venerdì 2 ottobre 2020

Storia del Terzo Reich

Benedette siano le biblioteche scolastiche, che magari non saranno sempre aggiornatissime, ma nelle quali, proprio per questo, in un momento di attesa, ti può capitare di buttare l’occhio su vecchi volumi ormai fuori commercio che per mole o per costi difficilmente entrerebbero mai nella tua libreria di casa. Non è esattamente questo il caso della Storia del Terzo Reich di William Shirer (il cui titolo inglese, The Rise and Fall of the Third Reich, è però un calco gibboniano piuttosto beffardo, se si pensa alle ben diverse durate dell’impero romano e del dominio nazista), testo degli anni ‘60 che, nonostante la consistenza monumentale di oltre 1700 pagine, continua ad essere periodicamente ristampato, anche in formato tascabile e perfino – di recente – come allegato in edicola. Tuttavia è proprio così che mi ci sono accostato, ormai già più di un anno fa, durante i caldissimi giorni della Maturità 2019, aggirandomi fra gli scaffali del mio liceo in occasione di una pausa caffè, dopo un colloquio con qualche candidato in cui si era finiti a parlare, appunto, dell’ascesa al potere di Hitler. Cominciato senza pretese, come se dovesse trattarsi di una sfogliata estemporanea, il libro mi ha invece rapito e impegnato in due intense sessioni di lettura, una per ciascuno dei volumi di cui è composto, portate a termine con grande soddisfazione (come sempre mi capita con questi testi ciclopici) a distanza di qualche mese l’una dall’altra. L’autore era un giornalista – e si vede da come spesso si perde dietro ai pettegolezzi e ai retroscena. Come corrispondente dalla Germania, è però stato anche un testimone oculare di buona parte della storia che racconta e, intrecciando abilmente i documenti d’archivio con la propria esperienza diretta, produce una ricostruzione estremamente avvincente degli eventi, sull’interpretazione complessiva dei quali non ci metterei sempre la mano sul fuoco, ma che è in ogni caso utilissima per farsi un’idea di cosa sia stato il nazismo, anche nei risvolti meno noti. Non è un caso che le sezioni che più mi sono rimaste impresse siano proprio quelle in cui il suo indiscutibile mestiere ha modo di dispiegarsi in tutta scioltezza, come quelle dedicate ai frenetici negoziati che accompagnarono le diverse fasi dell’espansionismo hitleriano nella seconda metà degli anni ‘30, fino al grottesco balletto diplomatico concluso con il patto Molotov-Ribbentrop. 

Ma ben prima di arrivare qui, il racconto ripercorre dall’inizio gli anni di apprendistato del figlio di un doganiere austriaco senz’arte né parte, poco brillante negli studi, maldestro, squattrinato, sostanzialmente privo di una regolare occupazione, di amici stabili e di qualsiasi prospettiva di vita, almeno finché non risuonarono le sirene della guerra ed egli decise di arruolarsi volontario, non però al servizio degli Asburgo, alla cui leva – anzi – si era sottratto «perché detestava servire nell’esercito a fianco di ebrei, slavi e altre minoranze etniche dell’impero», bensì sotto le insegne bavaresi, agognando già allora la riunificazione di tutti i tedeschi sotto un unico Stato liberato di tutte le sue sgradevoli impurità. É ovvio che, in una storia del Terzo Reich, Hitler sia costantemente al centro della scena. Ma nell’attenzione che qui gli si dedica c’è una precisa chiave interpretativa, espressa con parole prese a prestito da Meinecke: «Hitler – si dice – è uno dei grandi esempi (…) della singolare incalcolabile potenza della personalità nella vita storica». Di quest’uomo Shirer osserva che, «sebbene malvagio, era certamente (…) geniale. É vero che il popolo tedesco era stato misteriosamente predisposto a quell’evento da secoli di esperienza, e che egli trovò in esso uno strumento naturale che seppe plasmare come volle per raggiungere i suoi fini sinistri; ma non c’è dubbio che senza la personalità demoniaca di Adolf Hitler, senza la sua volontà di ferro, i suoi strani istinti, la sua fredda mancanza di scrupoli, la sua intelligenza eccezionale, la sua potente immaginazione e la sua quasi incredibile capacità di dominare uomini e situazioni fino alla fine, quando ebbro di potere e di successi oltrepassò ogni limite, il Terzo Reich non sarebbe mai esistito». Come capita a volte a certi cronisti, i quali enfatizzano il proprio argomento per dare importanza a se stessi e al loro racconto, qui Shirer si fa forse un po’ prendere la mano. Perché, poi, a una lettura attenta, quelle che emergono dalla sua stessa ricostruzione sono piuttosto le lacune, anche tecniche, dell’azione politica di Hitler e la conseguente sensazione che a garantirne il successo sia stata certo un’incrollabile ma del tutto arbitraria forza di volontà (ammirevole finché si vuole, eppure non più lucida della cocciutaggine di un bambino), ma soprattutto tutta una serie di circostanze propizie verificatesi in parte per motivi che non dipesero minimente da lui (uno su tutti, il crollo di Wall Street del 1929), in parte, e soprattutto, per incapacità, ottusità e mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto e potuto opporglisi, sia in Germania che all’estero, senza attendere la catastrofe finale. Come l’arrogante a cui si concede di tutto perché se ne temono le reazioni e non si ha voglia di sentire le sue lamentele, così Hitler godette a lungo di una sostanziale impunità che gli consentì per anni di dare compimento a tutte le sue principali promesse, pur rimescolando di continuo le carte e pur mostrando di non avere altra strategia che non fosse quella del continuo colpo di mano coronato da vittoria, cosa che contribuì ad alimentare, a sua volta, il suo mito di vincente. In questa prospettiva, gli ultimi, deliranti mesi passati a dare ordini impraticabili dal suo bunker sotto Berlino non sarebbero tanto da intendersi come il crollo di una mente brillante, ancorché luciferina, travolta dagli eventi, bensì come il rendersi infine palese di una sostanziale dissociazione dalla realtà che c’era sempre stata ma che i risultati via via ottenuti avevano semplicemente messo in secondo piano (così come l’aumento del PIL ci fa perdonare qualunque scandalo al leader di turno). Tra i testimoni di quei momenti finali c’è chi non riesce comunque a sottrarsi all’incantesimo e continua a dichiarargli assoluta fedeltà, ma c’è anche chi si rende finalmente conto, non senza sgomento, che per tutti quegli anni si era tutti dato retta fondamentalmente a uno squilibrato. 

