lunedì 23 marzo 2020

Sindrome 1933

A tutto quello che sto per dire andrebbe anteposto l’equivalente della scritta che per tardivo senso del pudore è stata posta in sovrimpressione a molti programmi televisivi attualmente in onda – e cioè che questo libro è stato scritto e letto prima dei DPCM sul coronavirus. Non troppo, ma quanto basta per farlo sembrare, a prima vista, di un’altra epoca: pubblicato poco meno di un anno fa (c’era già Conte in carica, ma con la casacca gialloverde), comprato a maggio mentre cercavo in realtà un altro testo (questo qui, per i più curiosi) e aperto poi con più di un brivido lungo la schiena grosso modo negli stessi giorni in cui un ministro invasato teneva conferenze stampa sulla spiaggia e invocava pieni poteri ingollandosi di Mojito sotto il sole (sotto il sole) di Riccione. La sindrome richiamata dal titolo non ha perciò nulla a che fare con il covid-19, ma con una condizione patologica di altro genere, di cui le smargiassate del Papeete potevano sembrare, in quel momento, uno dei sintomi più appariscenti, coerenti peraltro con casi clinici simili già conosciuti in passato. Nel 1933, per esempio – di cui evidentemente in queste pagine si parla. 

“Eccolo lì”, mi si fermerà subito, sbuffando e sbracciando (perlomeno se si ha un’idea di cosa sia successo nel 1933), “l’ennesimo sproloquio di chi non ha niente di meglio da fare che dare del fascista o del nazista a Salvini”. In realtà le cose sono forse un pelo più complesse, ma ci arrivo. Però, sì, certo, questo è un libro dichiaratamente fazioso, che «tra i fatti e gli argomenti privilegia quanto può richiamare al lettore vicende, cronache e polemiche della nostra attualità. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente intenzionale». L’idea nasce proprio da un vago senso di déjà vu che, alla prova dei fatti, ossia andandosi a scartabellare le cronache del tempo, anziché svanire – perché in realtà “erano altri tempi, era tutta un’altra storia” –, si è invece consolidato, nel senso che, a cercarle, le somiglianze si sono moltiplicate, estendendosi a campi a cui magari non si era mai prestata particolare attenzione (come, che so?, titoli e toni della stampa di Weimar, ossessionata dalla vivisezione delle storie truculente in modo non troppo diverso dai nostri contemporanei talk-show). É chiaro, se hai uno schema in testa, finirai per vederlo ovunque: è l’assioma di partenza di ogni teoria del complotto - e come metodologia non è consigliabile. Ginzberg mi pare se ne renda conto e, pur ammiccando continuamente al lettore, ogni tanto forse pure un po’ troppo, al tempo stesso evita però di trarre la facile conclusione che la storia si starebbe ripetendo tal quale. «Che sia andata una volta in circostanze simili, in quel modo, non significa che debba andare allo stesso modo». Infatti, «incrociando le dita, potrebbe andare anche peggio». 

Questo perché, a soffermarsi solo sui sintomi, si rischia di perdere di vista le loro cause. Ginzberg insiste molto sul concetto di “analogia” (e cita a proposito il meraviglioso Superfici ed essenze, su cui ho speso due parole quando riuscivo ancora a condensare le mie recensioni in dieci righe), ma soprattutto ricorre, in parte consapevolmente, in parte forse no, a un armamentario teorico che affonda le sue radici nella storia dell’epistemologia medica, ossia in ciò di cui mi sono occupato nella mia tesi di dottorato. Scusate la divagazione autobiografica, ma ritrovare in filigrana quello su cui ho sgobbato per tre anni della mia vita perdendomi dietro alle riflessioni di oscuri pensatori della prima età moderna mi ha fatto un certo effetto e mi ha anche fatto capire una volta di più quanti orizzonti avrebbe potuto aprirmi quella ricerca se non fossi stato, per certi aspetti, così ottusamente pedante e cauto nella scrittura (ricordo lo splendido consiglio di una carissima professoressa, che riprendeva a sua volta quanto le aveva detto il suo maestro: “e lo scriva, signorina, lo scriva!”, non stia lì a cincischiare con giri di parole e allusioni per pochi iniziati. Non l’ho fatto - peccati di gioventù – e quella tesi è giustamente diventata un mattone). “Analogia” – dicevamo – è una formula elastica, imperfetta, che consente di non cadere nella trappola dell’identico, da cui la preda in realtà esce più facilmente del predatore (“fascisti? Vedete forse dei manganelli, l’olio di ricino, il confino? Su, dai, non scherziamo”). Proverei a dirla così: rischia di essere fuorviante gridare al fascista di fronte a chi ce li ricorda oggi, perché il fascismo, quel fascismo, molto probabilmente non ritornerà più; ma l’humus su cui è attecchito, quello è di nuovo lì, o è ancora lì, è sempre stato lì, e può produrre piante magari di una specie differente, ma di genere non troppo diverso (perché, appunto, il terreno è quello). E allora anziché etichettare i populisti odierni come dei fascisti redivivi ci aiuterebbe forse di più riconoscere che il fascismo potrebbe essere stata solo una delle varie configurazioni che il populismo è stato capace di assumere, nessuna delle quali è pienamente sovrapponibile all’altra, pur presentando ciascuna, appunto, delle analogie l’una con l’altra. Cambiano cioè mitologie, ritualità, simboli, cambiano riferimenti e modelli (tutta acqua al mulino di chi vuole sottolineare la distanza fra i diversi fenomeni), ma il propulsore più o meno resta sempre quello. «Mi preoccupa – dice Ginzberg – una specie di coazione a ripetere involontaria, il riaffacciarsi di dinamiche, meccanismi che avevano portato al disastro la Germania di Weimar, e con lei l’intera Europa. Temo il presente che imita il passato inconsapevolmente, senza volerlo, magari anche senza accorgersene. Ecco perché sono andato in cerca di analogie. Non come strumento di polemica o propaganda, ma come strumento di comprensione». 

