lunedì 22 febbraio 2021

Galapagos

C’era una volta, un milione di anni fa, una specie animale che per ragioni del tutto imperscrutabili aveva finito per sviluppare dei grossi cervelli del peso di circa tre chili. É del tutto ingenuo pensare che questo sia un buon motivo per ergersi al vertice della scala naturale. La verità è che «non c’era limite alle trame perverse che una macchina del pensiero di siffatte, soverchie proporzioni era in grado di concepire e di tradurre in atto», oltretutto in nome di opinioni che erano solo «nella testa della gente», come il valore della cartamoneta o l’esistenza di un confine: per quanto ciò possa suonare assurdo, infatti, «nell’era dei cervelli grandi e grossi le semplici opinioni rivestivano la massima importanza», nonostante la loro assoluta volubilità. «Questo, a mio parere, costituiva l’aspetto più diabolico di quei grossi cervelli dei tempi andati. Dicevano, in pratica, ai loro titolari: “Questa sarebbe un’autentica idiozia; probabilmente potremmo anche farla, ma naturalmente non la faremo mai. É solo che pensarci è divertente”. Dopo di che, come in stato di trance, quelle cose le facevano, eccome: organizzavano duelli mortali di schiavi al Colosseo, bruciavano viva la gente sulla pubblica piazza perché proclamava opinioni sgradite, costruivano stabilimenti il cui scopo era quello di uccidere la gente su scala e con metodi industriali, oppure in un secondo distruggevano un’intera città. E potrei continuare con gli esempi». Quegli «infernali computer racchiusi nel cervello della gente ignoravano che cosa fosse la moderazione, l’inerzia, la pigrizia; e imponevano a ritmo spietato problemi estremamente ardui in numero affatto superiore a quelli che la natura era in grado spontaneamente di creare». E poi «che mania di parlare, a quei tempi! Era un bla-bla-bla che da mattina a sera non cessava mai. La gente parlava, parlava, parlava, senza mai stancarsene. (…) Che altro sarebbe potuto essere, quel bla-bla-bla che andava avanti giorno e notte, se non vani, ma sollecitati appelli provenienti dai nostri assurdi, incongrui, enormi cervelli in attività? Non c’era modo di metterli a tacere. Che noi si avesse o meno qualche motivo di metterli in funzione, quelli non si fermavano un momento. E facevano sempre un baccano del diavolo. Dio, che chiasso facevano, quei dannati cervelli!».

Insomma, «dalla violenza che gli esseri umani esercitavano sugli altri, su loro stessi, su qualsivoglia espressione di vita, un visitatore proveniente da un altro pianeta avrebbe potuto pervenire alla conclusione che la terra fosse impazzita, e che la gente fosse in preda a quella frenesia perché la natura si accingeva a farli fuori tutti», senza neanche bisogno di scomodare diluvi o meteoriti: sarebbe bastato lasciar loro l’iniziativa e quegli esseri pensanti avrebbero finito di sicuro per autodistruggersi, tra l’altro senza neanche rendersene conto, perché «una pecca particolarmente grave un milione d’anni fa» era costituita dal fatto «che le persone meglio informate sulle condizioni del pianeta (…) e abbastanza ricche e potenti per frenare gli sprechi e le distruzioni in atto, erano per definizione ben nutrite. Di conseguenza, per quanto li riguardava tutto funzionava nel migliore dei modi» e nessuno di quelli che stavano ai vertici delle nazioni «aveva capito (...) cosa diamine stesse accadendo», anche se non mancavano affatto segnali evidenti che il final countdown fosse ormai cominciato.

