martedì 28 novembre 2017

Io sono vivo, voi siete morti

Ipotizziamo – dico ipotizziamo – che l’Impero Romano non sia mai finito. Che la realtà così come la conosciamo non sia altro che una gigantesca pantomima orchestrata dal Re del Mondo per tenerci prigioniero il cuore nel tepore tutto sommato confortevole di una caverna. Certo, «vaghe intuizioni, dubbi, piccole incoerenze notate nella vita di tutti i giorni fanno intravedere la verità a quelli di noi che dormono meno profondamente; e tuttavia non osano crederci». Già, perché al di sopra di questo involucro materiale progettato da un malvagio demiurgo, risplende purissimo quell’Uno di cui la nostra vita attuale è appena l’ombra di un’ombra – e sulla quale tuttavia Egli pietosamente si piega, con la discrezione del vento leggero che sibila nella coscienza dei desti l’illusorietà di tutto ciò che ci circonda. Pacioccando con suggestioni di questo genere, nei primi due secoli della nostra era, personaggi dai nomi pittoreschi come Marcione, Carpocrate o Basilide costruirono ciascuno la propria variante di eresia gnostica. Di loro si sono un po’ perse le tracce, perché «gli gnostici erano i dissidenti della dissidenza: magnifici perdenti, grandissime teste di cazzo», che però «eserciteranno sempre un fascino profondo su tutti i franchi tiratori della religione».

Coerentemente con l’assunto borgesiano secondo cui la teologia non sarebbe altro che un ramo della letteratura fantastica, questi bagliori di verità ultrasiderale si sarebbero nuovamente manifestati, in pieno XX secolo, non già in corposi tomi teologici, bensì nella «forma contemporanea che (...) più si addiceva a una rivelazione: la fantascienza» - e più precisamente nell’opera squinternata e sublime di uno scrittore con manie paranoidi fin troppo volenteroso di calarsi nei panni del veggente, Philip K. Dick: «forse sono una specie di Giovanni Battista: il precursore, l’anello di congiunzione tra due ere; il più grande nell’antica alleanza, il più piccolo nella nuova; l’ultimo dei profeti, quello che si fa avanti quando tutti si lamentano perché Dio non parla più al suo popolo; la voce che grida nel deserto. Se leggi bene la Bibbia, vedrai che era un barbuto esaltato, proprio come me. Chiediti in tutta franchezza se allora gli avresti creduto». Di Dick questo libro è una folgorante biografia, che come spesso accade con Carrère è anche un modo per parlare di se stesso, attraverso la rilettura di un proprio mito giovanile (al pari di Lovecraft: abbiamo seguito un’analoga iniziazione, direi), che lo scrittore francese si prende il gusto di imporre all’attenzione altrui con quel sottile piacere provato da ogni lettore quando riesce a fare del proprio outsider preferito un maestro riconosciuto da tutti (il libro uscì in prima edizione in Francia a inizio anni ’90: mi sa che le mie letture dickiane adolescienziali rientrano almeno in parte nella storia degli effetti promossa da questo testo, anche se all’epoca non lo sapevo). 

A tratti, a chi ha letto Il Regno, potrà sembrare di essersi imbattuto in una sua variante ambientata in un mondo alternativo in cui al posto di Nerone c’è Nixon e al posto di san Paolo, appunto, l’autore di Ubik. L’intera vita di Dick gira infatti intorno al tentativo impossibile e alla fine rimasto incompiuto di dare corpo e ordine sistematico a quella frammentaria rivelazione (“l’Esegesi”) che si era convinto di ricevere da un’entità «che lui per pudore chiamava Valis», onde non scomodare il nome dell’Altissimo. Il suo percorso è quello di chi scopre a un certo punto, con propria grande sorpresa, che tutte le invenzioni via via disseminate in romanzi e racconti scritti per fare cassa erano – nella sostanza – vere, autentiche epifanie celate sotto il rivestimento insospettabile della letteratura di genere. «Ormai, ogni volta che rileggeva un suo libro, era impressionato dalla natura profetica di quello che aveva scritto». Tanto basta per renderlo un guru della controcultura hippy. «Lui che si era sempre sentito emarginato si ritrovò a vivere in un’epoca in cui i margini erano il centro del mondo e si stabilì allegramente al margine dei margini», immarcabile rolling stone scartata dai costruttori eppure divenuta il cuore di una nutrita cerchia di apostoli e ammiratori che adoravano ascoltare le sue storielle e i suoi discorsi sempre sul filo tra genialità e pura follia. A loro, ma non solo a loro, Dick appariva con il volto inquietante del Ratto – così come un giorno Socrate apparve ad Alcibiade sotto forma di Sileno – dal nome che lui stesso aveva dato a una variante del Monopoli escogitata per divertire le figlie della terza moglie, nella quale «il Banchiere non si limitava a fare da arbitro, ma in quanto Ratto poteva modificare a sua discrezione le regole del gioco». In quanto Ratto, ad esempio, Dick «non poteva fare a meno di dare ogni volta un nuovo giro di vite ai suoi romanzi, motivo per cui aveva enormi difficoltà a terminarli», un po’ come accade nei dialoghi aporetici di Platone.