E allora, su questo sì, Shirer ha ragione: le singole persone forse non hanno il potere di condizionare il corso della storia, ma le persone giuste (o sbagliate) al momento giusto (o sbagliato) possono fare da catalizzatore e suscitare reazioni a catena devastanti. L’ho già scritto, forse, ma ci insisto, perché è un punto che mi inquieta molto. Il potere dei mediocri, specie se arrivisti, è incalcolabile. «Questo era il coacervo di uomini attorno al capo dei nazionalsocialisti», osserva Shirer dopo aver tracciato un breve profilo dei principali gerarchi: «in una società normale, essi sarebbero apparsi come un grottesco assortimento di scombinati. Invece negli ultimi caotici tempi della Repubblica, a milioni di confusi tedeschi essi cominciarono ad apparire come dei salvatori». Di riflesso, slogan e ragionamenti che sarebbero apparsi insensati a una mente appena appena pensante, per ragioni credo mimetiche diventarono rapidamente inattaccabile senso comune, non appena la loro iterazione superò una certa soglia critica. «Spesso, in una casa o in un ufficio tedesco, e talvolta durante una conversazione occasionale con uno sconosciuto al ristorante, in una birreria o in un caffè, mi è capitato di trovarmi di fronte alle asserzioni più strane da parte di persone apparentemente istruite e intelligenti. (…) Qualche volta si cedeva alla tentazione di farlo notare, ma si era accolti in questo caso da un tale sguardo di incredulità, da una tale reazione di silenzio (come se si fosse bestemmiato contro l’Onnipotente) che si capiva quanto fosse inutile perfino tentare di prendere contatto con una mente ormai deformata, per la quale la realtà delle cose era divenuta quella che Hitler e Goebbels, cinicamente incuranti della verità, indicavano come tale». 

Capita, quando un narcisista monomaniacale incontra una massa di risentiti e la convince di essere “uno di loro”, appartenente anch’egli, come si legge nel Mein Kampf, al «gregge degli anonimi, a quei milioni di individui che il destino lascia vivere e poi richiama dalla vita, senza che la loro esistenza sia comunque presa in considerazione da qualcuno». Prototipo di tutti gli sbandati che, non avendocela fatta, gridano al complotto, molto più uomo del sottosuolo che non übermensch, Hitler riesce nella manipolazione suprema di presentarsi come uno che sarebbe disposto a morire per il suo popolo, quando in realtà tutto ciò che gli riesce di fare è solo di esigere che il suo popolo muoia con lui. Si finisce così, se si antepone la lusinga alla sostanza. Per dirne solo una, senza arrivare neanche ai campi di sterminio, «tutti i propagandisti del Terzo Reich, da Hitler ai suoi seguaci, non mancavano mai, nei loro discorsi in pubblico, di scagliarsi contro la borghesia e i capitalisti, dichiarando la loro solidarietà con i lavoratori. Ma uno studio attento delle statistiche ufficiali, che probabilmente ben pochi tedeschi si prendevano la briga di calcolare, rivelava che erano i tanto attaccati capitalisti, e non i lavoratori, a trarre i maggiori benefici dalla politica nazista» - che è poi la stessa cosa che accade anche oggi con i nostri cosiddetti sovranisti. Contenti voi, se continuano a piacervi capitani di questo genere.

(Finito il 13 dicembre 2019)

Ho parlato di

William L. Shirer
Storia del Terzo Reich
(Einaudi, 1962)

Trad. di G. Glaesser

2 voll. | 1778 pp. | 4000 lire

(ed. or.: The Rise and Fall of the Third Reich, 1960).