domenica 26 luglio 2020

Ragtime

Devo la conoscenza di questo libro e del suo autore (di cui, prima di allora, non sapevo neanche l’esistenza) alla puntuale citazione di un suo brano ripresa dal paleontologo Stephen Jay Gould per introdurre uno dei saggi contenuti ne Il pollice del panda, dedicato al legame tra la diversa percezione del tempo da parte delle varie specie viventi e la diversa velocità dei loro rispettivi ritmi metabolici – ed è stato proprio questo impiego inconsueto ad aver attivato immediatamente i miei sensori interdisciplinari, suscitando un’irrefrenabile curiosità di approfondire la questione. Quando mi ci sono imbattuto, tre anni fa, non avevo idea che nel 1981 Milos Forman, non uno qualunque, avesse ricavato un film da quest’opera, con un debuttante Howard Rollins (il futuro ispettore Tibbs della serie tv) in un ruolo-chiave. E soprattutto non avevo idea che nel 2010 i critici di Time l’avessero inserita fra i cento migliori romanzi scritti in lingua inglese dopo il 1923 (anno di fondazione della rivista), né tanto meno che nel 2013 Doctorow avesse ricevuto la Medal Gold dell’American Academy of Arts and Letters, riconoscimento concesso finora a pochi grandissimi (Updike, Roth, Singer e una quindicina d’altri a partire dal 1915). Questo un po’ mi inquieta e un po’ mi tranquillizza: dimostra ancora una volta che ci sono più cose in cielo e in terra di quante pretende di contenerne la mia testa da saputello, ma soprattutto che, con tutto questo ben di Dio là fuori, nelle terre incognite della letteratura, ci è concesso il privilegio di invecchiare serenamente, sapendo che fino all’ultimo si possono continuare a fare insospettate scoperte, come se si fosse ancora adolescenti. 

Detto questo, a parte la citazione galeotta, questo libro in realtà non si occupa in senso stretto di scienza, e se qua e là lo fa è solo perché ciò concorre ad arricchire il mirabolante affresco della società americana di inizio ‘900 che costituisce il vero motivo ispiratore di tutto il racconto. "Ragtime" è appunto la chiave presa a prestito dalla musica per definire quest’epoca cronologicamente compresa grosso modo tra il 1906 e il 1914, ma anche, in un certo senso, la cifra stilistica adottata da una narrazione incalzante, in cui non è possibile indugiare su una situazione, perché subito se ne presenta un’altra, con un ritmo vorticoso che riproduce efficacemente il brulicante movimento di uomini e attività caratteristico di quegli anni. Con piglio direi quasi ariostesco, la trama segue il filo degli incontri, più o meno casuali, che legano gli uni agli altri i diversi personaggi (alcuni immaginari, altri no: tra questi ultimi Houdini, Freud, Henry Ford, Emma Goldman e altre figure forse più note a un americano che a un europeo), tanto che si fa fatica a capire esattamente chi possa esserne considerato il vero protagonista (l’unico che, forse, in un modo o nell’altro, è in relazione con tutti gli altri è significativamente un personaggio senza nome: segno che ciò che davvero conta, qui, è l’insieme, più che i singoli interpreti, esattamente come una sola nota non basta a riprodurre una melodia). 

Poi, sì, certo, il titolo ti fa pensare a Scott Joplin, la copertina ti propone un elegantissimo nero dallo sguardo intenso e corrucciato, dunque è ragionevole aspettarsi che qualcosa abbia a che fare anche con quel mondo lì, ed effettivamente è così, e con una funzione tutt’altro che secondaria, anche se questo filone emerge pienamente solo nella seconda metà dell’opera e non la esaurisce tutta. Vale la pena, però, di rileggere con attenzione questo episodio, perché – sebbene il libro sia uscito nel 1975 – ci può aiutare a capire meglio quel che è successo in America dopo la morte di George Floyd. Coalhouse Walker Jr è un pianista professionista di jazz, il cui portamento impeccabile e sussiegoso suscita l’impressione sgradevole che non sappia stare al suo posto, come se «non sapesse di essere un negro». Sin dal modo di vestirsi, «tutto il suo essere era in opposizione a certi sentimenti» - finché questa tensione latente esplode il giorno in cui si trova a passare con la sua nuovissima Ford T davanti alla caserma dei pompieri volontari della cittadina di New Rochelle, a due passi da New York. Persone perbene, queste ultime, che spendono il loro tempo libero a favore della comunità di cui fanno parte, ma che proprio non riescono a sopportare l’idea che un damerino negro ostenti loro in faccia un segno della sua acquisita ricchezza. Per questo gli giocano un brutto tiro che avrà poi conseguenze dirompenti sullo sviluppo della vicenda e intorno a cui si scatenerà un vivace dibattito nel corso del quale anche le menti più progressiste non mancheranno di condividere le loro pelose morali (della serie, “se l’è andata a cercare”, “a noi il negro piace, basta che abbia l’aspetto povero e derelitto” e così via). 

