venerdì 28 giugno 2019

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Ho già scritto in una puntata precedente che insegnare ti permette di ritornare sui libri letti al liceo, nel momento in cui li proponi ai tuoi studenti. Ma questo mestiere ti offre anche una seconda occasione per riallacciare i rapporti con testi cui hai dato buca al primo appuntamento e che, senza lo stimolo scolastico, magari considereresti persi per sempre. Certo, leggere il classico di Remarque a vent’anni deve avere un sapore molto particolare – perché quella è l’età del protagonista e dei suoi amici mandati a combattere, per conto degli adulti, una delle più massacranti crociate dei bambini di cui la storia conservi memoria. «Non avevamo ancora messo radici; la guerra, come un’inondazione ci ha spazzati via». «Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo davanti a loro a chieder conto?». «Non potremo mai più riprendere il nostro equilibrio. E neppure ci potranno capire». É del tutto accidentale che i giovani in questione si ritrovino dalla parte degli sconfitti; gli stessi discorsi potrebbero farli i cosiddetti vincitori. Non cambia nulla: nessuno ha vinto quella guerra, che non ha niente di epico. «Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro». Non si dovrebbe permettere a nessuno di raccontarla diversamente.

Però anche leggere questo romanzo da professore garantisce un’illuminazione, e ancor più scriverne nei giorni in cui assisti agli orali della maturità e ti vedi passare davanti questi ragazzetti che stanno per affrontare davvero il mondo dopo che per un piccolo, ma fondamentale, tratto della loro vita, ti hanno avuto come punto di riferimento. Perché sin dal primo capitolo si denuncia con molta chiarezza che ad armare, prima che le braccia, lo spirito di questi ragazzi arruolatisi come volontari sono stati, coi loro discorsi patriottici ed infervorati, i miei colleghi di un secolo fa. «Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide all’età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all’avvenire. Noi li prendevamo in giro e talvolta facevamo loro dei piccoli scherzi, ma in fondo credevamo a ciò che dicevano. (…) Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro (…). Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata». Di una classe di venti, sette sono morti, quattro feriti, uno al manicomio. La Peste Nera fece meno danni di certi insegnanti. 

Non sono ancora così vecchio perché abbia senso parlare di un passaggio di consegne generazionale - e tuttavia queste parole mi suscitano un brivido di responsabilità. Davanti a noi, forse, non si sta preparando una guerra mondiale (ma chi può dirlo? I sonnambuli del 1914 si trovarono in trincea senza neanche accorgersene e i miei ex studenti che oggi frequentano Scienze Internazionali raccolgono voci allarmanti a lezione). Ci circonda comunque una società complessa, questo sì, irretita, violenta e disumana, tanto più disumana in quanto l’orrore è continuamente banalizzato e il dolore non suscita pietà, ma accanimento e immotivato rancore: la voce del sangue di nostro fratello grida a Dio dal suolo e osceni pennivendoli vorrebbero coprirla accusando gli oppressi di essere oppressi e di morire per gioco. É in questa società che stiamo introducendo i nostri allievi, dopo aver parlato loro per ore di Socrate o di Kant. E il timore è che anche loro possano chiedersi, come i loro coetanei di allora, «come si fa a prender sul serio quella roba, dopo che si è stati qui fuori?». 

Dieci settimane di vita militare – oggi potrebbero essere di vita lavorativa, di vita adulta, di vita vera - trasformano più di dieci anni di scuola. «Dopo tre settimane riuscivamo già a concepire come un portalettere, divenuto per caso un superiore gallonato, potesse esercitare su di noi un potere maggiore di quello che prima non avessero i nostri genitori, i nostri educatori e tutti gli spiriti magni della civiltà – da Platone a Goethe – messi insieme». Perché premiare l’impegno e la serietà, a scuola, se l’ignorante diventa capoufficio o il ciarlatano ministro? L’addestramento rende duri e spietati, ma «se ci avessero mandato in trincea senza quella preparazione, i più sarebbero impazziti». Non staremmo raccontando loro delle balle? Non li staremo mandando come agnelli al macello? «Che cosa gli serve ora, di esser stato così bravo in matematica, a scuola?». 

