mercoledì 31 agosto 2022

Il silenzio

Per quanto sia un principio oggi in declino, in linea di massima resta valido che, per poter parlare di una cosa, uno dovrebbe avere almeno una vaga idea di cosa sia la cosa di cui vorrebbe parlare. E invece, anche se è trascorso più di un anno, io non credo di avere ancora capito bene che cosa ho effettivamente letto quando ho portato a termine questo libro di Don DeLillo su cui mi sto accigendo a scrivere le mie consuete due righe, per cui confesso un certo imbarazzo. Il formato ridotto rispetto a un tradizionale Supercorallo suscita il sospetto di un maquillage editoriale per poter far apparire quantomeno come un romanzetto, stiracchiandolo fino al centinaio di pagine, un testo che, se guardiamo solo alla lunghezza, non sembrerebbe avere i requisiti minimi per rientrare in quella categoria merceologica. Tuttavia, se si considerano la divisione in due parti, l’ulteriore scomposizione di queste parti in brevi, talora brevissimi, capitoletti (che nella seconda sezione perdono ogni indicatore numerico e anche quella specie di titoletto riportato in esergo presenti invece nella prima), la presenza di diversi personaggi che restano però appena abbozzati senza che emerga un chiaro filo narrativo, ma soprattutto un periodare spesso ridotto a sequenze di frasi puramente nominali, con molti spunti e tantissime domande lasciati cadere senza ulteriore approfondimento – questi son tutti indizi che fanno pensare, più che a un’opera compiuta, foss'anche un racconto, a una sorta di palinsesto che potrebbe costituire semmai la traccia per un eventuale, futuro, romanzo tutto ancora da definire.

Del resto, l’argomento prescelto meriterebbe senz’altro più ampio respiro. DeLillo – e questo è meritorio – non ha infatti paura di sporcarsi le mani con quello che potrebbe sembrare un soggetto di genere, roba da fantascienza catastrofista, come il collasso mondiale di tutti i sistemi di comunicazione e di tutti gli strumenti elettronici, per portare avanti il discorso già intrapreso nel precedente Zero K a proposito della sempre più stringente interazione tra uomo e macchina che ci rende già di fatto, per molti aspetti, una specie postumana. Più o meno, ecco la domanda: «cosa succede alle persone che vivono dentro al loro telefono» quando il telefono si spegne definitivamente e ogni interfaccia si riduce a uno schermo nero? «Posso dirvi questo», prova a rispondere la receptionist di un ospedale ormai totalmente ingestibile, «di qualunque cosa si tratti, quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia. La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll e dei bot. Ogni cosa nella datasfera è soggetta a distorsioni o furti? E a noi non resta che starcene seduti qui e piangere il nostro destino?». Subito dopo, anche «le luci sul soffitto cominciarono a sfarfallare e ad affievolirsi finché non si spensero del tutto. La clinica piombò improvvisamente nel silenzio. Tutti aspettavano. E oltre a questo, un senso generale di paura per l’attesa stessa, perché ancora non era chiaro il significato di ciò che stava avvenendo, quanto fosse catastrofica e definitiva quell’anomalia che andava ad aggiungersi a una serie di eventi già di per sé drammatici».

Ed in effetti nessuno capisce che cosa stia succedendo. «É sempre stato ai margini della nostra percezione. L’interruzione della corrente, la tecnologia che piano piano si dilegua» - eppure si resta tutti disorientati, lettore compreso, di fronte a una situazione che non si riesce neppure a nominare. Un po’ come è accaduto con il lockdown, quando il blocco improvviso della routine quotidiana ci ha messo di fronte al vuoto di una nuda vita che in molti non sapevano neanche più di possedere, tanto si era sovraccaricata di riunioni, impegni e attività, così il tacere contemporaneo di tutti gli strumenti elettronici del mondo fa piombare l’umanità in uno stato di sospensione, quasi che con lo spegnimento della lucina rossa dell’alimentazione dei nostri strumenti ci si aspettasse, da un momento all’altro, anche l’esaurirsi del nostro stesso respiro (che invece, curiosamente, continua: «toccare, percepire, mordere, masticare. Il corpo alla fine fa di testa sua»). Qualcuno parla di «Terza guerra mondiale», qualcuno dice che stiamo assistendo a «un processo di zombificazione», ma in realtà «nessuno ha idea di cosa stia dicendo». Potrebbe essere un’invasione aliena o la proliferazione di un virus informatico o qualcosa di ancor più inconcepibile: «e se il mondo che conosciamo venisse sottoposto a un nuovo assetto davanti ai nostri occhi mentre stiamo fermi a guardare, oppure mentre stiamo seduti a parlare?» - come una sorta di reset cosmico, un update del sistema che prevede la cancellazione dei dati precedenti e la loro sovrascrittura con una versione aggiornata, prova definitiva che la nostra sedicente realtà non sarebbe altro che una simulazione tridimensionale prodotta da una qualche funzione quantistica (tesi che è stata peraltro sostenuta e argomentata recentemente in sede accademica).

