: perfino il metodo di risoluzione delle equazioni cubiche diventa occasione per pubbliche tenzoni, non a colpi di spada bensì di problemi matematici. Chi invece continuava a risolvere le questioni alla vecchia maniera cavalleresca del duello (siamo pur sempre in una società nobiliare) doveva spesso fare i conti con tagli, sfiguramenti e vere e proprie mutilazioni che potevano rendere difficoltosa la vita di società. Ad essi si rivolgevano appunto i fratelli Vianeo, chirurghi estetici ante-litteram, ideatori di una vera e propria forma di rinoplastica naturale che fruttava loro non pochi quattrini. Figurarsi se Fioravanti, avido come s'è detto di nuove conoscenze e smanioso di metter le mani su ritrovati altrui, non faceva loro visita, «con animo di vedere se io poteva in qualche modo sapere come questi tali operavano nel fare tale operatione». Detto in altri termini, per rubar loro il brevetto.

  A questo punto la storia assume un contorno romanzesco. Fioravanti sapeva benissimo che se avesse rivelato la sua identità e la sua professione poteva tranquillamente scordarsi di strappare la minima informazione ai due colleghi. Decise perciò di presentarsi loro, in compagnia di un servo, nelle vesti di un gentiluomo bolognese giunto fin lì per conto di un ipotetico amico lombardo cui era stato tagliato via il naso nella battaglia di Serravalle (2-4 giugno 1544) e che era perciò interessato a un eventuale intervento chirurgico. Venuto a sapere che i due medici calabresi avevano ricevuto lettere che annunciavano l'arrivo del figlio di un senatore bolognese rimasto ferito in uno scontro privato, Fioravanti affermò di voler salutare il concittadino e, con questa scusa, prese a frequentare quotidianamente casa Vianeo, dove gli fu proposto di assistere ai trattamenti che vi venivano effettuati, giacché nessuno temeva che un nobiluomo potesse essere interessato a replicarli. Il suo vero colpo di genio fu comunque quello di manifestare aperto disgusto per quella pratica, stornando così ulteriormente ogni sospetto; e se una volta girava la faccia, quella dopo gettava una fugace occhiata professionale memorizzando i vari passaggi della procedura: «fingendo di non poter veder tal cosa, mi voltava con la faccia a dietro, ma gli occhi vedeano benissimo. E così viddi tutto il secreto, da capo a piedi e lo imparai». Fu con questo stratagemma deontologicamente non proprio corretto che i fratelli Vianeo persero la loro posizione di monopolio. O almeno così Fioravanti ce la racconta, dal momento che - pare - i suoi tentativi di ripetere l'intero processo non devono essere stati particolarmente efficaci. Ma la pubblicità è l'anima del commercio e quale miglior sistema di autopromozione che raccontare di avere appreso il proprio metodo direttamente dai chirurghi più famosi del tempo?

  Sì, ma di che si trattava esattamente? - diranno i miei trecentoventiquattro lettori. Lascio la descrizione allo stesso Fioravanti:

la prima cosa che costoro facevano ad uno quando il volevano fare tale operatione lo facevano purgare e poi nel braccio sinistro tra la spalla et il gomito, nel mezo pigliavano quella pelle con una tenaglia, e con una lancetta grande passavano tra la tanaglia et la carne del muscolo et vi passavano una lenzetta o stricca di tela e le medicavano fin tanto che quella pelle diventava grossissima. E come pareva a loro che fosse grossa a bastanza, tagliavano il naso tutta pare e tagliavano quella pelle ad una banda e la cusivano al naso e lo ligavano con tanto artificio e destrezza che non si poteva muovere in modo alcuno fin tanto che la detta pelle non era saldata insieme col naso. E saldata che era, la tagliavano a l'altra banda e scorticavano il labro della bocca e vi cusivano la detta pelle del braccio e la medicavano fin tanto che fosse saldata insieme col labro. E poi vi mettevano una forma fatta di metallo, nella quale il naso cresceva a proportione e restava formato ma alquanto più bianco della faccia. E questo è l'ordine che questi tali tenevano nel fare i nasi. E io lo imparai tanto bene quanto loro istessi. E così volendo lo saprei fare, e è una bellissima pratica e grande esperienza.

