mercoledì 8 dicembre 2021

I russi sono matti

La giornata siberiana era oggi particolarmente indicata per pensare ai russi e sui russi uno che indubbiamente la sa lunga è Paolo Nori. Ma non chiamatelo esperto, per carità. Vi risponderebbe, infatti, che «si può essere esperti di tante cose, di cinema, di meccanica, di elettronica, di statistica, di raccolta differenziata, di agricoltura, di calcio, di pallacanestro, di sport estremi, di pattinaggio in linea, di tutto, tranne forse che di letteratura perché i grandi scrittori, i grandi libri, sono, forse, come diceva quel grande poeta russo mai esistito, Koz’ma Prutkov, inabbracciabili». Meglio dire, allora, «appassionati». E da un siffatto ed eclettico appassionato di letteratura russa quale lui è non ci si dovrà ovviamente attendere il classico condensato manualistico valido per cinque crediti universitari, bensì quello che egli stesso propone come un “corso sintetico”, dove l’espressione sottintende «un procedimento che, partendo da elementi semplici e parziali, si propone di arrivare a una rappresentazione unitaria» - definizione che, per inciso, mi pare calzi bene anche per questi miei saggetti in cui provo a trasmettere attraverso pochi dettagli significativi lo spirito di un libro e forse ancor più l’esperienza vitale che l’incontro con quel libro ha prodotto su di me.

Infatti, quando prova a spiegare perché, fra tutti gli autori che pure ama, prediliga proprio i russi, Nori risponde che non sa bene come dirlo, ma che per lui quella letteratura ha qualcosa di speciale perché, se non ti perdi d’animo e superi l’ostacolo rappresentato da «quei personaggi che hanno almeno tre nomi e un cognome e un paio di soprannomi e dei gradi che li collocano in una gerarchia incomprensibile e che sono legati da intricatissimi vincoli di parentela», se nonostante tutto tieni duro, dopo un po’ arriverai infine alla radura che si apre al centro del bosco e scoprirai «che è un posto che si sta benissimo. O malissimo, a seconda dei casi», dato che il principale pregio della letteratura russa, secondo Nori, è che ti «fa star più male di tutte le altre». Riflettendo sul perché proprio i russi gli siano entrati così tanto nelle ossa, Nori finisce in realtà per sviluppare trasversalmente, attraverso aneddoti, divagazioni, passi avanti e passi indietro, anche una certa idea di cosa sia, o cosa debba essere, la letteratura in quanto tale. Se ti ferisce, ci siamo; se ti compiace, è qualcos’altro (e si può ferire anche con il sorriso: i russi hanno un senso dell’umorismo tutto loro, ma ce l’hanno).

Non solo. Nori condivide anche il pensiero secondo cui scrivere «vuol dire sforzarsi di vedere il mondo come se lo si vedesse per la prima volta», liberati una buona volta dai pensieri associativi che ci fanno passare continuamente da una cosa all’altra sotto l’influsso dell’abitudine o della retorica: esattamente quel che accade, in una scena stupenda di Guerra e Pace, al principe Andrej, quando, rimasto ferito sul campo di Austerlitz, alza gli occhi verso l’alto ed è come se vedesse per la prima volta il cielo. Ossia, direbbe Nori, «senza il suo imballaggio», il rivestimento preconfezionato con cui ci viene per lo più rappresentato. E poiché, riprendendo un’intuizione folgorante di Agamben, «quel che fa l’arte non è rendere visibile l’invisibile, ma rendere visibile il visibile», scopo della letteratura sarà allora di farci «crescere dentro la pancia una piccola macchina per lo stupore», capace di rendere «memorabile» anche ciò che a prima vista può apparire «marginale e insignificante», quel “sacro” quotidiano di cui sono composte gran parte delle nostre vite, ingiustamente derubricato a uno scontato insieme di banalità. L’artista è esattamente colui che «ci fa vedere le cose alle quali siamo tanti abituati che non le vediamo più bene».