L’aspetto forse più affascinante dell’opera è che, tuttavia, nessuna di queste voci prende mai il sopravvento sulle altre. Il variopinto arazzo cucito insieme da Doctorow ci immerge nel cuore delle contraddizioni di un paese in prorompente crescita, animato da una vitalità apparentemente inesauribile e dalla percezione di stare travasando lungo le sue rotte ferroviarie tutto il meglio che la civiltà occidentale, ormai sfinitasi in Europa, aveva ancora da offrire – e al tempo stesso, però, percorso da fortissime tensioni interne e da serpeggianti malesseri, nonché esposto al rischio continuo che quell’eredità importata dal Vecchio Mondo sprofondi semplicemente nel più patetico kitsch («il caos di una civiltà europea giunta all’ultima degenerazione»: così lo descrive Freud, dopo una visita a Coney Island. «L’America è uno sbaglio, uno sbaglio gigantesco», dice – e se non l’avete mai letto leggetevi il fumetto di Larcenet che racconta a modo suo questa stessa storia). 

Al vertice della nuova scala sociale troviamo il banchiere JP Morgan, di cui ci viene offerto un ritratto memorabile, in cui è prefigurato l’attuale ordine mondiale: «Pierpont Morgan era il classico eroe americano, un uomo nato per l’estrema ricchezza che a forza di duro lavoro e di spietatezza moltiplica il patrimonio di famiglia, finché assume proporzioni incommensurabili. (…) Era un monarca dell’invisibile, sovranazionale regno del capitale e la sua sovranità era riconosciuta ovunque. In possesso di ricchezze a paragone delle quali le fortune reali apparivano trascurabili, era un rivoluzionario che lasciava ai presidenti e ai re il loro territorio, mentre lui prendeva il controllo delle loro ferrovie, delle loro linee marittime, delle loro banche, delle società di assicurazione, degli impianti industriali e dei pubblici servizi». Convintosi dell’esistenza di «una sacra tribù di eroi, una colonia che discende dagli dei, che viene regolarmente generata in ogni epoca per aiutare l’umanità», e di cui ovviamente egli stesso fa parte, colleziona di frodo reperti di ogni epoca storica, a partire da quell’Egitto dei faraoni che sta al centro del suo personale immaginario, con i suoi miti di immortalità. All’altro capo, l’immigrato ebreo socialista a cui è rimasta solo una figlia da proteggere e che però, dopo varie disavventure, ridotto infine sul lastrico, «mise la prua della sua vita in direzione della corrente dell’energia americana. Gli operai scioperavano e morivano, ma per le strade delle città un intraprendente poteva mettersi a friggere patate dolci su un secchio pieno di carboni accesi e venderli per un penny o due». L’America, infatti, è una cosa e l’altra, la terra delle mille opportunità e quella in cui i poveri sono presi per la gola, quella in cui si può ricominciare da capo e quella dove tutto è buttato in vacca, luogo di strazianti ingiustizie e però anche di inedite ricombinazioni che sprigionano nuove speranze, perché – come osserva una delle tante voci narranti - «gli era evidente che il mondo si componeva e si ricomponeva continuamente, per un eterno stato d’insoddisfazione», insofferente alle rigide schematizzazioni di chi prova in ogni modo a chiudere il cerchio. E allora, forse, a ripensarci bene, questo romanzo “scientifico” lo può essere considerato davvero, in un certo senso, in quanto, rifiutando di appiattire su un’unica spiegazione il corso degli eventi, prova a rendere conto, in forma narrativa, di quella cosa strana e non sempre facile da gestire che è la complessità.