Per Remarque non sembra esserci conciliazione possibile. Chi attraversa la prima linea è destinato ad rimanere per sempre estraneo al resto del mondo, morto dentro se non fuori. Quando torna a casa in licenza, il protagonista non si riconosce più nei suoi compaesani: «il loro mondo mi sembra così angusto, mi pare impossibile che possa riempire una vita: mi sembra che ci si dovrebbe buttar sopra ogni cosa. Come mai tutto ciò può esistere, mentre laggiù le schegge sibilano sui camminamenti e i razzi solcano il cielo, e i feriti sono portati via sui teli da tenda e i compagni si rannicchiano nelle trincee!». Ma l’estraneità – aggiungo io – non deve produrre necessariamente inettitudine: può anche ispirare rivolta. Se saremo riusciti a tenere viva la fiammella che riscalda il cuore dei nostri allievi e che permette loro di riconoscere lo squallore che infetta il nostro tempo, allora può essere che saremo serviti a qualcosa e forse si vedrà finalmente qualcosa di nuovo sul fronte occidentale.

(finito il 29 gennaio 2019)

Ho parlato di



Erich Maria Remarque
Niente di nuovo sul fronte occidentale
(Mondadori, 2008)

trad. di S. Jacini

225 pp. | (f.c.)

(ed. or.: Im Western nichts Neues, 1929)

mercoledì 19 giugno 2019

La conquista dell'America

L’ultimo libro concluso nel 2018 (perché, se Dio vuole, sono arrivato alla fine dell’anno), curiosamente, è stato anche il primo che ho cominciato, ancora nel 2017. Tempi così lunghi hanno però una ragione ben precisa: avendoci costruito sopra il mio periodico corso all’Issr, su queste pagine mi ci sono mosso avanti e indietro per tutto l’anno, prima di decidermi a metterlo da parte. E dirò di più. Son ben contento di scriverne ora, concluso il primo giro di esami, perché il confronto con gli studenti ha contribuito ad arricchire il mio giudizio, facendomi fare una vera e propria esperienza di lettura aumentata. 

Ispirato dal principio per cui la realtà supera l’idea, da Todorov ho ripreso lo spunto secondo cui, se si vuole parlare «della scoperta che l’io fa dell’altro» nella modernità, ha più senso partire, come fa lui, da una «storia esemplare», in cui le modalità di relazione siano presentate per come concretamente sono state sperimentate, anziché attraverso una fenomenologia costruita a tavolino e piena di buone intenzioni. Quale sia questa storia è praticamente ovvio: l’incontro tra europei e americani, rimasti estranei gli uni agli altri fino al 1492, è infatti «l’incontro più straordinario della nostra storia», un incontro consegnato ormai al passato, ma che al tempo stesso «annuncia e fonda la nostra attuale identità», fornendoci delle coordinate utili per capire meglio il presente e anche per guidare la nostra azione nel futuro. Todorov, del resto, lo esplicita chiaramente che scrive da «moralista», più che da «storico» (o, per meglio dire, scriveva, visto che il libro è del 1982). E se parla di “conquista” e non genericamente di “scoperta”, non è certo un dettaglio irrilevante. 

Che poi, scoperta. Di Colombo si dice che «ha scoperto l’America, non gli americani», in quanto considera questi ultimi una mera estensione del paesaggio, poco più che pappagalli, e perciò non si preoccupa di stabilire una reale comunicazione con loro. Anche perché lui “sa” già quello che deve trovare oltreoceano, dal momento che l’ha letto in Marco Polo e nelle altre fonti che stimolarono la sua impresa: l’esperienza è per lui solo il luogo della conferma di un ordine dato (ed è ciò in cui più si mostra un uomo medievale). Tant’è che, a rigore, Colombo non “scopre” neanche l’America, perché non rinuncerà mai alla sua convinzione di essere arrivato per davvero in India, secondo i suoi piani. Il suo omologo speculare, ma molto meno fortunato, è Moctezuma, tradito da quel tratto caratteristico dell’orizzonte simbolico azteco secondo cui «il presente diventa intelligibile, e al tempo stesso meno inammissibile, a partire dal momento in cui si può vederlo già annunciato nel passato»: proprio ciò che gli impedisce di riconoscere l’assoluta novità rappresentata dall’arrivo dei conquistadores, evento troppo inaudito per essere ricondotto al già noto. 