Ma soprattutto, in quanto Ratto, Dick non riuscì mai a trovare la quadra definitiva, l'anello che tiene, il disegno complessivo che raccoglie l'intera trama degli eventi – lui, che per gran parte della sua vita non era riuscito a vedere altro che significati, dappertutto, ossessivamente, anche là dove non c’era assolutamente nulla di nascosto da dover portare alla luce (e che anche per questo era diventato cultore dell’I Ching). Anzi, in tempi di paranoia crescente, negli anni post-Watergate, così «come un esteta rinuncia a una raffinatezza quando diventa alla portata di tutti», finì per approdare all’«accettazione disincantata ma serena dell’assurda, complessa e meravigliosa idiozia del mondo. Non c’è nessun senso, nessun aldilà, e forse è meglio, a ogni modo è così, e non sono ammessi ripensamenti». Ma Dick era un Ratto, e se non fosse morto, ci avrebbe sicuramente, ancora una volta, ripensato. Sempre che i morti non siamo noi – e il nostro assurdo quotidiano il codice cifrato con cui l’entità PKD cerca ancora di mostrarci che sotto sotto la realtà è solo il tiro mancino di un genio maligno.

(finito il 1 settembre 2017)

Ho parlato di


Emmanuel Carrère
Io sono vivo, voi siete morti
(Adelphi, 2016)

trad. di F. e L. Di Lella

319 pp. | 19 €

(ed. or.: Je suis vivant et vous êtes morts, 1993)

domenica 12 novembre 2017

Il Cerchio

Come tutti i miei coetanei, ho avuto un’infanzia analogica e un’adolescenza appena appena predigitale. Vent’anni fa si cominciava giusto ad annusare internet, coi cellulari (per chi ce li aveva) ci si facevano gli squilli, nei tre mesi estivi delle vacanze spesso e volentieri perdevi tutti i contatti coi tuoi compagni di scuola, anziché conoscere quotidianamente il menu dei loro pasti alle Seychelles o ad Acapulco. Non era necessariamente meglio: sono però convinto che tante storie sarebbero finite molto diversamente se si avesse avuto già a disposizione Whatsapp. Di certo si tratta del più rapido salto tecnologico della storia, coi Commodore 64 che in pratica sono già diventati pezzi da museo al pari di un vaso etrusco. Non è detto perciò che la nostra intelligenza riesca a stare al passo coi tempi.