(finito l'11 ottobre 2019)

Ho parlato di



E. L. Doctorow
Ragtime
(Mondadori, 2015)

Trad. di B. Fonzi

260 pp. | 13 €

(ed. or.: Ragtime, 1975)

domenica 12 luglio 2020

Giulio

Metti che sei un intellettuale di spessore, uno di quelli la cui parola pesa e fa notizia, perché ti sei costruito una solida credibilità con la tua opera e sei già considerato un classico ancora in vita. Metti però che sei anche uno sradicato che per continuare quell’opera ha bisogno di appoggi, entrature, amicizie, in un’epoca in cui i nervi di tutti sono a fior di pelle e basta un minimo passo falso per rovinarsi la carriera. Metti che, ciò nonostante, sei comunque uno spirito sbarazzino e non disdegni di esercitare la tua vastissima cultura per produrre satire e calembour su questioni di attualità che poi ti diverti a condividere nelle chat private con gli amici più stretti, ai quali sai che strapperai in questo modo una risata liberatoria con cui attenuare momentaneamente la comune preoccupazione per come stanno andando le cose nel mondo. Metti, infine, che tu consideri questi giochi come una silenzioza strizzatina d’occhio rivolta a persone capaci di coglierne il senso, ben consapevole che la vita poi richiede continui accomodamenti, il discorso pubblico tutt’altro contegno, non per ipocrisia, ma perché le parole sono strumenti potenzialmente pericolosi e vanno usate per ricucire anziché per lacerare le coscienze esasperando i toni. Posto tutto questo, fai conto che a un certo punto irrompa sulla scena un predicatore che invece non accetta più compromessi e grida sui tetti quello che tu spifferavi di nascosto ai tuoi sodali, senza neanche la copertura dell’arguzia dotta, ma dicendo pane al pane, e che fra i tuoi contatti, fra quelli che ti venerano come maestro e avevano accesso alle tue confidenze personali, qualcuno lo segua, si entusiasmi e, non pago, ti tiri per la giacchetta affinché anche tu prenda più decisamente posizione, perché finalmente si prova a fare quello che tutti avevate sempre sperato - e che quando invece tu tergiversi, inviti alla moderazione, a non perdere la testa, con un po’ di delusione alcuni di loro comincino a lanciare sinistre allusioni: ma come, proprio tu, proprio tu che scrivevi….? 

Eccolo, abbozzato a grandi linee, il dramma vissuto da Erasmo da Rotterdam dopo il 1517, l’anno di Lutero e delle tesi di Wittenberg, ma anche l’anno in cui uscì in prima edizione dai torchi di Magonza un libriccino destinato a conoscere, negli anni successivi, una marea di ristampe e di copie pirata, spesso in versioni economiche idonee a una circolazione semiclandestina – e che a Erasmo costerà più di un mal di pancia. A cosa si deve tanto trambusto? Al fatto che si tratta di un dialogo lucianesco in cui si racconta di come papa Giulio II, morto da poco, si presenti alle porte del paradiso alla testa di un codazzo di nerboruti mercenari a cui aveva promesso ricompense eterne in cambio dei servizi di bassa macelleria svolti in suo nome nelle numerose guerre bandite in vita, e di come questi scopra suo malgrado che nel suo mazzo le chiavi giuste per far girare la serratura non ci siano, nonostante tutto ciò che era stato affermato dalla retorica pontificia e dalle decretali sul tema. Peggio ancora, richiamato da tutto quel baccano (immaginatevi l’aspirante vip bloccato all’ingresso del Billionaire: “ma insomma! Fatemi entrare! Che figura che mi fate fare! Voi non sapete chi sono io!”), sarà poi Pietro in persona a negare l’accesso al suo sedicente vicario, che mostra di non conoscere e nel quale soprattutto non vede nessuna delle caratteristiche che un suo successore avrebbe dovuto possedere per essere degno di tale carica. Giulio parla infatti una lingua completamente diversa da quella del pescatore di Galilea (non per nulla ha attinto il suo nome dalla storia pagana, anziché dal martirologio romano), e a lui si rivolge senza alcuna deferenza, ma col piglio sprezzante di chi, dall’alto del suo prestigio, è costretto a perdere tempo con un pitocco. “Eravate quattro straccioni – gli dice suppergiù – senz’arte né parte, chiusi nelle vostre catacombe, mentre io ho trasformato la Chiesa una potenza mondiale, l’ho resa bella richiamando frotte di artisti a palazzo, ho fatto sì che tutti temano un pronunciamento del papa e tremino al suo cospetto: ora sì che essa conta davvero qualcosa, non come ai vostri tempi, quando eravate perseguitati da tutti!”. Ritratto indubbiamente fazioso, ma non privo di una sua sinistra grandezza e che forse lo stesso Giulio, paradossalmente, avrebbe apprezzato, perché non si nascondono affatto le sue conquiste terrene - le uniche, probabilmente, che gli interessassero davvero (“ma se togli tutta la gloria mondana – dice quasi sgomento a un certo punto – che cosa resta?”). 