Meglio di tutti e due, paradossalmente, si comporta Cortés, il primo a preoccuparsi di una cosa che a Colombo non passa neanche per la testa – cercarsi, cioè, interpreti e intermediari con l’aiuto dei quali raccogliere quante più informazioni possibili per pianificare un’adeguata strategia di conquista. Nel far questo, egli mostra un’agilità di spirito che per Todorov potrebbe discendere dalla peculiarità degli europei di essere «gli eredi di due culture: la cultura greco-romana da un lato, e la cultura giudaico-cristiana dall’altro. (…) In modo cosciente o no, il rappresentante di tale cultura è costretto a procedere a tutta una serie di aggiustamenti, di traduzioni e di compromessi talvolta difficilissimi, che gli permettano di sviluppare lo spirito di adattamento e di improvvisazione, destinato a svolgere un ruolo decisivo nel corso della conquista. Lungi dall’essere egocentrica, la civiltà europea di allora è “allocentrica”: da lungo tempo, il suo luogo sacro per eccellenza, il suo centro simbolico, Gerusalemme, è non soltanto esterno al territorio europeo, ma soggetto a una civiltà rivale». Il motore dell’Europa è la sua intrinseca pluralità, che ci rende mediatori per vocazione, nel bene e nel male - e basti questo a svelare l’inganno degli odierni sovranismi. 

Il problema, si diceva, è che la comprensione della diversità, per Cortés, è funzionale all’obiettivo della sottomissione: l’altro è conosciuto, forse, ma non stimato («simile al turista d’oggi, che, quando viaggia in Africa o in Asia, ammira la qualità dell’artigianato senza che lo sfiori nemmeno l’idea di condividere la vita degli artigiani che producono quegli oggetti, Cortés va in estasi davanti alle produzioni azteche, ma non riconosce i loro autori come individui umani da porre sul suo stesso piano»). Chi invece stima, anzi ama, gli indios, ma forse non li conosce, perché li idealizza ridimensionandone le specificità in nome di un principio di fraternità universale è, per Todorov, il pur ammirevole Las Casas: infatti, «se il pregiudizio di superiorità è indiscutibilmente un ostacolo sulla via della conoscenza, si deve riconoscere che il pregiudizio di eguaglianza rappresenta un ostacolo ancora maggiore, perché porta ad identificare puramente e semplicemente l’altro con il proprio “ideale di sé” (o con il proprio io). (…) Il postulato d’eguaglianza sbocca in un’affermazione di identità, e la seconda grande figura dell’alterità, anche se indiscutibilmente più simpatica, ci fornisce una conoscenza dell’“altro” ancor minore di quella fornitaci dalla prima». 

Sembra non esserci via d’uscita: se distinguo, è per sottomettere; se uguaglio, è per assimilare. E difatti è andata più o meno così. Alle civiltà del sacrificio, che tanto inorridirono i primi colonizzatori, si è sovrapposta una civiltà del massacro che ha posto le premesse della moderna società del “massacrificio”: «come nelle prime, vi si professa una religione di Stato; come nelle seconde, il comportamento di ognuno si fonda sul principio karamazoviano del “tutto è permesso”. Come nelle società del sacrificio, si uccide anzitutto a casa propria; come nelle società del massacro, si occulta o si nega l’esistenza di queste uccisioni. Come nelle prime, si scelgono individualmente le vittime; come nelle seconde, lo sterminio è compiuto senza alcuna idea rituale. Il terzo termine esiste, ma è peggiore degli altri due; che fare?». Insomma, gli orrori del Novecento non sono figli bastardi della modernità, ma il compimento di un percorso che affonda qui le sue radici, in un genocidio di cui non abbiamo piena consapevolezza. La nostra civiltà ha avuto la sua grande occasione storica quando ha incontrato gli indios – e l’ha persa. Già se n’era accorto, ben per tempo, Montaigne: che progresso sarebbe stato per l’umanità, se avessimo avviato una reale collaborazione con questi popoli giovani e promettenti; ma questo mondo fanciullo, noi lo abbiamo soffocato nella culla. Oggi la storia ripresenta il conto in altre forme. «Noi siamo simili ai conquistadores, e siamo da loro diversi; il loro esempio è istruttivo, ma non saremo mai sicuri che, non comportandoci come loro, non li imiteremo adattandoci alle nuove circostanze». S’impone, dunque, un surplus di riflessività, per andare oltre l’autoconsolatoria convinzione secondo cui noi, ovviamente, avremmo agito in modo totalmente diverso da quei disgraziati degli spagnoli: l’attenzione estrema a non commettere gli stessi errori può impedirci di vedere che ne stiamo facendo degli altri. Di conto all’omologazione che annulla le differenze e all’esasperazione della diversità che esclude la convivenza, oggi tutta la creazione attende con impazienza l’uguaglianza senza rinunciare all’identità e il riconoscimento della differenza senza una gerarchia. In una parola, «vivere la differenza nell’uguaglianza». Ma davvero è così difficile?

