giovedì 4 agosto 2016

La lettera scarlatta

«Non chiamarmi "mia signora". Chiamami col mio nome, Reina» 
lo rimproverò la donna in tono severo. 
Aggiunse: «Bamba, queste terre sono sterminate. 
Fanno gola a predoni di tutto il mondo. Gli schiavi sfuggiti al loro destino 
potrebbero fondarci modi di vivere differenti. Più umani».
V. Evangelisti, Tortuga

Ovvero: quando l'introduzione sembra più interessante dell'introdotto.

Ci sono opere che, per un motivo o per l'altro, sono schiacciate dal peso della loro stessa fortuna. Opere importanti che, senza averle lette, si sa già bene o male di che cosa parlano, e proprio per questo non si è invogliati a leggerle davvero, finché lo fai e ti ritrovi con un senso di delusione perché scopri che in questo caso è il topolino ad avere partorito la montagna e che, per quanto possa suonare bizzarro, ciò che si è detto su quell'opera ha definito un settore dell'immaginario più di quanto abbia fatto ciò che quell'opera effettivamente ha detto. Coi classici, alle volte, è così: sai già che succede e non puoi riprodurre la lettura ingenua di chi li ha letti quando non erano ancora classici. Certo, non mancano le sorprese. Quando ho cominciato il Don Chisciotte avevo giusto una vaga idea dei due personaggi principali e dell'episodio dei mulini a vento: ricordo lo stupore quando mi imbattei in quella scena praticamente dopo tre pagine, con ancora tutto un mondo da esplorare (e che mondo! Testo fondamentale, quello). Ed è vero che la maestria dello scrittore si può misurare proprio qui, dal fatto cioè di saperti avvincere nonostante gli abbiano rivelato già tutti i finali del suo repertorio di barzellette. Se sei un grande, il come è indisgiungibile dal che.

Ma non è questo il caso. Non del tutto, perlomeno. La lettera scarlatta è appunto uno di quei libri che si possono citare senza averli letti (anch'io l'ho fatto, per esempio, in una terza liceo, parlando della riforma protestante). Perché più o meno sai che mette in scena il clima oppressivo e morboso del puritanesimo americano della prima colonizzazione. Perché conosci l'espediente del marchio di adulterio intessuto sulla veste della protagonista, che a differenza di quello di Caino serve però solo da prolungamento della gogna e non tutela il colpevole. Perché, avendo frequentato un po' quel mondo lì attraverso altri canali, puoi azzardarti a parlarne sapendo che dirai comunque delle cose vagamente sensate. Poi accade a un certo punto che quel libro decidi davvero di leggerlo, più per curiosità che per scrupolo, visto che stai facendo dei lavoretti per conto tuo sulla cultura nordamericana. E no, niente sorprese, trovi esattamente tutto quello che ti immaginavi. Con qualche aspetto inatteso, è chiaro, perché la sfera magica non ce l'hai e non puoi prevedere proprio tutto. Però tendenzialmente il grosso l'hai preso: lo scontro ideale tra il singolo e la comunità, i bimbi puritani che per gioco fingono di andare in chiesa o di flagellare i quaccheri, un simbolismo molto accentuato, personaggi che si chiamano e che parlano come profeti biblici (o così pretendono), e così sia. Solo che dalla lettura di un libro mi aspetterei di essere spiazzato e rimesso in discussione, non di confermare le mie attese, perché allora - davvero - tanto vale leggerlo. Il problema è che, a prima vista, neanche il modo in cui questo insieme di cose è stato cucinato mi è sembrato particolarmente saporito. Tutto molto melodrammatico, pure troppo. Ma per altri aspetti, invece, tutto fin troppo insipido: si ha la sensazione di essere sempre sul punto in cui i demoni debbano prendere definitivamente il sopravvento, eppure non si affonda mai veramente il colpo. Il potenziale allucinatorio che aleggia su ogni capitolo non appesta mai davvero la realtà e si comprime talora in scenette tutt'al più grottesche. É sciocco da dire, me ne rendo conto, ma l'impressione è che quello stesso materiale, shackerato e rielaborato da una mente più visionaria, avrebbe potuto produrre risultati assai più potenti. La scena più forte, oltretutto, non è quella finale, ma semmai la prima, quando Hester, sul patibolo, sfida fieramente tutta la comunità, vestita ma come se fosse nuda, più grande di tutti quelli che la giudicano, e soprattutto del suo meschinissimo amante, che tace per vergogna la sua colpa, finendo per esserne consumato fin nelle carni (ogni tanto risorge in lei quel guizzo iconoclasta e sembra aprirsi allora uno spiraglio di vitalità, che però si richiude subito nella morale che lei stessa si fa da sola). Insomma, si cala subito l'asso e si gioca di rimessa.

