mercoledì 31 maggio 2017

Il potere e la gloria

A pensarci bene, se ci mettessero le mani sopra un Rodriguez o un Tarantino, tra preti ubriaconi e rinnegati, poliziotti filosofeggianti, sangue, merda e tanti, tantissimi messicani, potrebbe venirne fuori un bel western dei loro. Graham Greene l’aveva pensato però in maniera diversa, come una sorta di parabola, svolgimento narrativo di un’idea che doveva essere particolarmente cara a San Paolo, perché ci ritorna spesso in quelle sue esperienze pastorali troppo facilmente ridotte a dottrina – l’idea, intendo, per cui il vangelo che annuncia è come un «tesoro in vasi di creta», in quanto affidato a persone fragili, scelte appositamente da Dio per confondere i forti e i sapienti di questo mondo. Certo, la location è ben definita: il Messico postrivoluzionario delle persecuzioni anticlericali degli anni ’20-’30, ma la storia potrebbe tranquillamente svolgersi in un futuro mondo secolarizzato in cui il rito cristiano non abbia più significato del brivido inconsapevole e atavico procurato da un gatto nero quando ci taglia la strada. Il protagonista, del resto, non ha un nome, e neppure un volto ben definito, se è vero che i suoi stessi persecutori non lo riconoscono dalle foto appese nelle loro centrali. La sua condizione è scolpita nell’etichetta caricaturale di “prete dell’acquavite”, cui deve la sua torbida fama: quella di un perseguitato che continua ad attraversare clandestinamente il paese, cedendo spesso al vizio del bere e occasionalmente a quello del sesso, schiacciato dal peso della sua indegnità, «conscio della propria disperata insufficienza» e ciò nonostante pervicacemente impegnato a riattivare il culto nei luoghi in cui di volta in volta sosta, per mezze giornate o poco più, destando al tempo stesso conforto e preoccupazione nella gente (su cui le autorità spesso e volentieri infieriscono per ritorsione quando scoprono che l’hanno ospitato). Non si capisce bene se lo faccia per rassegnazione, superstizione, senso del dovere o perché animato da una sincera vocazione – e forse proprio in questo guazzabuglio sta il fascino di un personaggio nè canaglia nè martire. Il quale sa benissimo di offrire una pessima testimonianza a un messaggio che ormai egli stesso stenta a capire: in mancanza di altri preti, i bambini «da lui avrebbero preso le loro idee sulla religione Ma era pure da lui che prendevano Dio sulle loro bocche... Senza di lui, sarebbe stato come se in tutto quello spazio tra il mare e le montagne Dio avesse cessato di esistere». Ecco perché sarebbe forse più opportuno tradurre il titolo "la potenza e la gloria", affinché riecheggi meglio la formula liturgica che sta tra il Padre Nostro e il segno di pace durante la Messa, alle soglie della comunione. Quella potenza che accetta, appunto, di farsi toccare e consacrare da fragili mani umane, non importa quanto sozze (benché lavate, ritualmente, dal chierichetto di turno).