(finito il 31 dicembre 2018)

Ho parlato di


Tzvetan Todorov
La conquista dell'America.
Il problema dell'«altro»
(Einaudi, 2014)

trad.  di A. Serafini

322 pp. | 13 €

(ed. or.: La conquete de l'Amerique. La question de l'autre, 1982)

mercoledì 12 giugno 2019

Germinale

Un’altra lettura che segnò profondamente i miei diciott’anni fu L’assommoir di Emil Zola – e si trattò di un episodio non scontato, per me che all’epoca prediligevo di gran lunga i territori del fantastico (non fantasy, né solo fantascienza: un repertorio più ampio e indefinibile, che comprendeva, per dire, Poe e Kafka, Borges e Landolfi - tutta gente, comunque, sempre un po’ ai confini della realtà). Una componente non secondaria del favore accordato allora a quel romanzo nasceva, certo, dalla scoperta di quanto potesse essere visionaria anche la cosiddetta letteratura realistica (provare per credere: l’alambicco della distilleria di papà Colombe ribolle della stessa forza maligna di It); tuttavia ciò che si sedimentò sotto traccia da qualche parte nella mia testa fu la consapevolezza che le potenzialità conoscitive di quel genere di scrittura andavano ben oltre la mera funzione documentaria che fin lì mi ero limitato, un po’ sdegnosamente, ad accreditarle e che me l’aveva fatta considerare, a torto, tutta piatta e noiosa. Ma da adolescente vivevo ripiegato nella mia fortezza interiore, piuttosto insensibile – anche se non me rendevo conto – all’appello di un mondo che mi appariva più accogliente di quello odierno, e di cui non mi sembrava perciò così importante comprendere il funzionamento. Ora che quel seme è definitivamente maturato ed ho imparato sempre più ad apprezzare l’interpretazione della storia che passa attraverso delle storie, ho deciso di rendere omaggio alla mia fonte prima d’ispirazione, approfittandone anche per arricchire ulteriormente il mio catalogo di testi spendibili a scuola, perché traduzione vivida di quanto raccontato, come si può, in classe. 