post scriptum: rileggendo per bene quest'ultimo brano, non propriamente limpido, dopo un conciliabolo con un amico, siamo giunti alla conclusione che forse Fioravanti non aveva visto poi così bene... per la gioia dei suoi pazienti...

giovedì 8 marzo 2012

L'arca di Blaise

 Dopo avermi ispirato il contenuto del post precedente, Jean Bodin torna sul luogo del delitto e mi offre l'occasione per introdurre in queste pagine quello che è uno dei miei eroi cinquecenteschi preferiti, un personaggio in realtà assai poco raccomandabile che, però, con un solo gesto, merita che la sua fama duri fin che il mondo lontana. Il nome di Blaise d'Auriol dirà credo assai poco ai miei appassionati lettori, a meno che non rammentino i miei ultimi auguri di Natale, ospitati su un altro blog, in cui vi facevo un rapido accenno. Del resto, non diceva assolutamente neanche a me, prima che mi ci imbattessi scorrendo il testo di una relazione tenuta all'Académie des Sciences, Inscriptions et Belles-Lettres di Tolosa il 22 febbraio 1906 e poi stampata nel sesto volume delle «Mémoires» della suddetta Accademia, di cui recuperai una copia in non ricordo quale biblioteca ai tempi della tesi di laurea. L'articolo offriva - come da titolo - un quadro della «réaction universitaire à Toulouse à l'époque de la Renaissance», ovvero uno spaccato dello scontro che caratterizzò la vita intellettuale tolosana tra gli ambienti più retrogradi della locale Università - che allora era uno dei maggiori centri di studio del diritto in Francia - e i più avanzati circoli umanistici, le cui proposte di riforma scolastica erano considerate da molti come una sorta di cavallo di Troia per veicolare le assai più perniciose tesi luterane tra le mura dell'istituzione che era nata, tre secoli prima, come roccaforte dell'ortodossia nelle terre degli Albigesi.

E.Schrom, Toulouse, St.Etienne (1967)
Su questa piazza si consumò il rogo di Caturce
  Le tensioni raggiunsero toni davvero drammatici all'inizio degli anni '30. C'è chi fu imprigionato e poi espulso dalla città (Etienne Dolet, che ricambiò parlando di Tolosa, in una sua lettera, come di «una città più barbara dei paesi abitati dai Geti e dagli Sciti»); chi fu condannato a salatissime ammende e alla pubblica abiura (come Jean de Boyssoné); chi, infine, pagò con la morte sul rogo, come Jean Caturce, baccelliere in diritto civile, arso vivo il 23 giugno 1533 (la motivazione della condanna non è mai stata chiarita del tutto: sembra che, in occasione di una festa religiosa - l'Epifania o Ognissanti - avesse assunto degli atteggiamenti giudicati "luterani", non foss'altro perché avrebbe sostituito un'invocazione religiosa a una formula di augurio rivolta al Re). Con la consueta salacia, richiamandosi scopertamente a quest'ultimo episodio, François Rabelais, che era amico personale di alcune vittime della repressione, racconta nel Pantagruel che il suo gigante, giunto un giorno a Tolosa nel suo girovagare per le terre di Francia, vi «imparò assai bene a ballare e a tirar di scherma con lo spadone a due mani, com'è uso degli studenti di quella università; ma come seppe di un'altra loro usanza ch'era quella di bruciar vivi i professori come aringhe salate da affumicare, non vi rimase un minuto di più. Dio non voglia - si disse - che tocchi anche a me una sorte del genere. Sono già abbastanza assetato di natura senza bisogno di accaldarmi di più» (Pantagruele, V; trad. di A.Frassineti).