E poi ci sono delle cose che proprio non riesco a sopportare. Ora, metto subito le mani avanti e dico che potrebbero entrare in gioco delle mere idiosincrasie personali e pure una traduzione che forse è un po' datata e potrebbe non rendere bene il testo originale (il che vale dunque anche per quel che ho detto sopra). Però se c'è una cosa che non perdono a un autore è quando insiste ripetutamente sullo stesso punto. Una strizzatina d'occhio al lettore ci sta, l'ammiccamento passi, ma quando è un continuo sgomitare per richiamare l'attenzione su un certo punto non l'accetto più. E non mi riferisco all'insistenza sul peccato dei protagonisti, perché quello in fondo è funzionale a restituire un certo tipo di clima, e mi sta bene. Ho in mente aspetti a prima vista un po' secondari, ma che a mio giudizio decidono della statura di chi scrive. Tanto per dire, ho perso il conto di quante volte nel racconto ci si riferisce alla figlia della protagonista, Pearl, come a un folletto, per sottolineare la sua natura un po' furfantesca e sbarazzina, ma anche la sua origine misteriosa di figlia del peccato e dunque forse anche un po' del demonio stesso. Bene, è uno spunto che si può sfruttare, piuttosto accattivante, anzi, in una storia che fa del contrasto tra ciò che si vede, ciò che non si vede e ciò che forse si è visto o forse si è solo immaginato il suo vero e proprio tema portante. Quasi la puoi percepire, questa bimba, mentre gioca nel bosco come se fosse una piccola driade pronta a sparire per sempre nella foresta ancora vergine che incombe sulla colonia come un oceano verde e minaccioso, ma al tempo stesso come una promessa inaudita, da cui puoi essere inghiottito o liberato (è nella foresta che, per un momento, Hester si toglie la cuffia che le avvolge i capelli e torna donna). Basterebbero pochi tocchi per volta, una sfumatura qua, un'occasione là e uno scrittore potrebbe infine trasmettere al lettore esattamente l'idea che aveva in mente (poniamo, quella di folletto) senza mai usare nemmeno una volta questa parola. Qui invece le cose vanno esattamente all'opposto, perché Hawthorne ti martella a tal punto con quel termine, finché l'ossessione diventa pura e semplice petulanza e la petulanza finisce per rovinare l'arte. Ma come? - mi si dirà. Si può decidere della bontà di un libro da un'osservazione del genere? Secondo me sì. Quando lo stesso concetto me lo infiocchetti ogni quattro pagine la sensazione che provo è che stai cercando un po' di menarmi per il naso perché ti mancano le idee.

