martedì 30 giugno 2020

Terra e spazio. Volume 2

Per celebrare adeguatamente il cinquantenario del piccolo passo di Neil Armstrong sulla superficie lunare, nel luglio 2019 i curatori di Urania hanno avuto la felice intuizione di distribuire nelle edicole il secondo dei quattro tomi in cui è stata scorporata la traduzione della raccolta completa dei racconti di Arthur C. Clarke, quello, cioè, contenente uno dei testi che più ha contribuito, in appena una dozzina di pagine, a definire l’immaginario collettivo del secondo Novecento - e per possedere finalmente il quale (già letto chissà quando e chissà dove, tanti anni fa) ho volentieri acquistato l’intero volume, quando si è trattato di scegliere il consueto libro di fantascienza che mi avrebbe dovuto accompagnare in spiaggia l’estate scorsa. Parlo, ovviamente, de La sentinella (da non confondere con il quasi omonimo, pressoché coevo, e forse ancor più celebre Sentinella, senza articolo, di Fredric Brown). Breve ragguaglio contenutistico: in un ipotetico 1996, una spedizione scientifica sulla Luna individua «una struttura scintillante, di forma quasi piramidale, alta il doppio di un uomo, incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature». Se non bastasse a convincercene la sua fattura raffinata, il fatto che l’oggetto risulti protetto da una una sorta di campo di forza attesta al di là di ogni dubbio la sua origine artificiale, ancorché del tutto misteriosa (suona familiare? Certo, è lo spunto da cui ha dichiaratamente preso le mosse Kubrick per 2001 Odissea nello spazio). Questo manufatto è un’autentica sfinge che sfida tutte le convinzioni umane. Solo dopo vent’anni di studi riassunti nel giro di una riga – ci dice il narratore – «quello che non riuscimmo a capire lo spezzammo (...) con la selvaggia potenza dell’energia atomica, così che adesso io ho visto i frammenti di quella cosa bella e scintillante che trovai lassù fra le montagne». E la conclusione, a prima vista avvilente, è che questi frammenti «non significano assolutamente nulla. I meccanismi, sempre poi che fossero meccanismi, della piramide sono il frutto di una tecnologia molto al di là del nostro orizzonte, forse di una tecnologia di forze parafisiche».

Ecco, il racconto è tutto qui, interamente giocato, dapprima, sul senso di meraviglia per l’avvenuto contatto, seppur “archeologicamente” mediato, con una civiltà aliena, quindi sulle congetture formulate dal protagonista di fronte alla irriducibile incomprensibilità di quel reperto lunare, simbolo di tutto ciò che è avvenuto, avviene e avverrà nell’universo senza che la cosa minimamente ci riguardi. La sua supposizione è che in tempi vertiginosamente lontani, quando la Terra era ancora la palla fumante delle origini, qualcuno o qualcosa deve aver attraversato il sistema solare, ipotizzato che, nell’arco di centinaia di milioni di anni, si sarebbe potuta sviluppare anche lì una forma di vita intelligente e lasciato, appunto, come promemoria, una “sentinella”, la cui distruzione avrebbe segnalato inequivocabilmente la presenza di una specie capace di sviluppare sufficienti capacità tecnologiche e dunque meritevole finalmente di una qualche attenzione. Forse – conclude – questi remoti esploratori «vogliono aiutare la nostra civiltà in fasce. Ma devono essere vecchi, molto vecchi, e spesso i vecchi sono follemente gelosi dei giovani. Ora non posso più guardare la Via Lattea senza chiedermi da quale di quelle nebulose stellari stiano arrivando gli emissari. Se mi concedete il paragone terra terra, abbiamo azionato il segnale d’allarme, e adesso non ci rimane che aspettare. Non credo che l’attesa sarà lunga». Oltre, e forse più ancora. che nel ciclo di 2001 (il romanzo scritto parallelamente alla stesura della sceneggiatura del film più i suoi tre autonomi seguiti), analoghe tematiche, con una venatura persino religiosa, ritorneranno anche in un altro libro di Clarke, Incontro con Rama, in cui una misteriosa astronave-mondo viene avvistata in prossimità di Marte e visitata da un manipolo di astronauti, che però la devono presto abbandonare perché la sua traiettoria la sta conducendo dritta nel cuore del Sole, senza che sia stato possibile capire da dove arrivasse, a chi appartenesse e quale fosse il suo scopo.