Se Zola fosse vissuto oggi, avrebbe potuto tranquillamente realizzare il suo grandioso affresco dei Rougon-Macquart come una lunga serie televisiva suddivisa in stagioni dedicate, volta per volta, a questo o quel personaggio della linea genealogica, con conseguenti slittamenti tematici e d’ambientazione tali da non renderla mai ripetitiva. Qui, per esempio, i riflettori sono puntati su Etienne Lantier, che era un ragazzino nell’Assommoir, ma ora è cresciuto, fa l’operaio e, dopo aver perso il lavoro in seguito a una lite col suo capo, cerca impiego in una grande miniera di carbone del nord della Francia, grosso modo alla metà degli anni ‘60 dell’Ottocento. Da cittadino, il suo impatto con quella realtà è devastante: «era mai possibile ammazzarsi con un lavoro così duro in quelle tenebre mortali e non guadagnare nemmeno il necessario per comprarsi il pane quotidiano?». Nel villaggio dei minatori in cui viene accolto si respira un’atavica rassegnazione: centinaia di disgraziati sacrificano da generazioni le proprie vite e quelle dei propri figli immergendosi quotidianamente in un pozzo che sembra respirare affannosamente, come un mostro gigantesco, «a causa della laboriosa digestione di tanta carne umana» offertagli in dono da quell’altro mostro, il capitale, «dio impersonale, sconosciuto all’operaio, accovacciato da qualche parte, nel mistero del suo tabernacolo da dove succhiava la vita dei morti di fame che lo nutrivano». Lì si capisce cosa vuol dire che la Rivoluzione non era stata per tutti: «dall’89 era la borghesia che si ingrassava, con una tale ingordigia che al lavoratore non restava nemmeno il piatto da leccare. Chi poteva dire che la classe lavoratrice aveva ricevuto la sua parte nella straordinaria crescita di ricchezza e benessere degli ultimi cent’anni?». Il progresso, beata ingenuità. 

Zola non è uno che va tanto per il sottile: la degradazione umana non la edulcora, ma te la sbatte in faccia, in tutta la sua disturbante sgradevolezza, senza facili idealismi e perfino con un filo di compiacimento per certe soluzioni melodrammatiche (il minatore è brutto, sporco e violento: quando si arrabbia non sa trattenersi e gode del sangue versato). Ma ancor più disturbante, nella sua ricostruzione, è il peloso moralismo con cui i pasciuti borghesi filtrano questa realtà senza capirla: brave persone, per carità, di quelle che non hanno mai fatto del male a nessuno e anzi si prodigano in elemosine (solo in natura, contessa, perché si sa che i soldi gli operai se li bevono tutti), ma che non sono neanche minimamente sfiorate da qualche dubbio sulla legittimità del sistema perverso che li nutre e li tiene bene al caldo. Di fronte a tutto questo, sin dal suo primo giorno di lavoro, Etienne sviluppa una propria coscienza politica attraverso un confronto spesso aspro con il riformista Rasseneur e l’anarchico Suvarin (controfigura di Bakunin e di tutti quei terroristi di cui è piena la letteratura russa del tempo), fino a diventare militante della Prima Internazionale e leader sindacale. Rapidamente, le parole con cui invita a spezzare il giogo dell’ineluttabilità accendono nei suoi compagni il desiderio di un’altra vita - e, immergendoti nella loro esistenza miserabile, capisci anche bene perché qualcuno era comunista. Zola paragona ripetutamente questi uomini infervorati dalla predicazione rivoluzionaria ai «primi cristiani che attendevano la nascita di una società perfetta dal letamaio del mondo antico»: «un’esaltazione religiosa li sollevava da terra, la febbre di speranza dei primi cristiani in attesa dell’imminente avvento del regno della giustizia». 

L’ennesima angheria contrattuale giustificata appellandosi ai mercati induce infine i minatori allo sciopero a oltranza. Non è una scelta facile. Niente lavoro vuol dire niente paga e quindi niente cibo, senza la sicurezza che tutto ciò serva davvero a cambiare le cose. Nonostante i rischi, i lavoratori «avevano (...) una fiducia assoluta, una fede religiosa, la cieca devozione di un popolo di credenti. (…) La fame infiammava le menti, mai l’orizzonte chiuso di questi uomini allucinati dalla miseria si era aperto come adesso a un aldilà più vasto. Quando la vista si abbassava a causa della debolezza, rivedevano la città ideale del loro sogno, vicina, come reale, con il popolo di fratelli e l’età d’oro del lavoro e dei pasti in comune. Niente scalfiva la convinzione che quel sogno si sarebbe avverato». In realtà lo sciopero non produrrà affatto i risultati agognati e, anzi, alla fine del romanzo tutto sembra tornare esattamente come prima, per lo meno per chi è sopravvissuto. Ma non si tratta di un totale fallimento. Mentre abbandona il villaggio, riprendendo il suo cammino, un anno circa dopo il suo arrivo, Etienne sente risuonare lungo la strada i colpi dei minatori al lavoro. «Sotto i raggi incandescenti del sole, in quella giovane mattina, era di quel rumore che la terra era gravida. Germogliavano uomini, un esercito nero, vendicatore, che cresceva lentamente nei solchi, pronto per le raccolte del prossimo secolo, e la sua germinazione avrebbe ben presto fatto esplodere la terra». 