Certo, per chi crede, qui è racchiuso un mistero profondo. Ma si manifesta anche un possibile paradosso tutto cattolico. «Non poteva più sentire nessun significato in preghiere simili; l’Ostia era un’altra cosa: metterla tra le labbra d’un uomo morente, era come mettervi Dio. Quella era un fatto, qualche cosa che si poteva toccare, ma questa era soltanto una pia aspirazione. Perché Qualcuno avrebbe dovuto ascoltare le sue preghiere? Il peccato era una forza che impediva loro di salire: egli poteva sentire le proprie preghiere grevi come il cibo indigesto nel proprio corpo, incapaci di evasione». Questo oggettivismo esasperato, per cui Dio c’è davvero solo dove c’è un suo ministro, sia pure inadempiente, solo dove ci sono il pane e il vino, rischia di farci scivolare davvero verso la pura magia devozionale. Siamo fragili, d’accordo. Ma Paolo stesso aggiunge che il nostro corpo è anche «tempio dello Spirito». Hai voglia a ingozzarlo di ostie: se non c’è conversione, anche il pane eucaristico finisce nella latrina, esattamente come il lievito dei farisei. Per questo, a mio avviso, il momento più alto del libro è quando il prete trascorre una notte in prigione, questo luogo «molto simile al mondo: traboccante di lussuria, di crimini e d’amore infelice; pieno di fetore; (...) la gente si aggrappava a quanto poteva esser causa di piacere e di orgoglio, in mezzo a stenti e in un ambiente sgradevole; non c’era tempo di fare qualche cosa che valesse la pena di fare, e si sognava sempre di evadere». Qui, in mezzo agli assassini, «delinquente, in mezzo a un’orda di delinquenti», il nostro prova per la prima volta un sentimento che non aveva mai sperimentato quando organizzava le riunioni della parrocchia e la gente faceva la coda per baciargli la stola, ai bei tempi in cui era credente per abitudine e commetteva solo peccatucci veniali. «Allora, nella sua innocenza, egli non aveva provato amore per nessuno: ora, nella sua corruzione, aveva imparato a...». La frase resta sospesa. Eppura solo qui, libero dal paraocchi perbenista di chi divide il mondo in santi e peccatori, il prete, senza assolvere se stesso, capisce che non può neppure condannare gli altri e che l’odio è «semplicemente una mancanza di immaginazione». Sul Golgota, attorniato dai ladroni, non fa più le prediche che pronunciava dal pulpito. Il mattino dopo lo costringeranno a lavare i bagni della prigione: in quel gesto umile e inutile di pulizia della lordura degli ultimi eccolo dare finalmente senso e concretezza storica all’atto che celebra sull’altare. Anche se, forse, non se ne rende conto. La consapevolezza di ciò lo sfiora appena. Se l’avesse capito, del resto, sarebbe diventato l’eroe che non è.

(finito il 2 maggio 2017)

Ho parlato di



Graham Greene
Il potere e la gloria
(Mondadori, 1990)

Trad. di E. Vittorini

308 pp. | 13.000 lire (oggi 9 €)

(ed. or., The Power and the Glory, 1940)


giovedì 4 maggio 2017

Madre notte

Nel 1961 si tenne a Gerusalemme il processo contro Adolf Eichmann e Hannah Arendt, com’è noto, ne ricavò un libro pensoso, celebre e discusso. Un promettente scrittore di fantascienza ne trasse invece lo spunto per immaginarsene un altro, di processo, un po’ più problematico e paradossale (e così facendo, effettuò la sua prima sortita in un genere letterario talmente particolare che per certi aspetti nasce e muore con lui). Al gabbio troviamo qui Howard W. Campbell, che di nascita è americano, ma emigra con la famiglia in Germania negli anni ’20 e finisce a lavorare per il ministero della Propaganda del Terzo Reich, dove diventa titolare di una rubrica radiofonica che smercia al pubblico anglofono tutto il becerume ideologico nazista. Il fatto è che quest’uomo d’apparato, dalle velleità letterarie e con un oggettivo talento da imbonitore, è al tempo stesso una spia americana, nei cui sproloqui pubblici si annidano messaggi cifrati per i comandi Alleati. Ha solo un problema: non lo può dimostrare – e non lo potrà dimostrare neanche dopo la guerra, da cui esce senza un graffio, ma anche senza medaglie, con una ferita nel cuore e una reputazione compromessa che lo costringe a una vita di sostanziale autosegregazione nel cuore di New York. Su questo paradosso si regge un primo livello di lettura. «Come speaker radiofonico – dice a un certo punto il nostro protagonista – avevo sperato di essere soltanto ridicolo, ma viviamo in un mondo in cui essere ridicoli non è facile; ci sono troppi esseri umani che non vogliono ridere, che non riescono a pensare; vogliono soltanto credere, arrabbiarsi, odiare. Troppa gente aveva voluto credere in me». E così, una cosa iniziata senza particolare malizia diventa di fatto aperto collaborazionismo. Vonnegut stesso esplicita la morale della favola con una formula che sembra un gioco di parole, ma se ci pensi un attimo è un frammento di lucida verità: «noi siamo quello che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere» (Campbell non è il solo che più o meno consapevolmente finge di essere qualcun altro, in questo libro; Eichmann stesso a un certo punto compare nella storia, e con poche micidiali battute se ne fa emergere tutta la sua sconfinata mediocrità: possibile che la parte che ci troviamo a interpretare nella commedia della vita, che è a suo modo una fiction, una narrazione, possa avere conseguenze materiali tanto devastanti sui nostri simili? Sì, ed è spaventoso: pensate alle ricadute concrete che ha sulle persone la scelta di battere su un certo tema per pura tattica politica, mica perché ci si crede davvero, ma solo per continuare a essere “qualcuno”: «se avesse cominciato a disfarsi di tutti quegli omicidi, allora sarebbe scomparso anche Eichmann, cioè l’idea che Eichmann aveva di se stesso». Se levi la felpa a Salvini, dentro non c'è nulla).