E quali sono queste dinamiche? C’è l’imbarazzo della scelta. Possono essere, appunto, gli strilli dei quotidiani tedeschi pronti a sbattere il mostro in prima pagina, il sordo rancore provato da chi non si sente più rappresentato dalle istituzioni e vota per chi gli promette semplicemente qualcosa di nuovo, “il cambiamento”, oppure l’enfasi con cui «su tutto si aggiunge un pizzico di popolo» - festa del popolo, membro del popolo, compagno del popolo, cancelliere del popolo, macchina del popolo – dove però il popolo è definito «principalmente per esclusione di chi non fa parte del popolo», siano gli ebrei o i miliardari, e meglio ancora se sono le stesse persone, o, ancora, immancabili, le divisioni nel campo di chi avrebbe avuto i numeri per opporsi (perché guarda caso è solo dopo che si controllano i ministeri dell’interno che il consenso diventa veramente bulgaro), o lo stato di campagna elettorale permanente, o la tendenza ad attribuire sempre la colpa di tutto a qualcun altro. Ecco, queste pagine restituiscono un po’ quell’atmosfera e lo fanno spesso ricorrendo a fonti non scontate, come i romanzi dell’epoca, per esempio quelli di Hans Fallada, di cui non sapevo assolutamente nulla, ma che sto per recuperare (e un libro che ti fa conoscere altri libri è sempre un libro benemerito, per come la vedo io).

Su tutto, però, un elemento che stupisce più di altri è «il senso diffuso di normalità» condiviso da chi visse quei giorni in presa diretta: nessuno capisce per davvero che cosa sta succedendo, neanche i grandi, neanche quelli che, dopo, ci avrebbero aiutato a capire che cos’era successo (o forse qualcuno sì, ma non a caso stava in carcere: era Gramsci). Il presente non è mai come te lo aspetti. E noi siamo ancora succubi di una sorta di malattia storica per cui tendiamo a pensare che epoche drammatiche debbano per forza aver avuto interpreti di spessore, mentre con quelli che son toccati a noi – i Di Maio, i Giordano, i Feltri – vuoi mica pensare che si arrivi davvero a una cosa come lo sterminio di massa? Solo che a forza di prendere sul serio la battuta per cui la storia si presenta la prima volta come tragedia e la seconda come farsa abbiamo finito per considerare come giganti dei personaggi da operetta che si sono semplicemente rivestiti di una bella uniforme. La curva esponenziale del contagio di questi giorni ci sta insegnando che minimizzare non è sempre la strategia giusta. Quando tutto questo finirà scopriremo se sarà stato un bagno di realtà capace di spegnere le braci dormienti del risentimento diffuso o l’ennesima tanica di benzina che potrà innescare nuovi cataclismi.