Questo romanzo ci proietta in un futuro imminente, in cui è stata inventata l’app-fine-di-mondo, TruYou, l’account globale che dà accesso a tutto e ci rende accessibili a tutti, opera magna di un’azienda fittizia chiamata The Circle (che è come dire Apple, Google e Facebook messe assieme), il cui motto è appunto quello di “chiudere il cerchio”, connettere una volta per tutte l’intera umanità in un’unica, suprema, coscienza digitale: lo Spirito oggettivo 2.0, nuovamente de-materializzato. Il libro si apre introducendoci passo passo, al seguito della protagonista, Mae Holland, al suo primo giorno di lavoro nell’immenso campus dell’azienda, una vera e propria città nella città (ricalcata su Cupertino), divisa per settori chiamati con i nomi delle grandi epoche della storia e in cui non passa giorno senza la visita di questa o quella celebrità dell’arte o della cultura, come un workshop ininterrotto. I vialetti sono punteggiati di mattonelle con incitamenti motivazionali che sembrano uscite da un discorso di Renzi (“Sogna”, “Innova”, “Immagina”, etc.) ed anche il vecchio “Servizio Clienti” qui è stato ribattezzato suasivamente “Customer Experience”. Per i dipendenti del Cerchio è pressoché impossibile scindere sfera lavorativa e sfera personale: come si capirà ben presto, l’attivismo compulsivo sui social è parte integrante della loro professione, mentre il lassismo partecipativo è percepito come un vero e proprio atto di ostilità meritevole di richiamo disciplinare (eccessivo? ma quanto ci lamentiamo se uno non risponde subito ai nostri messaggi...). L’edificio stesso in cui ha sede l’ufficio di Mae (il Rinascimento) è un immenso panopticon in cui tutti vedono tutti. Tra uno zing e l’altro (l’equivalente romanzesco dei tweet e dei like), al Cerchio si imbastiscono progetti avanguardistici quali l’eliminazione definitiva della moneta nella sua forma materiale, ma anche vagamente surreali come il calcolo dei granelli di sabbia del Sahara (perché? Per vedere se si può fare, anzitutto). Al vertice di questa impresa colossale regna una sacra Trinità composta da tre persone ben distinte, in un certo senso ipostasi di altrettanti distinti approcci all’innovazione tecnologica: Ty Gospodinov, il giovane nerd inventore dell’algoritmo alla base di TruYou, vivo ma (paradossalmente) del tutto invisibile ai radar, forse soggetto a sindrome di Asperger; Eamon Bailey, il volto pubblico e pulito della ditta, keynote speaker delle convention di presentazione dei nuovi prodotti, sinceramente liberal e convinto del potere emancipatorio dei nuovi media; Tom Stenton, lo squalo della finanza amante dei Transformers, una sorta di Tony Stark senza il lato eroico, estremamente efficace nel convertire in dollari sonanti le idee via via immaginate dai creativi della ditta.

Poste più o meno queste premesse, Eggers imbastisce un romanzo piuttosto lineare nella trama, a tratti persino un po’ stucchevole, non privo però di buoni momenti, ma soprattutto spericolatamente ambizioso nello sforzo di ragionare su un tema oggettivamente problematico, partendo da fenomeni attualmente in corso su scala ridotta e ingigantendoli per poterli mettere meglio a fuoco, come nella classica tradizione della letteratura u-distopica – e nel far questo, a mio avviso, centra il bersaglio (niente da fare, dobbiamo leggere gli americani per capire come sta girando il mondo). Il cuore teorico della questione viene dipanato in un concitato dialogo dal sapore quasi socratico tra Bailey e Mae, attraverso il quale si prende spunto dalla vecchia questione platonica che nella Repubblica era riassunta con il racconto dell’anello magico di Gige (in sostanza: “come ci comporteremmo se sapessimo che nessuno ci può vedere?”) per giungere maieuticamente a giustificare le tre regole d’oro della nuova era digitale, rilettura aggiornata e più sottile degli slogan del SocIng orwelliano: non più «la guerra è pace», «la libertà è schiavitù», «l’ignoranza è forza», bensì «i segreti sono bugie», «condividere è prendersi cura», «la privacy è un furto». Dietro ci sta l’idea che «la conoscenza è un diritto fondamentale di tutti gli uomini. Parità di accesso a tutte le esperienze umane possibili: ecco il diritto fondamentale che abbiamo tutti». Perché privare chi non ha la possibilità di viaggiare, per ragioni economiche o fisiche, della meravigliosa vista che tu stai egoisticamente contemplando sul cocuzzolo di Macchu Picchu? Nulla andrà più perduto: «tutto quello che succede dev'essere conosciuto» (ma si potrà anche affermare, alzando l’asticella: che diritto hai di tenerti i tuoi pensieri per te?).