  In questa storia Blaise d'Auriol rappresenta l'uomo d'ordine e d'apparato, l'espressione tipica del ceto conservatore e tradizionalista. Nato a Castelnaudary, nel Rossiglione, intorno al 1470, da famiglia nobile e ricca, il nostro Blaise percorse tutti i gradi della carriera accademica, seppe guadagnarsi una qualche notorietà con strumenti anche spregiudicati (per dire il personaggio, basti dire che pubblicò col proprio nome un poema arcaizzante che si sarebbe poi scoperto essere stato copiato alla lettera da un manoscritto inedito del principe poeta Charles d'Orléans, morto una cinquantina d'anni prima), divenne professore di diritto canonico e rivestì anche importanti incarichi istituzionali, alternando la pubblicazione di poesie devozionali a fermissime prese di posizione nei confronti di ogni disordine studentesco. Poiché il 1 agosto 1533, in occasione della visita a Tolosa del re Francesco I, fu incaricato dall'Università di impetrare con una richiesta pubblica al sovrano il diritto per lo Studio di nominare cavalieri, è del tutto probabile che un mese e mezzo prima fosse presente sul palco d'onore ad assistere compiaciuto all'esecuzione di Caturce.

  Fin qui, insomma, non c'è nulla in questo personaggio un po' meschino che possa catturare un grammo di interesse. Tuttavia Auriol aveva uno scheletro nell'armadio assai più difficile da nascondere di un misero plagio letterario - ed è qui che comincia la sua fortuna postuma, destinata ad essere ravvivata ancora nel '700 da Voltaire, perché perfidamente alimentata, lui ancora vivente, da quanti non l'avevano per nulla in simpatia. Tra questi c'era anche Jean Bodin. Il quale rievoca in un passaggio dei Six Livres de la République la grande paura che aveva attraversato l'Europa in vista della grande congiunzione di Saturno, Marte e Giove prevista per il febbraio 1524. Poiché tale congiunzione doveva avvenire nella costellazione dei Pesci, segno d'acqua, sin dal secolo precedente gli astrologi - a cominciare dal cardinale Pierre d'Ailly - avevano cominciato a vaticinare, con insistenza pari a quella che oggi ci riservano solo le profezie Maya, nientemeno che l'imminente arrivo di un secondo, terribile, diluvio universale. Bodin ricorda quindi malignamente che «ci furono molti miscredenti che si costruirono delle arche per salvarsi, come fece a Tolosa anche il presidente Auriol, sebbene si ricordasse loro la promessa di Dio e il suo giuramento di non far più perire gli uomini per il diluvio». Sì, ce lo vediamo quest'uomo integerrimo, ritto bel bello sulla sua arca in giardino, in attesa che si aprissero le cataratte del cielo e che quel Dio feroce in cui credeva facesse finalmente strage di tutti i peccatori del mondo (o forse, più semplicemente, con l'atteggiamento opportunista tipico del perbenista di ogni tempo, si era costruito il suo vascello perché si ride e si scherza, ma non si sa mai...).

L'attuale sede del Collège Blaise d'Auriol a Castelnaudary
  Un gustoso scambio epistolare avvenuto proprio a ridosso degli eventi drammatici del '33 fra due persone in qualche modo colpite dalla reazione, Arnaud de Ferrier e il già citato Jean de Boyssoné, ci restituisce la fresca e salutare goliardia con cui, nonostante i travagli subiti, questi uomini seppero affrontare la situazione. Scriveva infatti Ferrier, riferendosi espressamente alla richiesta inoltrata da Auriol a Francesco I di cui si è detto sopra: «voi mi domandate della grande, io direi anche la grandissima generosità che il re vi ha fatto concedendovi il diritto di nominare cavalieri delle persone che non hanno mai imparato a montare a cavallo, non più che a discenderne (...) Io temo che il nostro fesso [s'intenda Auriol stesso] faccia fare una mediocre figura a questa liberalità regale, poiché sarà il solo a Tolosa che fino ad oggi abbia messo il freno a dei cavalli con il suo talento di canonista. Oggi Auriol, domani gli altri della stessa pasta! Anche se per Auriol, la cosa funziona; poiché per questo pover'uomo, da tempo esperto di tattica navale, sarà facile assimilare rapidamente i principi della guerra terrestre. Se, in effetti, avete qualche dubbio sui suoi servizi marittimi, ricordatevi che è lui che, quando si diffuse il timore di un diluvio, incredulo nella bontà divina, si fece costruire un battello perfettamente installato e solidamente equipaggiato contro la tempesta. Me lo ricordo bene, avendolo potuto contemplare talvolta nel giardino dell'Università...».

