giovedì 25 ottobre 2018

L'anno dei dominatori

Fa sempre un po' effetto leggere un romanzo di fantascienza ambientato in quello che nel frattempo è diventato già il nostro passato. L’“anno dei dominatori” è infatti un ucronico 2010, in cui una specie aliena così evoluta da aver imparato a trapiantare le proprie menti in organismi ospiti stabilisce un primo contatto con l’umanità promettendo di rimettere in sesto il nostro pianeta devastato dal riscaldamento globale e dall’inquinamento. «Neppure quattrocento anni prima gli indiani avevano venduto l’isola di Manhattan agli olandesi per una cifra ridicola. Le nazioni della Terra, ora, avrebbero ottenuto ben di più»: la fusione fredda, gli impianti di dissalazione, le industrie alimentari, l’asfalto eterno... In cambio di tutto questo ben di Dio, si chiede solo la possibilità di costruire stazioni di transito attraverso cui dei corrieri appositamente selezionati e sufficientemente masochisti per sostenere il trauma del teletrasporto possano veicolare, impacchettate nei loro cervelli, delle coscienze aliene perché vengano trasferite da chissà dove nei corpi di tossici la cui identità è stata resettata dal consumo di una droga extraterrestre chiamata Beatitudine. Massimo riserbo sui dettagli dell’operazione e nessuna ulteriore informazione sulla tecnologia che la consente.

Ce n’è abbastanza per sentire puzza di bruciato: Timeo Danaos et dona ferentes. Curiosamente gli unici che senza saperlo fanno memoria di questo motto sono quegli stessi integralisti islamici che - si presume - avrebbero dovuto distruggere tutte le copie dell’Eneide prima o dopo aver fatto saltare in aria i Buddha di Bamyan. Il resto dell’umanità, invece, abbocca, ed anzi fa a gara per assicurarsi una linea diretta con i mondi alieni. Ahinoi, dietro le profferte di collaborazione interplanetaria si nasconde davvero un piano di conquista globale, previa ricostruzione di un habitat più consono alla vita rispetto a quello avvelenato che abbiamo allestito noi dopo appena trecento anni di industrializzazione. «Noi umani abbiamo sognato per secoli di viaggiare per lo spazio, di modificare la nostra biologia fino a diventare, in effetti, gli alieni delle nostre fantasie. Invece, è il contrario. Gli alieni diventeranno noi». É la nemesi del colonialismo. Non per nulla, l'invasione comincia dalla Gran Bretagna.

Ma l’occupazione della Terra non è che l’ennesimo passo di una storia cominciata molto prima e destinata a durare ancora a lungo, in vista di uno scopo ben più sofisticato che il mero dominio intergalattico. Questi non sono marziani da b-movies: dopo aver consumato il proprio ambiente natio ed essere trasmigrati via via in altri viventi, il loro «piano finale» consiste infatti nel «diventare degli esseri di pura energia e sopravvivere in qualche modo al collasso dell’universo, da qui a qualche miliardo di anni, e continuare a vivere in un coraggioso, nuovo universo. (...) Con ogni mondo che conquistano, sembra che ottengano qualche nuova conoscenza, e questa è la ragione tre della loro pirateria planetaria. Mettete insieme abbastanza conoscenze, e forse sul lungo corso potrete diventare qualcosa di simile a Dio». Sulla Terra, però, questi Finti-Uomini (Mockymen, titolo originale del romanzo) si imbattono anche in qualcosa di inaspettato ed estremamente interessante per i loro esperimenti metempsicotici, vale a dire un ex-SS che, a coronamento di un rituale nazi-tibetano consumato nel parco Vigeland di Oslo (dove si sarebbe dovuto svolgere il Ragnarok ariano, il supremo conflitto spirituale contro le forze nemiche), riesce a reincarnarsi in un proprio discendente con un supremo, titanico, sforzo di volontà - perché «una volontà adeguatamente mirata può ottenere qualsiasi cosa». Sta a vedere che i fanatici dell’antica Thule ci avevano visto giusto: tutto l’armamentario misticheggiante coltivato nel loro circolo «credo che fosse una visione del futuro, un’intuizione della venuta dei Finti-Uomini, superiori a noi, a occupare i nostri corpi umani, a prepararsi per soppiantarci. Si mascherano come uomini. Il nazismo fu mal diretto, eppure il nazismo parlava di ebrei tra noi come membri di una specie differente che si mascheravano come esseri umani». Immagino sia più o meno la stessa poltiglia ideologica che marciva nella testa di Breivik quando escogitò la strage di Utoya. Per paradosso, a salvare capra e cavoli ci penserà (con l’appoggio dei mullah e lo zampino dei servizi segreti di sua Maestà) un manipolo di alieni alienati, pronti a tradire il loro stesso sangue per salvaguardare il pluralismo biologico dell’universo.