Se il fascino di queste visioni è suscitato proprio da quella ostentata imperscrutabilità che ci fa sentire immensamente piccoli rispetto alle profondità siderali del cosmo (vedi anche, in questa raccolta, Giove Quinto), va però detto che, nella quasi totalità dei casi qui considerati, gli alieni di Clarke si rivelano poi, alla prova dei fatti, magnanimi e desiderosi di condividere il proprio sapere (con una sola eccezione, nel racconto d’apertura Strada buia, che è praticamente un horror), e se qualche volta scappa loro la mano è solo perché sono gli umani che non riescono a capire o a farsi capire (è il tema di Campagna pubblicitaria, una fulminante satira di come gli uomini finiscano per credere a tal punto alle proprie fiction da compromettere tragicamente la loro facoltà di giudizio; in Problemi con i nativi, invece, una variante dell’apologo di Carlo Fruttero sul disco volante che atterra nella bassa Padana anziché nel Texas, la maggior pazienza dei visitatori garantisce ai terrestri un esito migliore). Non è un caso che queste ventuno short stories risalgano tutte a un periodo compreso tra il 1952 al 1957, ossia tra la guerra di Corea e il lancio dello Sputnik, nel cono d’ombra della Bomba. Si perde, infatti, il conto di quante volte Clarke si diverta – forse anche con intenti apotropaici – a distruggere la Terra o annientare l’umanità, ma è significativo che si tratti praticamente sempre di autodistruzioni, che diventano occasione per slanci lirici (Se mi dimenticassi di te, oh Terra…) o per spericolati divertissement costruiti sul filo del paradosso (I nove miliardi di nomi di Dio, Il mattino del quarto giorno e il godibilissimo Tutto il tempo del mondo).

Il tono spiccatamente british della sua prosa impedisce per fortuna deragliamenti nella più stucchevole apocalittica, ma sebbene la nota prevalente resti sempre uno stupore venato di fiducia per l’opera dell’uomo in cui talora si sente l’eco di Jules Verne (come in Vacanza sulla Luna), il tema a lui caro delle soglie critiche attraverso cui le civiltà possono raggiungere una maggior grado di complessità (Al bivio, Spedizione sulla Terra) non è mai trattato con toni ingenuamente trionfalistici o deterministici, bensì con la consapevolezza che ci si può sempre incartare e che, anzi, lo sviluppo tecnologico, in determinate condizioni, può perfino diventare un handicap anziché un vantaggio evolutivo (a ciò alludono, sia pure in modo giocoso, le macchine strampalate descritte in Silenzio, prego e in Corsa agli armamenti, anche se la questione è programmaticamente trattata in Superiorità). Perfino quando ci troviamo di fronte a scenari che oggi definiremmo senz’altro “post-umani”, le conseguenze prospettate possono risultare provvidenziali (La strada verso il mare) o raggelanti (Il parassita - probabilmente il pezzo più inquietante del mazzo), senza che l’una appaia meno credibile dell’altra. Insomma – lo si sarà capito – ogni racconto di Arthur Clarke è come una sonda lanciata ai confini dell’immaginazione allo scopo di catturare qualche bagliore dell’inconcepibile, nella convinzione – affidata a una sorta di dichiarazione di poetica dal sapore quasi borgesiano (sin dal titolo: L’altra tigre) – che «noi siamo qui perché non potremmo essere altrove. Ma tutti quegli altrove sono pure da qualche parte, quindi il mio racconto può essere disgraziatamente vicino alla verità. Per fortuna non avremo mai modo di provarlo. O almeno credo...».

(finito il 13 settembre 2019)

Ho parlato di


Arthur C. Clarke
Terra e spazio. Volume 2
(Mondadori, 2019)

(Urania Collezione 198)

trad. di Aa. Vv.

360 pp. | 6,90 €

(ed. or.: The Collected Stories, 2000)

giovedì 11 giugno 2020

Tyll. Il re, il cuoco e il buffone

Giunti circa a metà della storia, il buffone che dà il titolo all’opera (reincarnazione quasi omonima di un personaggio del repertorio folclorico tedesco, cugino germanico dei nostri arlecchini) dona un dipinto alla regina di cui è al servizio (che è una regina per modo di dire, come vedremo, e che anzi assolda un buffone proprio per dimostrare di essere una regina, perché solo le regine hanno dei buffoni al proprio seguito) - anzi non proprio un dipinto, ma «una tela bianca con niente sopra», raccomandandole di mostrarlo a tutti e di spargere la voce che «i figli illegittimi e gli idioti e i ladri e le carogne con cattive intenzioni non vedono niente, né il cielo azzurro né il castello né la splendida fanciulla affacciata al balcone che cala la treccia dorata, e nemmeno l’angelo alle sue spalle. Dillo a tutti, e guarda cosa succede!». E quel che succede è che gli ospiti a cui viene mostrato il quadro restano interdetti: naturalmente nessuno vede niente, e sono tutti perfettamente consapevoli che davanti a loro c’è solo un’anonima tela bianca, ma metti caso che invece la regina creda a quello che dice così come crede di essere una regina o che il dipinto sia davvero magico o che ci si voglia burlare di loro, mica possono ammetterlo apertamente e fare così la figura degli scemi – e perciò restano al gioco. Non so se l’apologo sia del tutto originale (poco importa), ma rende bene l’idea di quel che può accadere quando si commenta qualcosa che ti viene proposto come un capolavoro. Forse vale ancor più in filosofia che in letteratura: chi vuol restare col cerino in mano e confessare che un certo testo non dice niente, correndo il rischio di apparire come l’unico fesso che non ha la profondità di pensiero per seguire i complicatissimi ragionamenti che invece vi sarebbero formulati? A nessuno piace interpretare la parte dell’amico tontolone a cui si devono spiegare le barzellette. E allora che si fa? Si abbozza, e si rimescola nel torbido, rifugiandosi nel gergo per cercare di stare al passo con gli altri.