  Può darsi che tutta la vicenda sia una bufala, ingigantitasi poi grazie alla mediazione letteraria, ma certo fa bene al cuore vedere come questi due giuristi spernacchino cotanto collega, appena pochi mesi dopo la morte del loro amico Caturce. L'ironia non basta a redimere la storia, ma rende più giustizia che il mero livore.

venerdì 2 marzo 2012

Mitalogie

Frontespizio dell'edizione originale
de L'Italiano
  Da non so quanto tempo noi italiani viviamo appesi al giudizio che sul nostro conto viene emesso dagli altri paesi e conviviamo con maggiore o minore fastidio con l'immagine dogmatizzata nella santa trinità "spaghetti-pizza-mandolino" (per non parlare dell'assai meno pittoresco riferimento alla criminalità: quando a Londra, tradito dal mio pessimo inglese, rivelai al libico che gestiva il fish&chips sotto casa la mia provenienza italiana, questi commentò con un sorriso tra il sarcastico e il sornione "ahhhh... mafia"; un'esperienza analoga capitò a un mio amico ad opera di un agente di frontiera tra Austria e Ungheria in un'altra occasione). Si può capire la curiosità che provai qualche anno fa nel constatare, leggendoli, che i grandi romanzi che avevano fondato il genere gotico - e che io mi immaginavo ambientati in tetre brughiere nordiche costellate di cimiteri di campagna in cui si aggiravano spettri che si confondevano con la nebbia - parlavano in realtà di noi, a cominciare proprio dal testo che tradizionalmente viene considerato il capofila di quella tradizione, Il castello di Otranto (Horace Walpole, 1765). Il quale, va da sé, si svolgeva nella città pugliese in un'epoca imprecisata al tempo delle Crociate («Gli episodi principali riflettono le credenze caratteristiche delle età più buie del cristianesimo...», si legge nella prefazione). Un altro classico del genere porta impresso il nostro segno sin dalla copertina, giacché si intitola L'Italiano o Il Confessionale dei Penitenti Neri (Ann Radcliffe, 1797), e narra vicende dislocate tra Napoli e altri luoghi del nostro Mezzogiorno non più proiettate sullo sfondo medievale, ma pressoché contemporanee, di una contemporaneità però ancora profondamente immersa, agli occhi dell'autrice, in un passato mai realmente superato. Analoghe caratteristiche si riscontrano anche ne Il Monaco (Matthew Lewis, 1796), che pure è ambientato in terra di Spagna. Immagino che la ragione di questo trend sia da ricercarsi nell'equiparazione tra "gotico" e "medievale" e nella facilità con cui l'opinione pubblica dell'Europa settentrionale guardava all'Europa mediterranea e cattolica come un vero e proprio residuo di quei "Dark Ages" da cui la modernità si era in qualche modo trascinata fuori: non per nulla queste storie parlano immancabilmente di segregazioni conventuali, di faide familiari, di possessioni diaboliche, di torture inquisitoriali, secondo ciò che il gusto del tempo immaginava essere stato il Medioevo.