Come spesso capita con questi romanzi, la trama si ingarbuglia e ti confonde, muovendosi tra noir scandinavo, spy-story spaziale e utopia postumana, però vuoi mettere il gusto di starsene spaparanzato in spiaggia fantasticando di menti disincarnate, nuove soglie della coscienza cosmica, Sé che diventano qualcos’altro travalicando le barriere dell’Io e altre diavolerie del genere mentre lì intorno imperversano le solite, interminabili partite a racchettoni?

(finito il 29 luglio 2018)

Ho parlato di


Ian Watson
L'anno dei dominatori
(Mondadori, 2018)

(Urania Collezione 185)

trad. di C. Scerbanenco

266 pp. | 6, 90 €

(ed. or.: Mockymen, 2003; 1ª ed. italiana 2005)

giovedì 18 ottobre 2018

La lezione sugli indios di Francisco de Vitoria

Io non capisco molto quei libri in cui si sottrae spazio al testo per corredarlo di prefazioni e postfazioni che si potrebbero riassumere nel fantozziano “è un bel direttore!” applicato, nella fattispecie, all'autore. Grazie tante. Purtroppo questa è la versione del De indis che sono riuscito a recuperare e me la sono dovuta far piacere (con meno salamelecchi ne sarebbe venuta fuori senza problemi un’edizione integrale; so che ne esiste un’altra in italiano, più scientifica, ma com’è difficile studiare fuori dal circuito delle biblioteche specializzate!). Che poi, editorialmente parlando, un suo perché questo volume ce l’avrebbe pure, inserito com’è in una collana di presentazione di quei classici del pensiero cristiano che hanno esercitato un’influenza persistente sulla cultura occidentale, come le Confessioni di Agostino o la Summa di Tommaso. L’inserimento di Vitoria in questa Hall of fame è meno scontato, e anche se può apparire un po’ come una foglia di fico stesa sul genocidio americano, ha il valore di una definitiva presa di coscienza. L’idea è che la sua importanza risieda nell’aver riconosciuto agli indios piena dignità umana e correlativi diritti – e questo sicuramente è vero; resta da vedere se sia proprio questo il suo lascito autentico e duraturo (e su questo ho purtroppo qualche dubbio). 

Francisco Vitoria appartiene a quel gruppo di teologi spagnoli che, nel cuore del Cinquecento, si proposero di ristrutturare l’ordine cristiano elaborato dalla Scolastica alla luce delle nuove sfide lanciate dall’incipiente modernità – tra cui, appunto, la scoperta di quel Nuovo Mondo che le tradizionali categorie giuridico-teologiche codificate in epoca medievale facevano così fatica a inquadrare, evidenziando le stesse difficoltà di tenuta che, di lì a poco, avrebbero incontrato gli argomenti aristotelici di fronte all’esplosione dell’universo copernicano. Lo sforzo è ragguardevole e merita attenzione. Dimostra anche l’ardire di una teologia che non esita a esporsi su delicate questioni di pubblico interesse, non solo con generici per quanto benemeriti appelli, ma con tutto il pathos di un ragionamento rigoroso capace di sgretolare le costruzioni ideologiche dei falsi devoti. In virtù di questo approccio, Vitoria si spinge a negare qualsiasi valore legale alle concessioni papali che avevano ratificato la spartizione del globo terrestre tra spagnoli e portoghesi subito dopo l’impresa di Colombo. C’è tutto un mondo, là fuori, su cui il papa non ha la minima giurisdizione – dice – e potrebbe forse non averla mai, almeno in teoria. In questo vasto mondo abitano popoli estranei all’orizzonte cristiano, ma non all’orizzonte umano, ed è semmai a partire da questa base comune che si può e si deve trattare con loro. Certo, questi americani sono un po’ strani, girano nudi e hanno abitudini sessuali quantomeno discutibili, eppure sanno gestirsi, possiedono magistrati, templi, mercati – indizi tutti di una forma di organizzazione diversa dalla nostra, ma legittima. Non ci si può semplicemente presentare, imporre loro (in latino) di sottomettersi a un’autorità remota e poi punirli perché non lo fanno. Sì, forse non farebbe loro male affidarsi alle più sapienti mani europee, come un figlio si affida a un padre o un discepolo a un maestro, per abbandonare quella situazione di oggettiva inferiorità, anzitutto tecnologica, di cui hanno dato prova e raggiungere quanto prima un grado di civiltà superiore, ma ci sono molti sospetti sul fatto che quelli che si presentano loro come pastori, inebriati di potere, non ne abusino trasformandosi in lupi per queste pecorelle (del resto, la rete di missionari domenicani forniva a Salamanca informazioni di prima mano sulle malefatte dei conquistadores, ed è anche per togliere loro ogni alibi che Vitoria incentra la sua prolusione magisteriale del 1539 su questo argomento: era ancora fresca la memoria della proditoria uccisione di Atahualpa in Perù ad opera di Pizarro).