L’ho presa un po’ alla larga per arrivare a dire che la lettura di questo romanzo mi ha lasciato un po’ la stessa sensazione della tela bianca di cui sopra. Questo libro, infatti, ha venduto tantissimo, in giro se ne parla un gran bene, è in lizza coi favori del pronostico per un riconoscimento importante come il Man Booker International Prize, eppure, nonostante tutte queste sollecitazioni, io continuo a non vederla, la fanciulla con la treccia dorata e l’angelo alle sue spalle. Intendiamoci, Kehlmann scrive bene e diversi passaggi della storia sono effettivamente memorabili. Trovo, in particolare, che abbia un talento raro nel raccontare la caducità delle cose e la nostalgia che ne deriva, il senso di disfacimento degli orizzonti consolidati, lo sfumare del reale in irreale e della vita nella morte, oltre che una notevole capacità di giocare con le proprie fonti, mescolandole e rielaborandole in modo tale da trasformare quello che apparentemente è un romanzo storico in un “romanzo contemporaneo che si svolge nel passato” (definizione che, se ho capito bene, dovrebbe essere proprio sua). Tutti questi elementi erano già presenti nel precedente, e per me folgorante, La misura del mondo. Qui, però, la sensazione è che l’autore abbia voluto alzare l’asticella, perché la scelta di confrontarsi con quel carnaio che è stato la guerra dei Trent’Anni, vale a dire con l’altro Seicento rispetto a quello del cannocchiale galileiano e del metodo geometrico, sottintende l’intenzione di andare proprio alla radice dei conflitti e delle contraddizioni di una modernità da cui, per certi aspetti, non siamo ancora interamente usciti. E da questo punto di vista, forse anche per le altissime aspettative che avevo (mi capita di rado di acquistare un libro appena uscito e ancor più di rado di leggerlo subito dopo averlo comprato), mi viene da dire che la montagna ha partorito un topolino elegante, ma pur sempre un topolino.

Provo a spiegarmi. Il filo conduttore di una trama non lineare è costituito dal ripresentarsi, nelle varie sequenze narrative, del personaggio di Tyll Eulenspiegel, «qualcuno che fa davvero ciò che vuole e non crede a niente e non obbedisce a nessuno», il quale esordisce sulla scena – è il caso di dirlo – già adulto, con una performance che ricorda un po’ quella del funambolo dello Zarathustra (con la differenza che a ridere, alla fine, è lui, non la folla), ma di cui poi si racconta l’infanzia, segnata dalla figura di un padre che non solo fa lo stesso mestiere del mugnaio Menocchio, ma condivide con lui analoghi interessi spirituali oltre che la stessa fine violenta dopo un processo indetto dall’Inquisizione. Fuggito dal paesello ancora ragazzino e messosi a “camminare il mondo” (come si diceva allora), Tyll appare e scompare in diversi episodi cruciali della guerra, sotto diversi travestimenti, costituendo per un certo periodo quasi tutto il personale della striminzita e surreale corte itinerante del Re d’Inverno, lo sventurato Federico del Palatinato, dalla cui temeraria decisione di accettare il trono di Boemia aveva preso le mosse il conflitto e che dopo essere stato destituito percorse tutta Europa rivendicando una corona che nessuno aveva più intenzione di dargli (la moglie Elizabeth, che lo accompagna in questo calvario, è appunto la regina cui Tyll regala la sua tela bianca). Lo troviamo anche sul campo di battaglia di Zusmarshausen, terreno dell’ultimo, devastante, scontro della guerra, avvenuto quando ormai le trattative in Vestfalia erano già a buon punto. In quell’occasione, l’ufficiale che era andato a cercarlo per portarlo a Vienna su ordine dell’imperatore e che pure, da anziano, scriverà delle compiaciutissime memorie, si rende conto che quello cui sta assistendo «non si poteva descrivere. (…) Già quando raggiunse la sommità dell’altura uscendo dal bosco e, al di là del fiume in fondo alla valle, vide l’esercito dell’imperatore che si allargava fino all’orizzonte, con le postazioni per i cannoni, i moschettieri nelle trincee e i reparti di picchieri, le cui picche gli apparvero come un secondo bosco, il grasso conte ebbe l’impressione di assistere a qualcosa di irreale. Tutti quegli uomini insieme schierati in formazione erano così difficili anche solo da concepire, che destabilizzarono l’equilibrio naturale». Ma cos’è reale e cosa irreale? La regina Elizabeth, che da giovane figlia del re d'Inghilterra aveva assistito in prima fila alle rappresentazioni di Shakespeare, era giunta a questa conclusione: «le persone salivano sul palco e fingevano di essere qualcun altro, ma lei aveva capito subito che non era così e che anche la finzione era soltanto una maschera, perché non era il teatro a essere falso, no, era tutto il resto a essere posa, travestimento e orpello, era falso tutto ciò che non era teatro».