  Si tratta ovviamente di un mito, elaborato a partire da dati più o meno storicamente attendibili ma destinato poi a godere una vita propria nell'immaginazione pubblica (correlato fantasioso dell'opinione pubblica). Questo non fu tuttavia l'unico mito d'Italia costruito in età moderna. I testi sopraccitati mi sono ritornati alla mente, qualche giorno fa, quando mi sono imbattuto in un brano di Jean Bodin, il grande giurista francese (1529-1596) che nel 1576 pubblicò Les Six Livres de la République, un testo-chiave per la legittimazione dello stato moderno. Quest'uomo così impegnato a riflettere sulle grandi mutazioni politiche in atto nel cosiddetto "secolo di ferro" non poteva non dedicare un'attenzione particolare alle vicende che travagliavano la sua Francia e che assunsero la forma, da noi più volte richiamata in questo blog, delle guerre di religione. Bodin non si limitò a trattare la questione in punta di diritto, ma si profuse in una profondissima indagine teorica durata molti anni con cui cercò di andare alla radice del problema e i cui risultati confluirono nel Colloquium heptaplomeres de rerum sublimium arcanis abditis (potremmo tradurre con "Colloquio a sette voci intorno ai reconditi arcani delle realtà sublimi", e pazienza se così dicendo l'oggetto rischia di restare un po' vago...). Come si evince dal titolo, trattasi di un dialogo tra sette personaggi, in rappresentanza di sette orientamenti diversi nei confronti della religione, nel rispetto di un genere letterario che vanta un'antica tradizione: abbiamo così il cattolico di ampie vedute, il luterano, il sostenitore della religione naturale, il calvinista, l'ebreo, il musulmano e un personaggio inedito che interpreta la parte dello scettico (segno che lo scetticismo stava cominciando davvero a entrare in circolo nella cultura europea). Sull'effettiva paternità di quest'opera, che fu stampata solo alla metà dell'800, sono emersi talora pareri contrastanti, che qui non interessano. Mi interessa invece l'esordio del dialogo, che contiene un elogio appassionato di una città italiana, Venezia, dove appunto si ritrovano tutti i partecipanti alla discussione, provenienti da Roma, Costantinopoli, Augusta, Siviglia, Anversa e Parigi.

Antica mappa di Venezia
(...) avendo costeggiato la riviera adriatica dopo una difficile traversata, approdammo a Venezia, porto comune di quasi tutte le genti o piuttosto del mondo intero, poiché non solo i Veneziani si rallegrano nel vedere e nell'ospitare gli stranieri, ma in quella città puoi anche vivere con grandissima libertà; e mentre le guerre civili o la paura dei tiranni o le dure esazioni delle tasse minacciano altre città e altre regioni, questa sola quasi mi sembra libera e immune da tutti questi generi di servitù. Perciò accade che vi giungano da ogni dove quanti decisero di trascorrere una vita con grandissima pace e libertà, dedicandosi al commercio, all'industria o all'ozio degno degli uomini liberi.

  A Venezia, per la verità, non molti anni dopo, sarebbe stato arrestato Giordano Bruno, ma è estremamente interessante constatare che per un dotto francese del '500 Venezia era l'unico luogo in cui si sarebbe potuta ambientare con una minima credibilità una discussione a tutto campo sui fondamenti della religione. La Serenessima rappresentava allora e rappresenterà ancora a lungo il simbolo dello stato repubblicano, quasi un residuo dell'antica libertà civile romana rimasto miracolosamente vivo dopo tantissimi secoli. Parlando del suo amico Etienne de la Boétie, uomo animato da un profondo amore per la libertà, Montaigne in uno dei suoi Saggi (I, 28) si dice certo che avrebbe preferito con ogni probabilità nascere a Venezia piuttosto che a Sarlac - e di esempi se ne potrebbero fare molti altri.

  É questo, evidentemente, un altro mito, frutto anch'esso di un impasto di dati storici e suggestioni fantastiche, non diversamente da quello di cui i romanzi gotici si nutrono e che contribuiscono a diffondere (il '500 italiano, per dirne una, è anche quello del "Franza o Spagna, purché se magna" e della cura del "particulare" di cui parla Guicciardini, che con la libertà sembrano avere poco a che fare). Ma per noi che viviamo nell'era dello spread dovrebbe essere più facile capire, a differenza che in altri tempi, quanto poco eterei siano i miti e quante ricadute concrete, anche drammatiche, essi possono avere nella storia effettuale dei paesi e delle persone.