A un certo punto, «la gente ricomincia a farsi vedere nelle strade, con una certa cautela all’inizio, e poi sulla scia di un senso di liberazione, tutti camminano, guardano, s’interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudio». Insomma, è arrivata l’apocalisse, ma se non c’è più neanche il Televideo per dircelo, non siamo in grado di rendercene conto. E se non siamo più allacciati alla rete delle reti, come facciamo a dire ancora che stiamo davvero vivendo tutti quello che stiamo vivendo? Che il mondo è ancora il “nostro” mondo, una realtà condivisa?

I frammenti sparsi che ho estrapolato spero diano un’idea della frammentarietà stessa del libro. Poiché, quando conosci molto bene una persona, puoi comprenderne le sfumature di pensiero anche da un minimo moto del viso che ai più resta impercettibile, è probabile che chi ha una certa familiarità con DeLillo possa riconoscervi comunque bagliori di genio – più di me, per lo meno, che, pur incuriosito, sono arrivato rapidamente alla fine per ritrovarmi a pensare, come lo spettatore di un trailer, “bello, ma quand’è che comincia la storia?”.

(finito il 30 aprile 2021)

Ho parlato di


Don DeLillo
Il silenzio
(Einaudi 2021)

Trad. di F. Aceto

104 pp. | 14 €

(ed. or.: The Silence, 2020)

lunedì 22 agosto 2022

Il tunnel

Ho la netta sensazione che se avessi scoperto questo libro a sedici anni o giù di lui, il suo protagonista sarebbe entrato difilato nella galleria dei miei eroi adolescenziali. Per il poeta maledetto che immaginavo di essere non appena mi rinchiudevo nella mia cameretta, non ci sarebbe stato infatti nulla di più suggestivo che sprofondare nei monologhi interiori di un personaggio come Juan Pablo Castel, pittore fieramente consapevole «che ciò che a me pare chiaro ed evidente non lo è quasi mai per il resto dei miei simili» e animato per questo da sincera repulsione verso la legione dei normali che tiene in piedi «l’inutile commedia» sociale, limitandosi a ripetere discorsi già detti e ridetti un milione di volte, senza porsi troppe domande. Come avrei potuto evitare di identificarmi, all’epoca, con uno che scrive di sé che «il mio cervello è sempre in fermento» e che al tempo stesso si considera però anche «molto timido» e «condannato a rimanere estraneo alla vita di qualsiasi donna»? Quel suo cervello «sempre in funzione, come un calcolatore» mi avrebbe inevitabilmente richiamato alla mente l’amato Sherlock Holmes, così come le «deduzioni feroci» a cui Castel si abbandona «con rigore assoluto (…) fino alle estreme conseguenze», se non fosse che, a differenza di quanto accade con Holmes, nel «labirinto oscuro» della sua mente tutto questo «analizzare all’infinito fatti e parole» lo porta sistematicamente a «scegliere le strade più accidentate», con la conseguenza di rivestire la realtà di incessanti, contorte, sovraletture, anziché aiutarlo a capire quel che davvero gli accade intorno. Non nego di esserci cascato anch’io – e probabilmente proprio queste ultime considerazioni mi avrebbero potuto aiutare a relativizzare quel che avrei potuto rischiare di idealizzare, come quando ci si accorge, guardando una propria foto, che la posa da duro, in realtà, è solo ridicola: se è vero che le cose non sono necessariamente sempre semplici, fare di questo assunto il pretesto per dare consistenza alle ipotesi più inverosimili non è infatti salutare per nessuno.