(finito il 16 agosto 2019)

Ho parlato di



Siegmund Ginzberg
Sindrome 1933
(Feltrinelli, 2019)

188 p. | 16 €

sabato 14 marzo 2020

Inferno. Il mondo in guerra 1939-1945

Ora, senza nulla togliere a nessuno, se uno volesse documentarsi – per dire – sul pensiero di un filosofo non proprio di primissimo piano o su un argomento storico relativamente circoscritto, è probabile che riuscirà a individuare facilmente quei tre, due, o addirittura quell’unico libro che, per ragioni di completezza e di aggiornamento bibliografico, costituiscono lo strumento ideale attraverso cui farsi un’idea sufficientemente esauriente del tema senza esse costretto a diventare uno specialista del settore. Ma se uno decide invece che è venuto il momento di leggersi una storia complessiva della Seconda guerra mondiale - perché è arrivato quasi a quarant’anni e non l’ha ancora mai fatto - allora si può cadere nella trappola dell’abbondanza, per cui, di fronte a biblioteche intere a disposizione, ci si fa piccoli piccoli e si viene presi dalla tentazione di procrastinare all’infinito, perché da dove ha più senso cominciare, a chi affidarti per la tua prima esplorazione? Ebbene, io non so ben ridir com’è che mi sono ritrovato a leggere proprio questo volume per primo, ma così è stato – e tanto basti. 

Leggendolo, però, ho scoperto molte cose interessanti, e non mi sono pentito della scelta. Hastings, infatti, preso dal dubbio omologo a quello che evocavo poc’anzi (ovvero: scrivere un’altra storia della Seconda guerra mondiale? E che cosa si può aggiungere a tutto ciò che è stato già detto?), adotta qui un approccio antropologico e mi verrebbe quasi da dire “morale”, nel senso per cui tale termine può anche essere applicato – che so? - alle grandi opere degli storici antichi: non assegna, cioè, facili patenti di “buoni” e di “cattivi” agli uni e agli altri (anzi, se ne guarda bene, poiché «tutti coloro che vi hanno preso parte (…) hanno dovuto scendere a compromessi morali»), ma cerca di restituire, al di là delle battaglie, delle tattiche, delle questioni politiche – di cui pure si parla, com’è ovvio, e con cognizione di causa – «l’esperienza umana» di chi è passato attraverso quella bufera, ben sapendo che per noi, a cui spaventa un po’ di quarantena casalinga, «le sofferenze subite da centinaia di milioni di persone tra il 1939 e il 1945 sono quasi troppo grandi per essere comprese». Il titolo stesso scelto per quest’opera – reso in italiano con un icastico Inferno – restituisce bene il senso dell’operazione. «La linea del fronte è un corridoio tra le stanze bruciate (…). La strada non si misura più in metri, ma in cadaveri. Stalingrado non è più una città. Di giorno è un enorme nuvola di fumo, che brucia e acceca; è una grande fornace, illuminata dal riflesso delle fiamme». Sono parole di un ufficiale tedesco, ma sembra una parafrasi di quel che scrive Dante a proposito della città di Dite. Mai, forse, si è arrivati così vicini alla sua effettiva edificazione sulla terra. 

Naturalmente questo discorso non vale solo per Stalingrado. Una guerra che coinvolse centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, «molte delle quali non videro mai un campo di battaglia», si articola in una quantità incalcolabile di storie personali e soprattutto si rifrange in un immenso prisma di punti di vista differenti, come piccoli, a volte infinitesimi, pezzi di un puzzle gigantesco di cui ben pochi, o forse nessuno, ha ben chiaro il quadro complessivo – a cominciare dagi stessi generali, che spesso si intestardiscono a portare avanti la “propria” guerra personale (un caso su tutti: MacArthur nelle Filippine), senza tenere conto del fatto che quello che stanno combattendo è, appunto, un conflitto “mondiale”: «la guerra è uno spreco dalle dimensioni incredibili, perché gran parte degli sforzi dei contendenti si dimostrano inutili, e il prezzo si paga in vite umane. É facile, per gli storici, indicare non solo quelle battaglie, ma anche quelle intere campagne che non ci sarebbe stato bisogno di combattere, perché l’esito del conflitto era già assicurato per effetto di avvenimenti successi altrove. Sono molti, gli sforzi e i sacrifici degli uomini che contribuiscono ben poco alla vittoria finale, ma quando vengono create e schierate grandi forze è quasi inevitabile che siano usate. Finché il nemico si rifiuta di ammettere la sconfitta, è intollerabile lasciare gli eserciti sulle proprie posizioni e le bombe nei loro depositi». Già non c’è nulla di dolce nel morire in guerra, ma è ancor più beffardo se si cade in uno scontro che è pure privo di senso tattico. Pressapochismo, impreparazione, errata valutazione delle forze avversarie, azzardi: è impressionante prendere atto che la direzione militare di una guerra di queste dimensioni sia condotta come se si trattasse di una giocata alla roulette – dove tutto, o quasi, alla fine è deciso dalla quantità delle forze a disposizione, più che dalla loro qualità (prova ne sia il fatto che, mediamente, in Europa, i tedeschi combatterono meglio degli Alleati e che furono comunque capaci di resistere fino al 1945, quando almeno da due anni il loro destino era praticamente segnato). «Dal punto di vista militare, l’andamento della guerra fu influenzato maggiormente dalle quantità e dalla diversa efficacia degli eserciti rivali che dalle prestazioni dei singoli comandanti» o dai singoli soldati: il meccanismo, una volta messo in moto, è totalmente privo di controllo.