Pare un’istantanea scattata un attimo prima dell’imminente apocalisse, l’allegria del definitivo naufragio. Ma qui la satira sferzante che fa di Vonnegut un maestro del conte philosophique novecentesco – e che illumina ogni riga con i suoi lampi d’intelligenza, sia pure con qualche ridondanza – si sposa con le potenzialità conoscitive fornite dal darwinismo, offrendo una soluzione inaspettata al problema, sia pure sotto forma di iperbolico paradosso. Se la natura ogni tanto commette degli errori, quale quello di consentire «l’evoluzione di un fattore distraente, incoerente, dirompente come il grosso cervello di cui il genere umano era dotato», non è meno vero che essa ha anche le risorse per rimettere le cose a posto, senza dover attendere l’intervento provvidenziale di un Dio o degli extraterrestri. «Sono pronto a dichiarare sotto giuramento che la legge della selezione naturale ha proceduto alle riparazioni senza aiuti esterni di alcun genere»: a questo punto va detto che chi pronuncia queste parole, come tutte le altre che sto riportando - anzi chi le scrive «nell’aria, tracciandole con la punta dell’indice della mia mano sinistra, che è fatta d’aria anche essa» - è il fantasma di un uomo che era già morto nel momento in cui comincia la storia che racconta, ma che aveva rinunciato a percorrere la «galleria azzurra che conduce all’Aldilà» non appena resosi conto che il suo nuovo status ectoplasmatico, consentendogli libero accesso alle menti delle persone e a tutti i luoghi del pianeta, avrebbe potuto fornirgli finalmente la chiave «sul senso della vita, su come funziona, e tutto il resto». Cose che possono capitare solo in un romanzo di Vonnegut, ma forse neanche tanto: in fondo, sembra sottilmente dirci l’autore, se crediamo che esista il denaro non si vede perché non dovremmo credere anche ai fantasmi (e ad ogni modo non è neanche la cosa più strana che si può trovare in queste pagine). Il gran rifiuto di accedere subito ai pascoli del cielo costa al narratore una permanenza supplementare sulla terra per un tempo lunghissimo – un milione d’anni appunto. Che sembrano tantissimi, ma sono anche «un lasso di tempo irrisorio», se lo si osserva con occhi evoluzionistici. Quanto basta, per lo meno, per vedere com’è poi davvero andata a finire la storia e trarne le debite conclusioni.

Quel che viene messo in scena è infatti la versione romanzata di ciò che i biologi evolutivi definiscono tecnicamente un “collo di bottiglia”, ovvero ciò che accade quando una serie di eventi imprevedibili sottopone a un fortissimo stress un determinato ambiente, facendo sì che una piccola popolazione si stacchi dalla specie madre, portandosi dietro del tutto casualmente un campione di variabilità genetiche che condizionerà poi le future caratteristiche della popolazione discendente. Per questo motivo Telmo Pievani ne consiglia la lettura in uno dei suoi libri migliori, come invito a riflettere su quel “potere delle circostanze” che fa dell’evoluzione un processo assolutamente non lineare né predeterminato. “Un milione di anni fa” non è perciò altro che il 1986, l’anno successivo a quello della pubblicazione del libro. In quell’anno ci si immagina che venga organizzata una strombazzatissima crociera naturalistica sulle orme di Darwin che da Guayaquil, Ecuador, avrebbe dovuto far rotta verso le Galapagos, alla quale si iscrivono, ciascuno con le proprie personalissime motivazioni, una serie di scombinati personaggi provenienti da tutto il mondo (fantasma compreso), a cui si aggiungono poi altri personaggi non meno scombinati finiti lì più o meno per caso. Quello che avrebbe dovuto essere un semplice viaggio di piacere si trasforma però in una variazione sul mito dell’arca di Noé, per l’azione congiunta di una guerra tra paesi sudamericani, una crisi economica internazionale («semplicemente l’ultima di una serie di micidiali catastrofi verificatesi nel Ventesimo secolo, e che trassero interamente origine dai cervelli umani») e un virus capace di divorare le ovaie delle donne di tutto il mondo, rendendole quasi di colpo totalmente sterili. Salpata per sbaglio senza capitano e senza equipaggio, dopo una deriva di qualche giorno, la Bahia de Darwin finisce per incagliarsi e spegnere i propri motori sugli scogli della fittizia isola di Santa Rosalia. Data la situazione venutasi a creare nel resto del mondo, questo eterogeneo, ma ristretto, gruppo di superstiti isolati dal resto dell’umanità si ritroverà così ad essere l’unica colonia ancora fertile di Homo sapiens e darà vita a un involontario processo di speciazione che trasformerà l’uomo in qualcosa di simile alle foche, con un cervello molto più piccolo e istinti decisamente più elementari.