Ecco, di fronte a un mondo ingovernabile, in cui sangue vero scorre a fiumi in base alla credenza che uno sia re oppure no, ed evanescenti opinioni immateriali hanno il singolare potere di muovere il pesante acciaio delle spade, si possono assumere diversi atteggiamenti. Si può ragionare, infatti, come il coltissimo gesuita Athanasius Kircher (“the last man who knew everything”, come recita il titolo di una recente raccolta di saggi a lui dedicata), il quale, messosi in viaggio alla ricerca di un drago dal cui sangue ricavare un rimedio contro la peste (pur sapendo che «un drago che fosse stato visto sarebbe un drago a cui manca il principale requisito di un drago, che è appunto quello di rendersi introvabile»), si trova a rimpiangere il «suo laboratorio, dove tutto era sotto controllo mentre in qualunque altro posto regnava il caos totale». «Perchè – si chiede – la creazione di Dio si mostrava tanto recalcitrante, da dove veniva quella ostinata tendenza al disordine e allo scompiglio? Ciò che per lo spirito era chiaro, là fuori si rivelava un groviglio inestricabile. Kircher aveva compreso presto che bisognava seguire la ragione senza lasciarsi turbare dai ghiribizzi della realtà. Se si sapeva quale risultato doveva dare un esperimento, l’esperimento doveva dare quel risultato, e se si possedeva una visione nitida delle cose, nel descriverle bisognava rendere giustizia alla sostanza e non all’apparenza». In questo modo era riuscito nell’impresa ineguagliabile di decodificare i geroglifici egiziani, anche se dall’Oriente gli giungevano di continuo lettere di confratelli duri di comprendonio che «riferivano di sequenze di simboli che non rientravano nello schema da lui descritto, costringendolo a rispondere che non aveva alcuna importanza cosa avesse inciso sulla pietra diecimila anni prima un babbeo qualunque, un misero scribacchino, che su quella scrittura non vantava certo la competenza di un’autorità come lui». Kircher ne è talmente convinto che ha già scritto il capitolo del suo libro dedicato ai draghi prima ancora di partire per la missione. L’idea precede la realtà e la realtà non fa che confermare l’idea: è su questa base, appunto - magari non fanatica, ma certo dogmatica - che si pretende di incatenare il divenire e si intentano tutte le indagini di tipo inquisitoriale, come quella che lo stesso Kircher aveva allestito per condannare il padre di Tyll, convinto com’era che trafficasse col demonio. L’alternativa proposta da Kehlmann è fare invece proprio come Tyll, ossia ridere e deridere tutto e tutti, con la leggerezza a tratti anche feroce dell’equilibrista che sta sospeso a mezz’aria mentre sul resto del mondo si stende la falce della morte e i regni si susseguono l'un l'altro. «Rido perché io non muoio», ripete, da buon escapista, sepolto sotto una muraglia crollata durante l’assedio di Brno: «io non muoio. (…) Me ne vado. Ho sempre fatto così. Quando si mette male, me ne vado». A differenza, però, di Tom Joad, che continua a girovagare per denunciare le ingiustizie diffuse nel mondo, Tyll vagabonda ancora, come ha sempre fatto, sottolineandone assurdità e incongruenze. Tutto questo è molto interessante e sicuramente ben detto, anche se alla lunga risulta un po’ dispersivo (ripeto, La misura del mondo giunge a conclusioni simili in modo meno faticoso). Ma soprattutto c’era davvero il caso di scomodare il Seicento e disseminare il testo di continue criptocitazioni per ripetere quello che in fondo ci ha già rivelato il Comico di Watchmen?

(finito il 4 settembre 2019)

Ho parlato di


Daniel Kehlmann
Tyll. Il re, il cuoco e il buffone
(Feltrinelli, 2019)

trad. di M. Pesetti

320 pp. | 18 €

(ed. or.: Tyll, 2017)