Non lo è anzitutto per Maria Iribarne, la donna che, con coraggioso anticlimax, sin dalla prima riga, in quella che dobbiamo immaginare come una confessione stilata in carcere, Castel si assume la responsabilità di avere ucciso. L’errore della vittima – se così si può dire – è stato quello di aver partecipato a un’esposizione delle opere del suo futuro assassino e di essersi soffermata a lungo, con estrema partecipazione interiore, quasi rapita, sul dettaglio di un quadro a cui nessuno degli altri visitatori – e men che meno i critici – aveva fatto caso. Poco importa che quel dettaglio sia una finestrella attraverso cui si vede «una spiaggia deserta e una donna che guardava il mare. Era una donna che guardava come in attesa di qualcosa, forse un richiamo spento e distante». Il punto è che lei, solo lei ha capito che «quella scena costituiva qualcosa di essenziale». Qui l’armatura cinica dell’artista va totalmente in frantumi. Noi lettori siamo abituati a giudicare quel momento folgorante in cui t’imbatti in una frase che ti scava dentro come se fosse stata scritta adesso apposta per te, anche se è stata pensata in un altro tempo e in un altro luogo, come un atto di munificenza del genio che elargisce al mondo la divina sovrabbondanza di doni di cui gode, la sua capacità di vivere migliaia di vite oltre alla sua – eppure lo stesso evento può essere interpretato anche all’opposto, come l’occasione attraverso cui, ritrovando il messaggio in bottiglia che ha gettato nell’oceano della storia, e comprendendone il significato, rassicuriamo il disperato mittente che qualcuno l’ha capito, che non è vissuto invano. Sentite: «era come se entrambi fossimo vissuti in corridoi o in tunnel paralleli, senza sapere di stare un accanto all’altra, come anime somiglianti in tempi somiglianti, per ritrovarci alla fine di quei corridoi, davanti a una scena dipinta da me, come una chiave destinata a lei sola, come l’annuncio segreto che io ero lì e che i corridoi si erano finalmente uniti e che l’ora dell’incontro era arrivata. L’ora dell’incontro era arrivata!».

Sì, sì, mi sto proprio rivedendo, quando trascrivevo sul mio diario gli aforismi di Gibran («il primo sguardo che ci giunge dagli occhi dell’amata è come lo spirito che si muoveva sulla superficie delle acque e che diede origine al cielo e alla terra, quando il Signore parlò e disse: “Che sia così”»), sovrapponendo di continuo i piani al punto da immaginare di poter sedurre la vicina di banco con l’invio di un sonetto. Perché quel che vale per l’arte non vale forse anche per l’amore? Quando in un incrocio di sguardi scatta la scintilla e due perfetti sconosciuti giunti da chissà dove esclamano insieme “sei tu”. Boom. A quel punto anche una cronica acidità cambia colore e persino gli occhi del malmostoso si fanno a cuoricino. «Che tenerezza sentivo nell’anima, che bello mi appariva il mondo, il pomeriggio d’estate, i ragazzini che giocavano sul marciapiede! Adesso ripenso fino a che punto l’amore possa accecare e che magico potere abbia. La bellezza del mondo! Ci sarebbe da morire dal ridere». E infatti a Castel non basta che Maria abbia gettato un giorno il suo sguardo sulla sua opera: a quel punto vuole andare a fondo, conoscerla, entrare nella sua vita, perché la sua non ha più senso senza di lei.

Tutto questo è vero e resta vero anche da grandi. Il problema è che la relazione con Maria non è come Castel se l’aspettava, perché lei (che, fra parentesi, è sposata) è sfuggente e non accetta i deliri totalizzanti con cui lui, come uno stalker, la vorrebbe tutta per sé. «Ci sono molti modi di amare, di voler bene», gli confida, ma lui sul punto non vuole sentire ragioni. Si può facilmente ironizzare su come un simile argomento possa costituire la pretestuosa giustificazione di una donna licenziosa al povero servo della gleba lasciato col cerino in mano e la scopa dove ben sappiamo, eppure è un fatto che in ogni storia d’amore resta davvero sempre un margine di oscurità - non foss’altro perché i due amanti hanno un diverso passato, una propria storia, che non potrà mai essere condivisa del tutto, fino in fondo, fra loro. Amarsi, per fortuna, non è mai fondersi. «Ogni volta che Maria mi si avvicinava in mezzo ad altra gente, io pensavo: “Tra quest’essere meraviglioso e me esiste un vincolo segreto”, e poi, quando analizzavo i miei sentimenti, avvertivo che lei stava diventando indispensabile per me (come qualcuno che incontri su un’isola deserta) per trasformarsi più tardi, una volta che la paura della totale solitudine fosse passata, in una specie di lusso che mi inorgogliva, ed era in questa seconda fase del mio amore che erano cominciate a sorgere mille difficoltà, proprio come quando qualcuno, che sta morendo di fame, accetta qualsiasi cosa, incondizionatamente, per poi, una volta soddisfatte le esigenze più urgenti, iniziare a lamentarsi sempre di più a proposito di difetti e di inconvenienti». E così, la promessa di felicità assaporata al loro primo incontro viene lentamente soffocata dal peso di una quotidanità che il pittore non sa interpretare se non sotto forma di tradimento. «Sentivo per la prima volta che non sarei mai riuscito a unirmi a lei in modo totale e che dovevo rassegnarmi ad avere fragili momenti di comunione tanto malinconicamente inafferrabili come il ricordo di certi sogni, o come la felicità di alcuni passaggi musicali». L’incantesimo non si produrrà mai più, non potrà mai essere come ieri.