Naturalmente, il divertimento principale consiste nel vedere come, poco a poco, «su una superficie irrisoria del pianeta», vanno «maturando eventi le cui ripercussioni si sarebbero manifestate un milione di anni dopo», senza che lì per lì tu riesca a capire come tasselli talmente variegati e particolari possano poi generare una parvenza di trama. Qui Vonnegut sguazza nel suo habitat preferito, con il suo talento assoluto per la descrizione di personaggi bizzarri e di situazioni improbabili, mescolando la tragedia alla farsa e soprattutto intersecando di continuo il piano della storia universale e l’intimità minimalistica delle vite di ognuno, quasi a ricordarci come tutto ciò che siamo è appeso a un filo e, se a posteriori ci sembra sempre che tutto sia andato come doveva andare, ogni singolo istante della nostra esistenza è in realtà solo un’eccezione fra miliardi di altre alternative non impossibili. Sorprendentemente, però, il risultato di questo apparente guazzabuglio è che, poi, alla fine, le cose si sono davvero sistemate. «In quel lontano passato, qual era, a eccezione del nostro complicatissimo sistema nervoso, la fonte dei mali che vedevamo o dei quali sentivamo parlare praticamente dappertutto? Ecco la mia risposta: non esistevano altre fonti. Una volta esclusi quei grossi cervelli, il nostro era un pianeta del tutto innocente». E allora, portando alle estreme conseguenze il paradigma della decrescita felice, se riconosciamo che tutti i danni prodotti da questo animale pasticcione che noi siamo sono dovuti alla nostra capacità di pensare, forse sarebbe semplicemente meglio smettere di farlo. Ne trarrebbero tutti vantaggio, noi per primi. Prendiamo l’iguana, per esempio. Essa non ha nemici e «se ne sta immobile in un luogo qualunque, lo sguardo fisso su un punto imprecisato che non è né vicino né lontano; e non vuole nulla, non si preoccupa di nulla fino al momento in cui avverte lo stimolo dell’appetito». A quel punto si immerge in acqua, appena a qualche metro da riva, e si rimpinza di alghe che per essere commestibili devono essere riscaldate. Quindi che fa? Si riporta a riva e si mette al sole: «usa se stessa a guisa di casseruola munita di coperchio, arroventandosi sempre di più mentre il sole va cuocendo le alghe. Continua a tenere lo sguardo puntato a mezza distanza, senza osservare niente di preciso». Nessuno stimolo ulteriore, nessun problema o preoccupazione. «Durante il milione d’anni da me trascorsi su queste isole, la legge della selezione naturale non ha saputo modificare in minima misura – e in senso positivo o negativo – questo particolare schema di sopravvivenza». É più o meno lo stesso schema che adotterà, in quel milione di anni, la nuova umanità pinnipede discendente dai profughi di Santa Rosalia. Certo, tutto ciò ha dei costi, perché la natura non è l’Eden: si vive di meno, si impara molto presto che nessuno veglia su di noi «ed è raro invero che un adulto non abbia visto un parente, o un congiunto sprovveduto, divorato vivo da una balena, da un pescecane assassino». Ma in questo modo la specie riuscirà a preservarsi e potrà anche fare a meno degli psicanalisti.

Chiamarlo lieto fine è evidentemente una provocazione. E pur tuttavia, finché ci limiteremo a scrivere “andrà tutto bene” sui cartelloni sperando che le cose si sistemino magicamente da sole anziché usare finalmente i nostri grossi cervelli per cambiare sul serio i nostri stili di vita, quella qui delineata, per quanto inverosimile, resta anche l’ipotesi più plausibile di salvezza per l’umanità.

(finito il 19 aprile 2020)

Ho parlato di


Kurt Vonnegut
Galapagos
(Bompiani 2015)

Trad. di R. Mainardi

320 pp. | 13 €

(ed. or.: Galapagos, 1985)