Tra le innumerevoli ragioni per cui mi sento profondamente riconoscente alla vita, non considero certo secondario l’aver avuto accanto alcuni amici che - all’epoca delle primissime scelte autenticamente personali, quando si comincia a delineare in modo più netto il profilo della propria identità - non solo non mi hanno fatto pesare la passione per la lettura come qualcosa di cui vergognarmi, ma l’hanno anzi condivisa con me, sostenendola e nutrendola attraverso scambi, consigli, prestiti e discussioni, che potevano riguardare libri, certo, ma pure fumetti o riviste, come accadeva fino a quattro minuti prima che arrivasse anche da noi internet. Devo, appunto, a uno di loro (chissà se si riconoscerà in questo ricordo?) e al fatto che mi abbia un giorno messo in mano un volumetto economico contenente alcuni racconti di Poe (quelli “del terrore” – recitava il titolo: e c’era sicuramente dentro Il gatto nero e poi Il cuore rivelatore, La maschera della Morte Rossa e, ovviamente, il più agghiacciante e amato di tutti, Il pozzo e il pendolo), se nel volgere di un pomeriggio appena di prima media acquisii così tanti punti esperienza da sbloccare un livello di crescita del mio personaggio e ritrovarmi, quasi di colpo, un lettore adulto. Avendo sostanzialmente snobbato la letteratura per ragazzi pubblicata quand’ero ragazzo, e teoricamente prodotta proprio per soddisfare quelle che si presumevano essere le esigenze di un preadolescente degli anni ‘90, è invece a partire dagli scritti di quell’inquieto poeta americano morto più di un secolo prima che si è man mano forgiato il mio immaginario personale – e sebbene si sia trattato di un immaginario ancora in gran parte ottocentesco, tenderei a dire che non mi è andata poi così male.
In questo percorso di iniziazione, il Gordon Pym si rivelò presto un passaggio pressoché obbligato. Nel «divorante desiderio» di salpare che spinge il giovane protagonista del romanzo a litigare coi suoi stessi genitori pur di imbarcarsi su una nave e abbandonare la terra ferma si rispecchiava, in un certo senso, la mia analoga, vorace, frenesia di prendere ancora una volta il largo fra le pagine di un nuovo libro, come se non ne avessi mai abbastanza, mosso nella fattispecie da irrefrenabile curiosità – spontanea, genuina, commovente curiosità che si può avere solo ad un’età in cui tutto è davvero una continua scoperta – per quella che, a prima vista, si presentava come una grande avventura di mare affine ai cicli salgariani di cui fin lì ero stato cultore, ma che, al tempo stesso, - per quanto, nel frattempo, avevo già annusato di Poe - avevo anche sentore dovesse contenere qualcosa di più, e comunque di molto diverso da ciò a cui ero abituato. Ovviamente non restai deluso (anzi: non restammo, giacché quella lettura, come dicevo, fu condivisa). C’è davvero di tutto, qui dentro – naufragi, ammutinamenti, silenziosi velieri alla deriva con i loro equipaggi di cadaveri devastati da misteriose malattie, banchi di squali pronti ad avventarsi su ciò che resta di corpi mutilati, ammazzamenti vari, compresa una terrificante scena di cannibalismo preceduta da un’ancor più terrificante sequenza di sorteggio per stabilire chi sarebbe stato sacrificato in modo da garantire la vita agli altri (è l’episodio che più mi rimase impresso e che non ho mai scordato) – come una continua, ossessiva, sfida alla morte, quanto basta per far provare a un dodicenne più di un brivido per il presagio che essa effettivamente è lì fuori, perennemente in agguato, e ci dovrai fare ben presto i conti, e imparare a considerarti un reduce per ogni giorno in più che ti viene dato di stare in terra, stemperato però dalla sensazione di essere in fondo ancora al sicuro, ben protetto sotto le coperte spesse del tuo letto mentre leggi di questi sventurati a cui ne capitano letteralmente di tutti i colori. E se da allora in poi mi ero tenuto alla larga da questo libro non era per la paura di riprovare quella stessa paura, ma – tutt’al contrario – per il timore di non provarla più allo stesso modo e di dover perciò ridimensionare il valore delle emozioni vissute allora, al momento giusto, come accade quando rivedi da grande un film che da piccolo ti aveva spaventato a morte e non ti capaciti di come i suoi pessimi effetti speciali possano averti suscitato tanto orrore. Finché, a un certo punto, ha prevalso il desiderio di averne una copia a portata di mano e, in una di quelle interminabili pause di stasi in mezzo alla maturità, mi è venuta la voglia di correre il rischio e rileggerlo da cima a fondo.
