Per un po’ a questo gioco ho partecipato anch’io, per cui ne parlo con cognizione di causa. Facili le regole base: si prende un outsider della filosofia (ai tempi, il mio cavallo di battaglia preferito fu Francisco Sanchez, che come carneade funziona doppiamente bene, essendo stato scettico anche lui – ma di analoghi derelitti abbandonati negli orfanotrofi della storiografia ne ho adottati anche altri, in occasioni diverse) e gli si dedica un saggio, un contributo, un minuto in una conferenza per dire che dopotutto le interpretazioni fin lì offerte sul suo conto, ancorché legittime, sono leggermente sfocate o limitate o del tutto fuorvianti e che è venuto finalmente il momento di riconoscere a costui il giusto posto che gli spetta nella storia del pensiero, che di solito si rivela essere quello di aver fatto da imprescindibile nodo di collegamento (o “cinghia di trasmissione”, come credo di aver detto il giorno della mia laurea) tra qualche altra quinta o sesta linea di rincalzo dell’avanguardia intellettuale dell’umanità. In questo modo, senza arrischiarsi in un pericolosissimo confronto diretto con i pesi massimi, dal quale si uscirebbe inevitabilmente con le ossa rotte, si può sperare di innescare il sollevamento dell’olimpico sopracciglio di qualche nume accademico e guadagnare nientepopodimenoche l’ambitissimo riconoscimento di “pionieristico” al proprio studio. Si capisce allora perché ho provato immediata simpatia verso Giuliano Mori, che a occhio e croce è più giovane di me, ma ha già fatto più carriera di quanta ne abbia mai fatta io, quando ho constatato nel suo libro l’allineamento di tutti questi segni applicati al caso di un minore emerito come Athanasius Kircher, uno al quale persino la letteratura popolare ormai riserva la sua irrisione in quanto prototipo del sapiente ottuso, di quelli – cioè – che conoscono già le cose prima di averle viste e negano pure l’evidenza se questa non si conforma al loro pregiudizio. Lo dico davvero senza ironia, se non quella che ricade anche sul sottoscritto: noi sottospecie di umanisti intenti a studiare cose bellissime, ma non immediatamente spendibili in società, siamo costretti a raccontarcela un po’ per cercare di dimostrare che quel che facciamo effettivamente un senso ce l’ha, anche se interessa giusto quattro altri dissociati come noi sparsi su tutta la Terra – e tanto più ne abbiamo bisogno, per farci coraggio, quando ci addentriamo per la prima volta, con tutta la circospezione del caso, nelle sconfinate praterie della ricerca, dove ad ogni passo rischi di cadere in trappola e diventare pasto per gli affamati avvoltoi appostati sulle guglie del Parnaso. Ma una volta pagato questo modesto dazio alla retorica automotivante, che piacere concedersi il lusso di curiosare, per il puro gusto di farlo, un testo che, a rigor di logica, non avrebbe invece nessun senso leggere, se non per postillare con l’ennesima nota una tesi di dottorato.
Ora, di tutte le cose di cui si è occupato Kircher – e sono veramente tante: all’epoca, piaccia o no, passava per uno che sapeva davvero tutto – qui il focus cade sull’egittologia, e in particolare sulla sua convinzione di aver finalmente individuato un metodo per portare alla luce, dopo millenni, l’autentico significato dei geroglifici, con il loro contenuto di verità riposte ai non iniziati. Pazienza se tale opera di decodificazione si basi su un doppio errore di fondo, concettuale (il considerare, cioè, il geroglifico come un linguaggio simbolico e non fonetico) e materiale (l’impiego, come chiave per la traduzione, non già della Stele di Rosetta, ancora sepolta sotto le sabbie, ma della Tabula Bembina o Mensa Isiaca, manufatto bronzeo che con ogni probabilità non era neppure egizio, bensì una copia romana di età imperiale, le cui iscrizioni simulavano dunque solo l’estetica dei geroglifici senza esserlo davvero), perché ben più importante è il presupposto soggiacente a questo lavoro, ovvero la ripresa di un vecchio tema apologetico adattato però ai nuovi scenari della propaganda fide seicentesca e sorprendentemente valido, depurato di tutte le sue pesantezze antiquarie, e pur con tutto il suo carico di problematicità, anche per la moderna teologia delle religioni. Al fondo del progetto kircheriano sta infatti l’idea di una rivelazione implicita condivisa da tutti i figli di Adamo e dunque presente in nuce in tutte le culture della Terra, anche se andata incontro a un processo di progressivo oblio dei propri principi originari e dunque a una sorta di snaturamento, quando, smarrito il suo senso profondo, si è cominciato a venerarne il mero rivestimento, proprio come accaduto, appunto, con i geroglifici – poco più che stilizzati disegnini per chi non è in grado di penetrarne il mistero – e soprattutto con le diverse divinità dei pantheon pagani, divenute distinti oggetti d’adorazione anziché manifestazioni, o avatar, dell’unico Dio, come invece dovrebbero essere considerate.