Vera e propria Iliade della modernità, per l’afflato epico e il respiro quasi mitologico del suo incedere, anche Germinale, come Cuore di tenebra, è un libro spartiacque, che chiude l’Ottocento della semina e apre il Novecento dell’auspicata mietitura: «la guerra era ormai dichiarata e la pace impossibile». Per Zola, il processo messo in moto dalle lotte operaie era come una forza tellurica destinata inevitabilmente a sovvertire l’ordine sociale, perché sarebbe presto giunto il momento in cui qualunque sacrificio sarebbe stato preferibile a quella vita offesa. «Le cose sarebbero ben presto cambiate proprio perché adesso l’operaio pensava. È vero, ai tempi del vecchio, il minatore viveva nella miniera come una bestia, come una macchina per estrarre carbone, sempre sottoterra, occhi e orecchie chiusi a quel che accadeva là fuori. Così i ricchi che governavano avevano buon gioco nel mettersi d’accordo, nel venderlo e nel comprarlo, nel mangiarselo vivo senza che lui se ne accorgesse. Ora però il minatore laggiù in fondo aveva cominciato a svegliarsi e germogliava nella terra proprio come fa un seme e un bel mattino tutti si sarebbero accorti di quello che stava spuntando nei campi: sì, sarebbero spuntati degli uomini, un esercito di uomini che avrebbero ristabilito la giustizia. (…) Ah! Cresceva, cresceva lentamente una robusta messe di uomini che sarebbe maturata al sole e dal momento che nessuno era più incatenato al proprio posto per tutta la vita, e che era possibile ambire al posto del vicino, perché non iniziare la lotta e cercare di vincere?». 

Com’è andata davvero a finire, noi lo sappiamo. Nessuna palingenesi, ma quelle lotte e quei morti ci hanno comunque garantito fondamentali conquiste sociali, la cui odierna messa in discussione risuscita esattamente le stesse comprensibili paure di allora. Quando la Compagnia assolda dei belgi perché lavorino al posto degli scioperanti, fra i minatori si sollevano ad esempio grida preoccupate di questo tipo: «a morte i belgi! Niente stranieri a casa nostra! (…) Morte agli stranieri! (…) Vogliono essere padroni a casa nostra», il tutto per la gioia dei padroni che speculano sulle lotte fra poveri. Ma neanche i piccoli imprenditori possono stare al sicuro: uscita pressoché indenne dai disordini, alla fine la grande Compagnia riuscirà a comprarsi a prezzo agevolato l’unica miniera ancora indipendente della regione: «era la campana a morto delle piccole imprese, l’annuncio della prossima scomparsa dei piccoli proprietari, divorati uno a uno dall’orco del capitale perennemente affamato, sommersi dalla marea montante delle grandi compagnie». Problemi come questi oggi trovano ampia cassa di risonanza in quei politici che fanno di tutto per riprodurre le emozioni dei cittadini, ma non trovano reali soluzioni da parte loro, perché le soluzioni richiedono analisi, metodo, comprensione dei fatti – in una parola studio, motore di ogni autentica liberazione: «grazie all’istruzione un giorno sarebbe scoppiato tutto per aria. Era sufficiente guardare come andavano le cose all’interno di quello stesso villaggio: i nonni non erano capaci di scrivere il proprio nome, i padri ormai lo scrivevano, mentre i figli adesso scrivevano e leggevano come professori». L’ignoranza non è una colpa, se diventa premessa per la ricerca: che venga ostentata non come segno di modestia ma come motivo di orgoglio dai sedicenti profeti del cambiamento ci dice chiaramente da che parte stanno davvero costoro.

(finito il 21 novembre 2018)

Ho parlato di


Émile Zola
Germinale
(Feltrinelli, 2013)

trad. di S. Valenti

512 pp. | 10 €

(ed. or.: Germinal, 1885)