«L’esperienza della guerra fu straordinariamente varia», dunque – e ciascuno dei punti di vista di chi ne fu coinvolto meriterebbe una storia a parte. Per esempio, il viaggio di ciascun convoglio di navi lungo la rotta atlantica esposta all’assalto dei sommergibili tedeschi sarebbe «sufficiente a rappresentare il dramma di una vita, se il mondo non fosse stato in guerra». Ma c’è poi la versione dei soldati afroamericani, mandati a combattere contro uno Stato che aveva panchine contrassegnate dalla scritta Juden per conto di uno Stato che aveva panchine contrassegnate con la scritta Colored; quella dei bengalesi, che sperimentano nel 1943-1944 una devastante carestia a cui i dominatori inglesi non si preoccupano di prestare la minima cura, giacché «gli indiani devono imparare a badare a loro stessi» - come scrisse seccamente Churchill, la cui visione della libertà, così meritoriamente eroica in patria, «svaniva, o almeno così sembrava ai sudditi delle colonie, proprio davanti alla loro soglia» (è paradossale – commenta a questo proposito Hastings – che mentre l’Inghilterra combatteva, appunto, per la libertà contro le forze dell’Asse, al tempo stesso, «per mantenere il controllo dell’India governò in maniera spietata e senza consenso popolare, e adottò alcuni metodi propri del totalitarismo»). E c’è poi la versione dei polacchi, per difendere la libertà dei quali si era scesi in guerra, salvo poi consegnarli, a guerra finita, a un’altra dittatura (al punto che essi si videro persino «negare un posto nella sfilata della vittoria, a Londra, perché il nuovo governo laburista inglese non voleva indispettire i russi»); e quella dei cittadini di Budapest, sottoposti nell’inverno ‘44-’45 a un assedio terrificante, con tanto di episodi grotteschi (come la storia di un leone fuggito dallo zoo che continuò a girovagare per qualche mese lungo le condotte della metropolitana finché non venne stanato da un reparto speciale dell’Armata Rossa) di cui non si racconta quasi nulla: «questa battaglia tanto sanguinosa quanto inutile sarebbe stata celebrata con toni epici se fosse avvenuta sul fronte anglo-americano. Invece, solo gli ungheresi si accorsero dei suoi orrori, allora come in seguito». Per non parlare, ovviamente, dello sterminio degli ebrei, condotto con ottusa crudeltà finché fu possibile, destinandovi energie e risorse che sarebbero state più utili altrove. 