Il gioco, qui, non sta tanto nel denunciare le meschinità dell’uomo, quanto l’incongruenza tra l’originario mandato apostolico e l’istituzione che ne è derivata. Giulio è stato un politico abile e spregiudicato, un condottiero a suo modo geniale, capace quant’altri mai di manipolare nemici e alleati come fossero marionette, un vero “principe” nel senso che andava teorizzando in queglli anni Machiavelli, ma che ci azzecca tutto questo col Vangelo? Quando rivendica di aver “ingrandito il patrimonio di Pietro”, quest’ultimo gli risponde, basito: “ma quale patrimonio? Se siamo stati inviati da nostro Signore senza bastone né bisaccia! Ma di che cosa ti parlavano i tuoi predicatori?”. “Mi esaltavano paragonandomi a Giove assiso in cielo”, replica l’altro compiaciuto (tutto vero, tra l’altro, documentato nella predica del venerdì santo nell’anno 1509). Più volte Giulio se ne esce confessando candidamente che in effetti è la prima volta che gli capita di ascoltare i passi evangelici richiamati da Pietro (“e questa cosa qui da dove l’hai tirata fuori? Mai sentita”). La Chiesa che ha in mente è infatti un organismo del tutto terreno, in cui i simboli cristiani si sono semplicemente sovrapposti alle precedenti insegne pagane (esattamente come lui, sotto la tonaca, indossa l’armatura). É la stessa Chiesa che piace tanto agli atei devoti, perché usa il loro medesimo linguaggio - non laico, ma mondano - e riconosce le loro medesime regole: qualcuno con cui trattare per spartirsi il potere, non una voce profetica e libera da cui farsi provocare – quella lasciamola alle anime belle, agli ingenui, ai poveri Franceschi che ci credono per davvero. 

Insomma, voi capite, ce n’è abbastanza per cacciarsi in grossi guai e comprensibilmente il testo apparve anonimo. Per la verità, il frontespizio delle primissime edizioni riportava una sigla che avrebbe dovuto depistare le tracce, ma nessuno abboccò all’amo. Si aprì invece una vera e propria caccia (letteraria) all’uomo, a cui lo stesso Erasmo partecipò con le sue argomentate congetture sul sedicente autore. Oggi, però, siamo pressoché certi che quell’autore fosse lui – e la vicenda che c’è dietro il suo scritto, mirabilmente ricostruita da Silvana Seidel Menchi nell’introduzione al volume, è un capitolo di storia intellettuale europea che merita davvero di essere conosciuto e che costituisce un vero e proprio libro nel libro, non meno stimolante di quello che ne è all’origine. Nato come una mezza boutade fra amici, messo in circolazione per condividere un sentimento di opposizione altrimenti soffocato, più o meno come si fa oggi quando si inoltra un meme un po’ audace, a un certo punto quel dialogo sfugge al controllo di chi l’ha scritto e finisce in piazza proprio mentre gli eventi subiscono una violentissima accelerazione diventando così un potente manifesto politico-religioso. Erasmo passerà tutto il resto della sua vita a negarne pubblicamente la paternità e le lettere scambiate con i vecchi amici ora passati al campo luterano hanno il tono di certi confronti fra ex sessantottini che hanno fatto le occupazioni insieme e si sono ritrovati, negli anni ‘90, a votare gli uni per Prodi e gli altri per Berlusconi. Con la letteratura umanistica si può provare abbastanza spesso una sensazione di scipitezza al primo assaggio, proprio perché non è facile cogliere la fitta trama di relazioni che innerva i suoi molteplici sottotesti e decodificare tutti i suoi mascheramenti. Qui è già un po’ più semplice del solito, ma la mediazione della curatrice ti apre davvero mondi interi. Ed Erasmo stesso ne esce un po’ meno imbolsito e un po’ più spumeggiante di quanto ti fosse mai apparso finora.

(finito il 10 ottobre 2019)

Ho parlato di


Erasmo da Rotterdam
Giulio
(Einaudi, 2014)

a cura di Silvana Seidel Menchi

CXLII-172 pp. | 28 €