Ma quindi la poesia dell’incontro, la fusione di anime? Una «stupida illusione». No, «tutta la storia dei corridoi era una ridicola invenzione o credenza mia». «C’era solo un tunnel, buio e solitario: il mio, il tunnel in cui avevo trascorso l’infanzia, la giovinezza, tutta la mia vita. E in una delle parti trasparenti del muro di pietra avevo visto questa ragazza e avevo creduto ingenuamente che arrivasse da un altro tunnel parallelo al mio, quando in realtà apparteneva al grande mondo, al mondo senza limiti di coloro che non vivono in un tunnel; e forse si era avvicinata per curiosità a una delle mie strane finestre e aveva intravisto lo spettacolo della mia solitudine senza scampo, o l’aveva intrigata il linguaggio muto, la chiave del mio quadro. E allora, mentre io avanzavo sempre più per il corridoio, lei viveva all’esterno una vita normale, la vita agitata di quelle persone che vivono all’esterno, quella vita curiosa e assurda in cui ci sono balli e feste e allegria e frivolezza. E a volte succedeva che quando passavo di fronte a una delle mie finestre lei mi stava aspettando muta e ansiosa (perché mi aspettava? E perché muta e ansiosa?); ma a volte succedeva che non arrivava in tempo o si dimenticava di quel povero essere prigioniero, e allora io, con il viso schiacciato contro il muro di cristallo, la vedevo da lontano che sorrideva e ballava spensierata o, peggio ancora, non la vedevo affatto e la immaginavo in luoghi inaccessibili o ignobili. E allora sentivo che il mio destino era infinitamente più solitario di quanto avessi immaginato».

Ho ben presente dei momenti in cui ho provato esattamente questo tipo di emozione – e ho presente anche il rancore (di cui non vado fiero) che in certi momenti m’ha preso, immerso in tali situazioni. Ma, appunto, ero adolescente. Di più, un adolescente imbevuto di letteratura, seguace dei romantici, uno per cui “o tutto o niente”. Oggi ritrovo spesso questo atteggiamento nelle prese di posizione, a volte letterariamente fascinose, di chi, aborrendo il livellamento merceologico del tempo presente, propone come unica via di salvezza l’annichilimento nell’Assoluto, poiché ogni altra forma di vita sarebbe una vile compromissione, come se l’umano non fosse invece un microcosmo in cui l’angelo e il fango si toccano e in qualche modo stanno insieme. «Generalmente, quella sensazione di sentirmi solo al mondo si mescola a un orgoglioso sentimento di superiorità; disprezzo gli uomini, li trovo sporchi, brutti, incapaci, avidi, volgari, meschini; la mia solitudine non mi spaventa, è quasi olimpica». In certi momenti, però, «sento che il mondo è spregevole, ma comprendo che anch’io ne faccio parte; In quegli istanti m’invade una furia di annichilimento, mi lascio accarezzare dalla tentazione del suicidio, mi ubriaco, vado a puttane. E sento una certa soddisfazione nel comprovare la mia propria bassezza e nel verificare che non sono meglio degli orribili mostri che mi rcircondano». Ma questa è, appunto, la posizione di chi non riesce a misurarsi con la realtà, di chi non sa accettare lo strano impasto del concreto e prova perciò ad aggrapparsi all’eterno - oppure, non credendovi, riserva al mondo solo parole di dileggio. «Dio mio, come si poteva non perdere ancor più la fiducia nel genere umano, al pensiero che tra certi istanti di Brahms e una cloaca ci sono occulti e tenebrosi passaggi sotterranei!». E invece è proprio questo il bello: quando si riesce a farci i conti si diventa autenticamente uomini.

(finito il 24 aprile 2021)

Ho parlato di


Ernesto Sabato
Il tunnel
(Feltrinelli 2014)

Trad. di P. Collo e P. Tomaselli

148 pp. | 8 €

(ed. or.: El Túnel, 1948)