Di qui basta un passo per approdare all’utopia grillina della trasparenza totale della politica, secondo cui non c’è nulla di celato che non debba essere gridato sui tetti, perché dietro la riservatezza c’è sempre e solo qualcosa da nascondere. Un passetto ancora ed eccoci alla democrazia diretta, obbligatoria e immediata, come rimedio al progressivo allontanamento delle masse dalla partecipazione politica. Con un unico account avrai anche accesso alle liste elettorali (siamo negli USA, dove di volta in volta devi reiscriverti), ma esso si bloccherà, tagliandoti fuori da tutto, se non risponderai seduta stante ai quesiti su cui ti verrà richiesto di volta in volta un parere. Dobbiamo inviare un drone per eliminare il noto terrorista islamico in Afghanistan? Con un clic, in tempo reale, come il televoto di San Remo, ecco un’istantanea precisa delle intenzioni dell’intero popolo americano, che i mandarini di Washington, a quel punto, si limiteranno semplicemente ad eseguire, meri portavoce della volontà generale, con immensi risparmi per le finanze statali e la possibilità di effettuare investimenti più utili che comprare l’ennesimo stock di matite copiative e cabine elettorali. “Devi partecipare”: ecco il nuovo imperativo categorico post-kantiano. Naturalmente tutto questo ha dei costi: «sembra perfetto, sembra progressista, mentre implica più controllo, più monitoraggio centralizzato di tutto quello che facciamo». Un mondo di luce sempre accesa sarebbe davvero auspicabile oppure abbiamo il diritto, ogni tanto, di staccare la spina? Siamo davvero a un passo dalla mobilitazione totale profetizzata da Junger ai tempi della Grande Guerra? Poi, per carità, la storia è imprevedibile, il 1984 è passato e persino il temibile Grande Fratello ha fatto la fine che ha fatto e oggi è identificato con la faccia sfatta di Malgioglio, però una sbirciatina su questo ipotetico scenario futuro vale la pena darla, giusto per capire un po’ meglio qual è la posta in palio ed evitare di infilarci per distrazione attorno al collo il cappio dorato di una rinnovata forma di servitù volontaria.

(finito il 12 agosto 2017)

Ho parlato di


Dave Eggers
Il Cerchio
(Mondadori, 2017)

trad. di V. Mantovani

396 pp. | 14,50 €

(ed. or. The Circle, 2013)

mercoledì 1 novembre 2017

7 lezioni sul pensiero globale

Per una volta tanto riesco a leggere un libro di un venerato maestro mentre questi è ancora in vita, ma solo perché il nonagenario Morin mi ha fatto la cortesia di giungere vispo fin quasi a cent’anni (Bauman e Todorov mi scusino, arriverò anche a loro). Il titolo dell’edizione italiana strizza l’occhio ad un altro famoso testo del catalogo – i “sette saperi necessari all’educazione del futuro” – ma c’entra poco col contenuto: più che a un insieme di lezioni questo testo fa pensare piuttosto a un’enciclica laica, con meriti e demeriti del genere letterario in questione (e, va da sé, forse anche al riepilogo di un intero itinerario intellettuale). L’intento dichiarato è di delineare i contorni di quello che Morin definisce “pensiero globale” o “complesso”, da proporre come nuovo paradigma metodologico in sostituzione delle varie forme di riduzionismo che ci portiamo dietro almeno dal ‘600, rivelatesi incapaci di misurarsi davvero con l’intricato sistema di azioni e di retroazioni che costituiscono il mondo interconnesso in cui siamo (da sempre) immersi, ma di cui siamo diventati pienamente coscienti solo in questa nostra “era planetaria”.

La riduzione al semplice insidia, anzitutto, la varietà del reale. “Complesso” vuol dire, invece, in primo luogo, “tessuto insieme”, e si tessono insieme stoffe di diversa provenienza: «l’unità è il tesoro della diversità umana, la diversità è il tesoro dell’unità umana». Tradotto, “globale” non deve significare per forza “omologato” - e dunque, non “crescita o decrescita (felice o meno)”, bensì “crescita e decrescita” insieme: «tutto ciò che è sviluppo nel senso classico del termine deve accompagnarsi al rispetto di ciò che inviluppa», un colpo al cerchio della mondializzazione ed uno alla botte della localizzazione. Un simile approccio ha però anche significative ricadute pedagogiche: i saperi vanno interconnessi, fatti dialogare, perché si possa pensare di capirci qualcosa. E non possiamo accontentarci, nel mondo che viene, di saperi puramente tecnici. Siamo «condannati alla traduzione» (sin nei nostri più basilari processi percettivi), perciò avremo sempre più bisogno di un’intelligenza ermeneutica che maturi nel confronto con l’altro. «La comprensione comporta il riconoscimento e il sentimento di una umanità comune con gli altri, e nello stesso tempo il rispetto della loro differenza». Guarda un po’ se non possono tornare di moda le antiche traduzioni dal greco e dal latino, e con esse il peso delle parole, le sfumature, le possibili varianti, quel margine mai del tutto eliminabile di ambiguità rispetto alle reali intenzioni dell’autore. «Bisogna accettare la complessità dell’umano, contestualizzare sempre e non chiudersi in alcune certezze. Oggi, anche le scienze più avanzate affrontano delle incertezze, come la microfisica e la cosmofisica. La nostra stessa vita è molto incerta e altrettanto lo è il futuro dell’umanità. É per questo che l’insegnamento deve includere come affrontare queste incertezze» (onde evitare anche – aggiungo io – la faciloneria dei somari che hanno la risposta comoda e pronta per tutto).