«Tutte le culture, tutte le lingue e tutte le religioni si possono ricondurre a un’unica origine divina, che deve essere riscoperta e restaurata», ragion per cui compito specifico della Chiesa sarà quello di inviare «i suoi missionari non a convertire, ma a richiamare i popoli idolatri all’originale conoscenza del vero Dio che essi avevano dimenticato», ovvero «a liberare quei nuclei di spiritualità delle impurità idolatriche e riportarli alla loro pratica più corretta». Da buon gesuita seicentesco, Kircher, quando pensa all’Egitto e ai suoi dei ha infatti soprattutto in mente Confucio e quella Cina in cui i suoi confratelli euclidei si vestivano come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming. E forse ha ancora più in mente le chiese protestanti, che, scavando un solco invalicabile tra ciò che sta prima e ciò che sta dopo Cristo, ciò che sta sotto la Grazia e ciò che resta irrimediabilmente al di fuori di essa, avrebbero smarrito la dimensione propriamente “cattolica” salvaguardata invece dalla Chiesa romana, con la sua volontà (almeno ideale) di abbracciare e accogliere all’interno del colonnato di San Pietro tutti i popoli, affratellati dalla comune paternità di Dio. Di questa comune radice gli Egizi sarebbero stati i più consapevoli fra i gentili, assai più di quanto lo fossero gli stessi greci, se non altro per l’antichità della loro cultura, la cui origine è da Kircher stesso fissata all’anno 1984 dopo il diluvio, ovvero al tempo della prima dispersione delle stirpi avvenuta in quel di Babele. All’epoca la sapienza adamitica era ancora patrimonio diffuso e poté così condensarsi in dottrine coltivate per secoli all’ombra delle piramidi, finché, smarritone il senso, il Verbo stesso si è incarnato per restaurarne e restituircene l’autentico significato, che per Kircher coincide sostanzialmente con una concezione quadripartita della realtà, convergente però verso un unico punto centrale, come rappresentato plasticamente da quell’altro manufatto tipicamente egizio, l’obelisco, le cui quattro facce piegano infatti tutte verso un medesimo vertice. Il disegno può apparire non del tutto innocente e tradire un impulso assimilazionista, ma al tempo stesso offre anche una base per provare a impostare un’opera di dialogo interculturale finalizzato a far emergere in ogni cultura il vero e il buono che, seppur detto con espressioni differenti, rivela l’umano comune fatto a immagine di un Dio sempre più grande di qualsiasi formula entro cui lo si voglia intrappolare. La tesi «secondo cui l’unità non esclude la molteplicità e la molteplicità non impedisce l’unità» costituisce infatti per Kircher «il più dolce frutto della sapientia degli antichi» e permette di «conoscere la molteplicità delle forme che Dio può assumere, le quali tuttavia sono congiunte in una stretta unità e insieme compongono l’immagine della divinità». Altro che mero divertimento erudito, siamo addirittura dalle parti di Von Balthasar. E anche se non sarà più un gesuita come loro, in pratica è anche un pezzo dell’agenda del prossimo papa.
(finito il 12 giugno 2022)
Ho parlato di
I geroglifici e la croce.
Athanasius Kircher tra Egitto e Roma
(Scuola Normale Superiore 2016)
175 pp. | 9,50 €
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