Ora, i russi non solo hanno una parola precisa – byt - per indicare proprio «quello che succede tutti i giorni», ma hanno anche una lingua adattissima, secondo Nori, per descriverlo: «uno dei pregi della letteratura russa, per conto mio, è il fatto che rarissimamente gli scrittori russi salgono sullo scoglio del verbo amare per dettare da là le proprie regole, ma scendono piuttosto per strada» e parlano di quel che avviene nelle nostre vite quotidiane con un linguaggio che non è l’estrema propaggine di una tradizione letteraria, e dunque, va da sé, sempre un po’ artefatto e sostenuto, ma il linguaggio popolare delle nonne e dei servi. Parole come “amare” o “felicità”, osserva Nori, in dialetto parmigiano, il dialetto in cui si è scavato «il pozzo delle mie emozioni», in cui lui stesso ha imparato a pensare, semplicemente non esistono – e usarle nello scritto gli sembrerebbe un travisamento e una posa («mi creperebbe la faccia», dice, più precisamente). L’estetica non può simulare: per questo, secondo Nori, che sul punto sposa la linea di Brodskij, è bene che un poeta non si preoccupi tanto di stare dalla parte giusta, di essere inserito in un organigramma o di sottoscrivere un appello, quanto di scrivere bene, così come un uomo non dovrebbe porsi l’obiettivo di fare la storia, quanto di rendersi responsabile delle scelte che compie ogni giorno. Sia pure con una maggiore torsione impolitica, non mi pare un’osservazione poi troppo distante da quanto scriveva Edmondo Berselli, quando rimproverava a Dario Fo di sospendere i suoi formidabili misteri buffi per avanzare sul proscenio e spiegare agli spettatori “la rava ideologica e la fava sociale del Medioevo”. Rappresentare una scena di fustigazione nella sua crudezza, come fa Tolstoj in un suo articolo, mettendocela davanti agli occhi – “disimballandocela”, appunto - è gesto in realtà più politico e potenzialmente eversivo che limitarsi a parlarne, anche per contestarla. «Rallentando il riconoscimento (subito non si capisce che sta parlando di fustigazione), allungando la visione, sperperando delle energie, anziché risparmiarne, Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, gliela rende sensibile, gliela fa vedere come se fosse nuova, gliela toglie dall’imballaggio, e il lettore non ha tempo di pensare alle sue convinzioni, ai dibattiti che ha sentito, ha gli occhi pieni di questi uomini denudati, gettati a terra e colpiti sulla schiena con le verghe, e colpiti ancora sulle natiche nude».

Ecco dunque cos'hanno i russi di speciale: ci aiutano meglio di altri a guardare quel che abbiamo sotto gli occhi, il nostro quotidiano, così che possiamo lasciarci ferire dalla sua scabrosità nonostante tutti i tentativi messi all’opera per immunizzarcene – o perlomeno ci hanno aiutato a farlo dall’Eugenio Onegin di Puskin (il primo che cominciò a usare la lingua della sua balia, la lingua dei servi della gleba, per scrivere in russo) fino a Viktor Erofeev, vale a dire fino al crollo dell’Unione Sovietica, giusto trent'anni fa. Prima, i cosiddetti romanzi russi erano semplicemente «imitazioni dei romanzi sentimentali francesi», dopo – beh, dopo la sensazione di Nori è che i romanzi russi non siano più autentici romanzi russi, bensì semplicemente dei romanzi occidentali scritti in russo, che è tutta un’altra storia. «Per ritrovare delle teste diverse, per ritrovare la letteratura russa che ci dà quella sensazione di malessere che ci piace così tanto, dobbiamo rivolgerci alle cose che sono state pubblicate, più o meno, dal 1820 al 1990; e, per fortuna, c’è tanta di quella roba che non basta una vita, per studiarla come si deve».

P.s. Se qualcuno avesse bisogno di una spinta in tal senso, Nori suggerisce anche qual è secondo lui il libro ideale per cominciare a leggere la letteratura russa: non Delitto e castigo o Anna Karenina, ma Chadzi-Murat di Tolstoj, «perché è corto, poco più di cento pagine e anche perché qui, in questo romanzo (...), buona parte dei personaggi non hanno nomi e patronimici complicati perché non sono russi, sono ceceni». Buona lettura.

(finito il 22 dicembre 2020)

Ho parlato di


Paolo Nori
I russi sono matti
Corso sintetico di letteratura russa. 1820-1991
(Utet 2019)

184 p. | 15 €

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