Umanesimo e scienza possono dunque andare a braccetto, e lo possono fare perché complesso, fin dalla radice, è il mondo di cui si occupano, un impasto in continua tensione tra ordine e disordine che produce ristretti settori di organizzazione dai quali emerge sempre qualcosa di più che la mera somma delle parti, nonché continue imprevedibili mutazioni suscettibili di sviluppi inaspettati. «Siamo in un mondo consegnato agli accidenti e ai casi, e ciò è comune alla storia fisica, alla storia biologica e alla storia umana»: è la contingenza radicale, insomma, ciò che ci rende pienamente solidali con la natura. «La storia non è un fiume maestoso che avanza. Avanza di lato, come un granchio, e quando una devianza riesce a radicarsi, a creare una tendenza, questa tendenza diventa una forza storica. Allora è in corso una trasformazione». Questo vale appunto per i mari primordiali o le pozze vulcaniche in cui ha avuto origine la vita (e in cui alcuni batteri, un paio di miliardi d’anni dopo, impararono a metabolizzare l’ossigeno liberato dalla fotosintesi, responsabile della prima estinzione di massa sulla Terra), ma vale anche per la nascita delle grandi religioni, che spesso sono smarcamenti rispetto ad una qualche ortodossia (Gesù fu messo in croce in quanto bestemmiatore), così come per l’affermazione del moderno capitalismo, attecchito ai margini di una società aristocratica e militare. Lungi dall’essere il culmine di un processo ordinato e cumulativo, non siamo che l’esito di continue divergenze, all’interno di un universo composto per il 90% di una materia che chiamiamo “oscura” perché c’è, ma ci sfugge.

Ne consegue che, a differenza dei grandi racconti che ci hanno intrattenuto nella modernità, il nuovo racconto che a poco a poco sta emergendo dall’intreccio dei risultati prodotti dalle varie discipline si preclude l’accesso a una sintesi finale. Il futuro non è più quello di una volta: più aumentano le nostre conoscenze, più aumenta la consapevolezza della nostra ignoranza. Pensiamo alla fisica, dove per un neutrino che si scopre, si aprono cento nuove domande a cui prima semplicemente non avevamo mai pensato. E dunque, «scopo del pensiero complesso non è distruggere l’incertezza, ma individuarla, riconoscerla, è evitare la credenza in una verità totale», in un destino segnato, nel bene o nel male. Non siamo completamente condannati, ma non siamo neanche già redenti, anche se semi di novità stanno presumibilmente già germinando, ai margini dell’apparato che vorrebbe fagocitare tutto. «L’impossibile, l’inatteso è dunque possibile, la metamorfosi è dunque possibile. La lotta non è totalmente disperata. Ma la speranza è il possibile, non è il certo. Darle certezza è un errore totale». Del resto, chi si sarebbe immaginato, nell’Europa completamente nazistificata del 1941, i carri armati alleati a Berlino entro quattro anni? Con la felice incoscienza di chi non ha più nulla da dover dimostrare, Morin allarga però il suo discorso dai nostri tempi interessanti all’intera vita della specie. «La caratteristica dell’essere umano è di essere incompiuto», dice: bisogna, cioè, pensarsi come se fossimo fermi ancora all’età del ferro planetaria. «L’incredibile può accadere e accadrà»: l’umanità stessa potrà acquisire poteri oggi inimmaginabili, come è inimmaginabile tirar fuori il laptop su cui scrivo dalle schegge di selce incise dal primo homo habilis. «Dobbiamo abbandonare una razionalità chiusa, incapace di afferrare ciò che sfugge alla logica classica, incapace di comprendere ciò che la eccede, per dedicarci a una razionalità aperta, in grado di conoscere i propri limiti e cosciente dell’irrazionalizzabile. Dobbiamo continuamente lottare per non credere a quelle illusioni che sono in grado di prendere la solidità di una credenza mitologica. In questo mondo globale siamo messi a confronto con le difficoltà del pensiero globale, che sono le stesse difficoltà del pensiero complesso. Viviamo l’inizio di un inizio». Amen.

(finito il 28 agosto 2017)

Ho parlato di


Edgar Morin
7 lezioni sul pensiero globale
(Raffaello Cortina, 2016)

116 pp. | 11 €

(ed. or: Penser global. L'homme et son univers, 2015)