E allora ti viene in mente un cattivo pensiero. Ma il buon Nathanael aveva proprio bisogno di immaginarsi lo scartafaccio di una storia ambientata due secoli prima e impegolarsi in un racconto di questo tipo? Non poteva invece dar fondo a quell'irrefrenabile impulso a dire "io" che tracima da ogni pagina dell'opera e portare a compimento quel bozzetto che occupa tutto il primo capitolo e che a prima vista c'entra ben poco con quello che segue? In una manciata di pagine (ecco, se vogliamo è questa la sorpresa del libro), Hawthorne descrive la vita, quasi immobile, che gira intorno alla dogana di Salem, intorno al 1850, quando lui stesso vi era impiegato, classico travet col romanzo della vita nel cassetto. Con pochi tratti butta giù lo schizzo di una serie di personaggi che svaniscono appena evocati, ma di cui senti che ti sarebbe piaciuto sapere di più, e infila un serie di considerazioni che lì per lì sembrano non andare a parare da nessuna parte (insomma, il libro l'avrei preso per leggere un'altra storia), ma che contengono un nucleo di verità certo non meno genuino, anche se più modesto (o forse proprio per questo), di quello affidato al racconto successivo. Fra cui un'idea bellissima, seppur malinconica, quella che lo spinge a pensare al suo nome che circola per il mondo non attraverso il frontespizio di libri che avrebbero letto solo in quattro o cinque suoi amici nel Maine, ma tramite i timbri che appone alle merci, sulle quali può arrivare in luoghi esotici che le sue eventuali opere non avrebbero mai e poi mai raggiunto. Lo stesso Hawthorne forse il problema se lo pone quando dice: «quanto più saggio sarei stato, se mi fossi industriato a illuminare con la fantasia la mia fatica di ogni giorno, a darle una trasparenza, a spiritualizzare il fardello che già cominciava a pesarmi, e esprimere infine un valore universale delle contingenze, anche volgari, della vita che conducevo e della realtà umana che mi offrivano gli squallidi compagni della mia giornata! Colpa mia del resto, se non ho saputo scrivere quel libro, molto più bello di quanti potrò mai immaginare: che s’apriva sotto i miei occhi, come scritto dalla realtà stessa, e subito svaniva per la mia inettitudine a tradurlo in opera d’arte. Ma chi sa che un giorno io non ritorni su questo proposito...». Che io sappia non c'è mai ritornato. Peccato. Però il senso di un libro lo decide anche la sua storia degli effetti. E se è un po' vero il principio da cui sono partito, Hawthorne ha avuto assolutamente ragione a fare la scelta che ha fatto, checché ne possa pensare io. 

(finito il 16 giugno 2016)

Il libro che viene dopo. Occupandomi un po' di Hawthorne ho scoperto che è stato in contatto con il gruppo di utopisti di Brook Farm, una comunità di ispirazione trascendentalista che per qualche anno provò a dare vita a una società alternativa a pochi chilometri da Boston (non molto distante da dove, in quello stesso periodo, Thoreau conduceva la sua vita solitaria nei boschi). Di quell'esperienza ha fornito una trasposizione romanzesca in un libro intitolato Il romanzo di Valgioiosa, che ho visto essere stato pubblicato proprio quest'anno da Castelvecchi. Qualche venatura utopica si può trovare anche nella Lettera scarlatta, specie nelle fantasticherie solitarie di Hester che arriva ogni tanto a chiedersi se non sia il caso di sovvertire l'intero ordine sociale e costruirne uno nuovo sulle sue rovine, con cui trasformare alla radice la natura stessa degli uomini. C'è come una scintilla di utopia femminista, subito spenta.

Una pagina

A Salem infatti i primi inglesi che portavano il mio nome immigrarono duecentoventicinque anni fa, quando la colonia era ancora selvaggia, sparsa per la foresta dove è sorta la città attuale. Quivi tutti i loro discendenti nacquero e morirono, mescolando alla terra la loro sostanza umana; tanto che ormai deve esserci una certa parentela tra la zolla e questa mia mortale carcassa che la calpesta, e forse al fondo dell’attaccamento di cui vi ho parlato non è se non la misteriosa simpatia della polvere per la polvere. (...) Una così lunga e ininterrotta relazione tra una stirpe e una terra crea tra queste una speciale affinità, una simpatia da non attribuirsi alla bellezza del luogo e del paesaggio né ad alcuna ragione di ordine morale. Non è amore, è istinto. L’abitante nuovo, venuto da altre contrade o figlio di parenti immigrati, ha poco diritto di chiamersi salemita. Egli non può avere la più lontana idea di come s’attacca al suolo nativo un vecchio colono, la cui razza già da tre secoli vi sia saldamente abbarbicata: attaccamento di ostrica allo scoglio. Non importa che il luogo sia per lui avaro di gioie: che egli sia stanco delle vecchie case di legno, della polvere e del fango, della monotonia dei giorni e dei sentimenti, del freddo vento dell’ovest e dell’ancor più fredda atmosfera sociale: difetti questi senza importanza. Il fascino permane ed è tanto che la terra nativa pare una terra d’incanto, un paradiso terrestre.

Ho parlato di

Nathaniel Hawthorne
La lettera scarlatta
(Mondolibri 2012)

Trad. di F. M. Martini

212 pp. | 5,90 €

(ed. or.: The Scarlet Letter, 1850)