Su questa premessa si imbastisce una specie di farsesca spy-story in cui entra in scena tutto un sottobosco di personaggi che fanno il paio coi nazisti dell’Illinois (solo che qui si chiamano Guardia di ferro dei figli bianchi della costituzione americana, ed è tutto detto). Basta il ritratto del loro leader per capirci: un reverendo odontotecnico che scrive saggi per dimostrare scientificamente che la mascella di Cristo quale si può ricostruire dai suoi ritratti non può essere una mascella di tipo ebraico, dunque Cristo non è ebreo... Ed è qui che, con la leggerezza di chi sembra che stia allestendo solo una scanzonata commedia noir, Vonnegut restituisce una micidiale fenomenologia della personalità autoritaria quale la possiamo ritrovare quotidianamente sotto i nostri occhi nei babbei che si fanno il servizio fotografico al Cara di Mineo o negli studenti fuori corso che, dall’alto della loro nullità, si preparano a diventare premier di questo scalcagnato paese (e in tutti i rispettivi adoranti seguaci, beninteso, che disprezzano lo studio perché non capiscono la complessità del reale e dicono, a te!, “ma documentati, va” quando hanno un’unica, oracolare, fonte di informazione). La loro mentalità, «può paragonarsi a un sistema di ruote dentate con dei denti mancanti, uno qua e uno là. Un meccanismo di pensiero così sdentato, guidato da una libido media, o anche sotto la media, ruota su se stesso con la medesima sussultante, rumorosa, vistosa inutilità che avrebbe all’inferno un orologio a cucù. (...) Quel che più spaventa in una mentalità totalitaria di stampo classico è che una qualsiasi ruota dentata, anche se mutilata, presenta sempre, lungo la sua circonferenza, tratti di denti interi che si conservano a lungo senza morchie e possono funzionare senza alcuna imperfezione. Da qui l’orologio a cucù che segna il tempo all’inferno... scandisce regolarmente il tempo per otto minuti e ventitré secondi, poi scatta in avanti di quattordici minuti, quindi riprende a battere perfettamente per sei secondi, e poi ne salta due, riprende a funzionare perfettamente per due ore e un secondo, e poi scatta in avanti di un anno. I denti mancanti sono, naturalmente, delle verità molto semplici, ovvie addirittura, verità che nella più parte dei casi le capirebbe anche un ragazzino di dieci anni. La volontaria eliminazione dei denti della ruota, l’ostinata volontà di agire pur senza possedere alcune informazioni elementari...». La logica ferrea dell’illogicità, che non accetta critiche perché non è neanche in grado di capirle. Non c’è niente da aggiungere. 

Ps. Anzi, una cosa da aggiungere c’è. Questa frase: «Ci sono centinaia di buoni motivi per combattere ma neanche uno per odiare senza riserve, e per credere che Dio onnipotente sia d’accordo con noi. Dov’è il male? É quella parte di ogni uomo che vuole odiare a tutti i costi, che vuole odiare e avere anche Dio dalla sua. É quella parte di ogni uomo che trova tanto attraente qualsiasi genere di brutalità. É la parte di ogni imbecille che vuole punire, avvilire, e gode a fare la guerra».

(finito il 16 aprile 2017)

Ho parlato di



Kurt Vonnegut
Madre notte
(Feltrinelli 2013)

Trad. di L. Ballerini

224 p. | 7,50 €

(ed. or.: Mother Night, 1961)