Quel che ci ho ritrovato, inevitabilmente, sono stati sparsi, ma ben definiti, pezzi di me. Mi rivedo chiaramente, poco più che bambino, mentre abbocco all’amo delle coordinate fornite da Poe e mi metto a tracciare a matita sul mio atlante De Agostini la rotta che a un certo punto spinge Gordon Pym e i suoi compagni a costeggiare quello che mi è sempre apparso come l’autentico orlo del mondo, l’estrema propaggine meridionale del globo, ancora in gran parte incognita a inizio Ottocento, memento di tutti i luoghi che per un uomo sarebbe meglio non esplorare, come ebbe a imparare a sue spese, nella versione dantesca, il prototipo di tutti gli altri escapisti della morte, Ulisse, a cui qui non sarebbe riuscito l’ultimo trucco. Non saprei dire quali siano, rispettivamente, la causa e l’effetto, ma è un fatto che, nella mia generale suggestione verso le regioni più isolate della Terra (che spinse mia moglie a regalarmi un giorno il bellissimo Atlante delle isole remote), un posto privilegiato hanno proprio le lontanissime terre australi, luoghi come l’isola della Desolazione, Tristan da Cunha, le Crozet, con le loro coste battute da correnti gelide dove vanno a morire i ghiacciai e su cui si agitano solo colonie di pinguini, foche, albatros ed elefanti marini, senza la minima presenza umana. Le isole Kerguelen, che ebbero qualche minuto di gloria perché toccate da Cook nel terzo dei suoi viaggi, sono qui presentate con dovizia di particolari come «uno dei luoghi più desolati e abbandonati del globo», ma non è ancora nulla. Quando la navigazione supera la banchisa polare e la spedizione trova un passaggio per dirigersi sempre più a sud, Poe si immagina che le condizioni climatiche paradosalmente cambino, diventando meno estreme, senza che però questo renda meno inquietanti i panorami. «Era un luogo d’incredibile desolazione, il cui aspetto mi evocò alla mente le descrizioni fatte dai viaggiatori spintisi nelle squallide regioni ove sorgono le rovine dell’antica Babilonia. Senza tener conto della massa di detriti caduti dalla collina sconvolta, che chiudeva come una barriera informe tutto l’orizzonte settentrionale, la superficie del terreno era fittamente disseminata di tumuli giganteschi, forse i resti di mastodontiche costruzioni dovute all’opera di creature titaniche, benché a un più minuto esame risultassero privi di ogni parvenza d’arte umana. V’erano scorie da per tutto e grandi informi blocchi di granito nero, frammisti ad altri di marna, sia gli uni che gli altri irruviditi da granulazioni metalliche. Di vegetazione, in quel tratto brullo oltre ogni dire, neppure l’ombra. Vedemmo soltanto alcuni scorpioni enormi e vari rettili che non si trovano altrove a latitudini così elevate». Così, in appena dieci righe è contenuto in nuce tutto il materiale che esploderà cent’anni più tardi nella cosmogonia di Lovecraft (e a questo punto devo aggiungere che anche Le montagne della follia fu un passaggio obbligato delle nostre letture e che questo concentrato di fantasie ci indusse persino ad abbozzare la stesura di un romanzo a più mani in cui ciascuno, a rotazione, avrebbe dovuto realizzare un intero capitolo cercando di lasciare il racconto in sospeso alla fine della sua parte, per stimolare, di volta in volta, l’inventiva di chi fosse venuto dopo: l’ambientazione da cui partimmo, manco a dirlo, fu proprio un centro di ricerca al Polo Sud).
Più ancora di tutto, forse, a segnarmi fu la precoce presa di coscienza che il terrore è tanto più forte quanto meno è definito il suo oggetto, ovvero che «l’agghiacciante orrore a volte provocato debba attribuirsi, anche nei casi più clamorosi e nei quali fu sperimentata una vera e propria ambascia fisica, più a una paura fatta di presaga inquietudine che l’apparizione possa essere reale che non all’assoluta certezza della sua realtà». Questa sensazione è tipica dei racconti di Poe e vale qui soprattutto per la visione finale (altro ricordo indelebile), spaventosa non per il suo contenuto, ma per la sua incomprensibilità e il suo irrudicibile mistero, su cui il libro stesso magistralmente si chiude, pur avendo annunciato, in corso d’opera, che a Gordon Pym sarebbero toccate «mille avventure (…) in nove lunghi anni», di cui non sappiamo però assolutamente nulla. Se i malcapitati, a quel punto, fossero infatti sprofondati nell’abisso e riemersi nella terra cava, avremmo avuto a che fare con un Burroughs qualunque (Edgar R., non William S.), mentre è l’assoluta trascendenza dell’ignoto a spaventare e a sedurre a un tempo, ad esercitare una forza attrattiva quasi incontenibile, per quanto potenzialmente persino autodistruttiva. Ed è proprio questo genere di esperienza ciò che, sotto sotto, da allora in poi, ho sempre continuato a cercare, criterio dirimente per separare, nella letteratura fantastica, l’essenziale da ciò che invece è trascurabile.
(finito il 1 luglio 2022)
Ho parlato di
Le avventure di Gordon Pym
(Rizzoli 2009)
trad. di M. Gallone
240 p. | 8 €
(ed. or.: The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1838)
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