E tuttavia, probabilmente al di là delle sue intenzioni, con questo suo modo di ragionare Vitoria finisce anche per consegnare ai suoi avversari un argomento destinato ad avere ben più fortuna di quelli formulati contro lo sfruttamento coloniale. Gli indios sono umani a pieno titolo, d’accordo; dunque, sono titolari degli stessi diritti e doveri riconosciuti agli altri uomini. Ora, fra questi diritti inalienabili rientra anche quello di muoversi liberamente su tutto il pianeta, senza restrizioni né ostacoli. Proprio così: «in effetti in tutte le nazioni è considerato inumano, se non vi è un motivo speciale, non ricevere gli ospiti, o ricevere male i pellegrini e, al contrario, si considera umano comportarsi bene con i pellegrini, a meno che i pellegrini seminino il male quando si recano nelle nazioni straniere». Siamo umani, apparteniamo alla stessa famiglia, è naturale (si badi: non “cristiano”) aprire la propria porta a un simile in difficoltà, come è naturale accostarsi a un connazionale quando ci si trova all’estero (solo che qui non c’è estero che tenga, poiché i confini sono una rete artificiosamente sovrapposta a quella patria comune che il mondo). Fa bene ripeterselo, e fa bene ripeterlo ai cantori delle nostre tradizioni: è questa la nostra tradizione! E allora via gli steccati e via le dogane: se gli spagnoli non hanno il diritto di depredare gli indios, gli indios non hanno dal canto loro il diritto di chiudere i porti agli spagnoli, qualora si presentino con la borsa a tracolla anziché armati di cannone. É già un passo in avanti, senza dubbio. Ma dove si va a finire, partendo di qui? Amitav Ghosh, in quel grandioso libro che è Mare di papaveri, ambientato al tempo della guerra dell’oppio, lo fa dire così a un commerciante inglese trapiantato in India: «La guerra, quando verrà, non sarà per l’oppio. Sarà per un principio, per la libertà... libertà di commercio e libertà del popolo cinese. Il Libero Commercio è un diritto conferito all’Uomo da Dio, e i suoi principi valgono sia per l’oppio sia per qualunque altra merce. tanto più che, mancando l’oppio, a milioni di nativi sarebbero negati i duraturi vantaggi dell’influenza inglese». Non c’è nessuna grande idea che non si riesca a pervertire. Guarda che fine ha fatto la sovranità popolare...

(finito il 19 luglio 2018)

Ho parlato di


Ramon Hernandez Martin
La lezione sugli Indios di Francisco de Vitoria
(Jaca Book, 1999)

Trad. di S. Casabianca

128 pp. | 13,43 €

domenica 7 ottobre 2018

Dal Nuovo Mondo all'America

Un manuale è quel tipico genere di libro che quando te lo fanno leggere, all'università, tendenzialmente non lo puoi capire (troppo compresso: in pratica ti pieghi a dei dogmi) e quando finalmente lo puoi capire, di solito non ti serve più (troppo superficiale: ormai sai già tutto quello che di essenziale c’è da sapere sull’argomento). Io, però, che sono ostinatamente metodico e pedante, quando sintonizzo le antenne su un certo argomento, tendo comunque a ripartire sempre dai fondamenti, e di testi così ne ho perciò mandati giù e ne mando ancora giù a palate, con la controindicazione non proprio irrilevante di ritardare, talora, la lettura di cose più interessanti, ma anche più peculiari. Così, non appena ho cominciato a immaginare un corso dedicato al confronto tra europei e americani agli albori dell’età moderna, la prima cosa che ho fatto è stata appunto quella di ordinare un agile volumetto di sintesi, per avere fra le mani il mio aggiornato status quaestionis e non correre il rischio di divulgare palesi castronerie, che è poi uno dei rischi della specializzazione (quante volte, passando da un’aula all'altra, scoprivi che molti illustri cattedratici, negli ambiti non di loro stretta competenza erano spesso rimasti fermi alle conoscenze acquisite quand'erano a loro volta studenti e adesso, passati trenta o quarant’anni, su certi temi ne sapevano meno di te che eri semplicemente stato attento alla lezione dell’ora precedente). E poi sono all'antica, non riesco a farne a meno: prima di parlare, mi documento. Una collana intitolata “Aulamagna” è quello che ci vuole – ed in effetti, in tre sezioni declinate in forma verbale (“Scoprire, esplorare, rappresentare”, “Conquistare, governare”, “Conoscere, descrivere, disputare”), sono qui riportati tutti i nomi e tutte le date che servono allo scopo.