Eppure, Hastings, pur riuscendo a tenere magistralmente insieme tutti i fili di queste vicende, suscitandoci ogni volta la curiosità di saperne un po’ di più degli episodi che evoca a volte nello spazio di poche righe, ritorna di continuo, con insistenza, sul fronte russo – perché è lì, sostiene, che si è giocato davvero tutto. A noi italiani, che – come tutti gli altri - abbiamo a cuore il nostro pezzo di storia, e che anche della campagna di Russia ricordiamo dolorosamente per lo più la parte che ci riguarda, tutto questo può far male. Dei partigiani jugoslavi (ma il discorso può valere anche per i nostri) Hastings dice che «furono gli insetti più nocivi e numerosi a ronzare intorno alle ferite aperte dell’Asse al momento della sua decadenza, ma il loro ruolo rimase insignificante, a fronte di quello degli eserciti alleati». Che è come dire che la Resistenza, con la sua irrinunciabile tensione morale e il suo altissimo valore simbolico, al netto di tutti i suoi limiti, non è stata comunque che un buffetto rispetto alle vere e proprie gigantomachie che si combattevano altrove. Per fermare una bestia come Hitler – di questo è convinto Hastings – ci voleva un’altra bestia come Stalin: di fronte al continuo gioco al rialzo proposto da Hitler, l’unica strategia davvero efficace fu quella cinicamente adottata da Stalin, forte della sua schiacciante superiorità numerica. La guerra fu vinta dagli Alleati perché i russi accettarono di sobbarcarsi il 95% delle perdite militari delle tre potenze principali, per non parlare dei morti per fame e dei soldati uccisi per indisciplina: «nessuna democrazia avrebbe potuto stabilire una gerarchia del bisogno altrettanto gelidamente razionale di quella di Stalin». La visita ai cimiteri alleati in Normandia è impressionante, con tutte quelle croci messe una in fila all’altra, che sembrano già tantissime. Sono comunque “solo” migliaia, – nulla in confronto ai milioni di morti del fronte orientale. La liberazione di tutta la Francia costò circa 40 mila vittime militari agli anglo-americani, che la intrapresero quando furono ragionevolmente sicuri di ottenere un successo, perché avevano comunque un’opinione pubblica a cui rendere conto, mentre nei combattimenti intorno a Kursk, circa un anno prima, dove si svolse tra l’altro il più grande scontro tra mezzi corazzati della storia, i sovietici, pur vincendo, avevano lasciato sul campo 500 mila uomini (alla fine i russi morti in tutto saranno 27 milioni, di cui 16 milioni di civili; gli inglesi 450 mila, gli americani 420 mila). 

Hastings non racconta tutto questo per fare l’apologia dello stalinismo – tutt’altro – né per sottintendere che i nazisti non fossero poi tanto peggio degli altri. Su Hitler, anzi, è severissimo, come lo è sul Terzo Reich (definito un «male storico»), sulle SS con il loro bestiario di crudeltà e sugli alti gerarchi («la maggior parte degli uomini più vicini a Hitler – Himmler e Goering più di altri – sarebbero sembrati ai posteri figure ridicole, se non avessero avuto licenza di versare tanto sangue»), non meno che sugli alti comandi dell’esercito tedesco, che per «un perverso senso del dovere (…) scelsero (…) di combattere e morire da servi del Terzo Reich invece che da difensori della nazione, i cui interessi avrebbero potuto servire in maniera credibile soltanto assicurandosi la pace a qualunque condizione o addirittura senza condizioni», soprattutto quando la guerra aveva preso una piega inevitabile e strategicamente irrecuperabile e il Fuhrer «sembrò accontentarsi di presiedere a una catastrofe dalla proporzioni non meno gigantesche di quelle che erano state le sue ambizioni», tant’è che «un terzo di tutte le perdite tedesche sul fronte orientale si ebbero negli ultimi mesi di guerra, quando tutti quei morti non potevano servire ad altro scopo che a realizzare l’impegno della leadership nazista verso il proprio sacrificio». Ma forse questo cupio dissolvi è stata a conti fatti una benedizione: i nazisti si consideravano, infatti, il baluardo della civiltà occidentale contro il comunismo, e se non avessero alzato troppo la posta, se si fossero accontentati, si sarebbe potuti arrivare con loro a un compromesso, a un appeasement in chiave antisovietica (e lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per l’Italia: il caso di Franco insegna). Il punto è che la guerra, qualunque guerra, anche questa guerra (che pure aveva le sue ragioni), una volta innescata non può che seguire il proprio «slancio feroce, assassino, inutile», in cui crudeltà chiama crudeltà in una pura lotta di potere – e la sorte di chi capitò in mano ai soldati russi spesso non fu diversa da quella di chi finì in mano ai soldati tedeschi. L’unica differenza, anche se non da poco, è che la violenza, da una parte, era l’esito di un preciso programma ideologico che non poteva che portare lì; dall’altra era la conseguenza di scelte strategiche all’interno di un contesto bellico. Insomma, «la vittoria degli Alleati non portò la pace universale, e nemmeno prosperità, giustizia o libertà per tutti; significò semplicemente una parte di queste cose, per una frazione di coloro che vi avevano partecipato. Quello che sembrò certo è che la vittoria degli Alleati salvò il mondo da un destino assai peggiore, che sarebbe seguito al trionfo di Germania e Giappone. Coloro che inseguono la virtù, e la verità, devono essere contenti per questo» e non aggiungere nulla di più.

(finito il 3 agosto 2019)

Ho parlato di


Max Hastings
Inferno
Il mondo in guerra 1939-1945
(Beat, 2016)

trad. di R. Serrai

895 pp. | 14,50 €

(ed. or.: All Hell Let Loose, 2011)