Sarebbe però ingeneroso presentare questo testo come un mero bignamino. Ciò che Donattini traccia, in modo intelligente, è in effetti un perimetro delle svariate questioni che girano intorno a quelle che oggi magari ci vergognamo un po’ a chiamare ancora “scoperte geografiche” (perchè si è capito che i nativi sapevano di esserci, senza bisogno che arrivassimo noi a “scoprirli”), ma di cui si è tornati a sottolineare con forza, da un po’ di tempo a questa parte, l'assoluta centralità in ogni discorso che abbia a che fare con la modernità, sia dal punto di vista socio-economico, sia dal punto di vista culturale. A patto che si riconosca – ed è questa una delle idee-chiave del volume – la «reciprocità del cambiamento». Il contatto tra Vecchio e Nuovo Mondo, se fu devastante sul piano anzitutto materiale per quest’ultimo, si rivelò non meno shockante per il primo, costretto a ripensare dal profondo la propria identità e a rimettere in gioco molti dei propri presupposti (la comune derivazione da Adamo, per dire, ma anche l'ipotesi di possibili abitanti su altri pianeti), avviando quello che un altro storico ha definito la “fase di rullaggio” necessaria per il decollo industriale. Insomma, senza Colombo e senza Vespucci non solo non avremmo avuto Galileo e Cartesio, ma neanche Watt – e lì in mezzo, nel ruolo di voce della coscienza, più che Erasmo o Voltaire, il buon Montaigne.

La cosiddetta “scoperta” non va dunque intesa come un fatto puntuale, né unilaterale, e tanto meno come l’occasione per operare un semplice travaso di valori europei sulla vergine terra americana, ma si trattò di «un percorso mentale ricco e complesso, nel corso del quale lo scopritore giunge ad attribuire un senso alla realtà ritrovata, tale da integrarla nella sua visione complessiva del mondo: percorso che richiede un arco di tempo lungo per sistematizzare i propri risultati; nel caso dell’America, quasi due secoli...». Il risultato fu, in un primo momento, una ridefinizione dei rapporti di forza a livello planetario. D’altronde, lo slancio coloniale fu messo in moto da un desiderio di sottrarsi a una marginalità su cui agivano ancora le potenti mitologie medievali della reconquista ma anche, e soprattutto, la febbre mercantile di far fruttare il più possibile i propri investimenti (con buona pace di Max Weber, sembra che i banchieri fiorentini abbiano giocato un ruolo quantomeno analogo a quello svolto qualche tempo dopo dai loro colleghi puritani nel tessere la tela del capitale sull’intero globo terracqueo). Non è un caso che ormai tutti i libri di storia del liceo dedichino delle pagine all’ammiraglio cinese Zheng He e al perché le sue giunche non siano sbarcate a Lisbona prima che i portoghesi arrivassero a Calicut: nel momento in cui si comprende che la conquista dell’America non fu solo il «punto di partenza (...) di molte e complicate storie», ma anche il «punto d’arrivo di altre storie, molteplici e complicate a loro volta», si è capito che la storia d’Europa non può essere più raccontata senza considerarla congiuntamente a quella del resto del mondo. E se questo è già vero prima di Colombo, «dopo l’incontro nulla resta uguale a prima. Sul suolo americano piante, idee e uomini (americani ed europei), si confondono in una storia di meticciato progressivo, dagli esiti imprevedibili». Parlare dell’America del XVI secolo è allora come parlare del mondo odierno: con il vantaggio, però, che la prospettiva storica ci può rieducare a chiamare col loro vero nome ciò per cui oggi usiamo invece delle perifrasi edulcorate, per sedare la coscienza e occultare l’evidenza che non c’è problema che non sia globale e che non richieda soluzioni di carattere globale.

(finito il 6 luglio 2018)

Ho parlato di


Massimo Donattini
Dal Nuovo Mondo all'America.
Scoperte geografiche e colonialismo (secoli XV-XVI)
(Carocci, 2017)

208 pp. | 12 €