Non è Anna Karenina, non è Guerra e Pace, e a dirla tutta non è neppure La sonata a Kreutzer o La morte di Ivan Ilic, ma è proprio il suo carattere defilato nell’immensa produzione tolstojana (eufemismo per mascherare il fatto che non ne avessi mai sentito parlare prima) ad aver reso terribilmente invitante il suggerimento di Paolo Nori, secondo cui questo sarebbe invece un testo perfetto da cui prendere le mosse se ci si volesse accostare per la prima volta alla letteratura russa. Addirittura: e che ci sarà mai di così interessante? Trattandosi di Nori, la cui naiveté rende talvolta difficile capire dove cominci la garbata presa in giro, non manca il sospetto che si possa trattare di un dotto pesce d’aprile, tanto più se si considerano le motivazioni addotte: perché il libro è breve, dice, e, incentrato com’è su un personaggio non russo (il Chadzi-Murat del titolo: dirò subito chi è), ci evita quel complicato sistema di appellativi e patronimici che rende spesso così indigesta le lettura dei russi. Ma la cosa dal suo punto di vista ha perfettamente senso, in quanto questa ridotta sovrastruttura consentirebbe di sperimentare in modo più diretto di altre opere la forza dirompente che in realtà tutta la grande letteratura russa può esercitare su di noi, invitandoci così a proseguire nel percorso con testi più sofisticati. Come spiega meglio lo stesso Nori nella postfazione a questa edizione da lui tradotta, «ecco, io ho l’impressione che Chadzi-Murat ci parli di quella cosa che ci sta succedendo, e che non succede solo nel Caucaso, ma dovunque, quella cosa della quale sentiamo parlare talmente tanto che anche il nome, conflitti razziali, o come si chiama, non ci dice più niente, è frusto, consunto, io, dicevo, ho l’impressione che Chadzi-Murat ci spieghi questa cosa (cioè ce la mostri, ce la faccia vedere) molto meglio di quanto ce la spieghino quotidianamente le opposte fazioni e i rispettivi esegeti, agiografi, critici, interpreti» (fermo restando che, trattandosi appunto di grande letteratura - russa o non -, inesauribile per vocazione, essa riuscirà comunque a spiegare qualcosa che apparterrà in modo significativo alla inimmaginabile contemporaneità del futuro, anche qualora in quel futuro i conflitti razziali dovessero essere tutti risolti).
Il vecchio Tolstoj inizia a scrivere questo romanzo breve durante una pausa nella gestazione di Resurrezione, verso la fine del secolo decimonono e della sua stessa sua vita, lavorandoci poi a lungo con continue revisioni e stesure, anche se l’episodio intorno a cui esso ruota riguarda una vicenda che lo riporta indietro di molti anni, al tempo in cui era un giovane ufficiale impegnato per conto dello zar nelle interminabili guerre caucasiche, là dove Asia ed Europa continuano tuttora ad attorcigliare nervosamente le dita delle rispettive mani l’una intorno all’altra senza riuscire a chiuderle in una vera e propria stretta. Quello è infatti un mondo estremamente complesso, frammentato in un pulviscolo di gruppi etnici parlanti lingue diverse dai nomi esotici (circassi, calmucchi, ceceni – per citarne alcuni, variamente ripartiti, a loro volta, tra ceppi turchi, mongolici e iranici) e attraversato a sua volta da profonde linee di faglia religiose oltre che tribali. Qui l’amico di ieri potrà facilmente essere il nemico di oggi e con altrettanta facilità il nuovo amico di domani, per cui conviene più che mai guardarsi prima alle spalle che di fronte, se si vuole sperare di sopravvivere.
Un personaggio come Chadzi (o Hadij) Murat (a seconda delle traslitterazioni) è esattamente il prototipo di homonculus che potrebbe essere forgiato in un siffatto crogiuolo di forze contrastanti dal bravo alchimista di storie. Tolstoj, però, non se lo inventa dal nulla. L’uomo fu effettivamente un condottiero àvaro che abbracciò il chavazat (come allora veniva chiamato il jihad) per contrastare con tutta la passione della sua fede religiosa la penetrazione russa nel Daghestan, sebbene in rapporti non particolarmente limpidi con l’imam Samil, guida suprema della resistenza musulmana nel distretto. Tant’è che, quando quest’ultimo ad un certo punto cerca di eliminarlo, Chadzi-Murat, scampato all’attentato ma ormai isolato, con una mossa spettacolare quanto spericolata si consegna agli odiatissimi russi offrendo loro il suo appoggio contro il vecchio sodale, per vendetta, ma anche per salvare la propria famiglia, rimasta in mano al nemico. Questa faida sarebbe un’ottima occasione per dare un’ulteriore giro di vite all’occupazione di terre così faticose da sottomettere, eppure i russi tergiversano, temendo il bluff - e il racconto descrive sostanzialmente questo periodo sospeso di trattative e contatti sempre molto diffidenti tra gli ufficiali russi e quello che fino a poco tempo prima era uno dei loro più pericolosi nemici, i quali non potendo dialogare fra loro, perché non parlano la stessa lingua, si soppesano in base a gesti, espressioni del volto, portamento, finché Chadzi-Murat decide che ne ha abbastanza e, approfittando delle libertà che gli sono concesse, nonostante sia formalmente un prigioniero politico, architetta una fuga per riprendere in un modo o nell’altro la sua lotta personale. Mal gliene incolse, però, dal momento che, prima di raggiungere i villaggi di montagna in cui sperava che il suo carisma potesse garantirgli ancora degli appoggi, è sorpreso da una guarnigione cosacca, da cui viene brutalmente trucidato. Tutto questo accadde all’incirca tra il 1851 e 1852. Tolstoj afferma che a rievocargli, a distanza di così tanto tempo, questa «antica storia caucasica», e a suscitargli l’intenzione di raccontarla poi tutta, in parte per come l’aveva sentita a sua volta raccontare da altri, ai tempi del servizio mlitare, in parte per come se l’è andata immaginando lui nel corso degli anni, sarebbe stata la visione di un cespuglio di lappole su cui era passata la ruota di un carro e che stava perciò «un po’ di traverso, tuttavia dritto. Come se gli avessero strappato una parte del corpo, rivoltato le interiora, staccato un braccio, cavato gli occhi. Ma lui stava dritto, e non si arrendeva all’uomo che, intorno a lui, aveva distrutto tutti i suoi fratelli. “Che energia!” pensai. “L’uomo l’ha avuta vinta su tutto, ha distrutto milioni di piante, e questo ancora non si arrende”».
Anche solo a riassumerla così, per sommi capi, una vicenda del genere ricorda l’intricato mosaico delle polveriere afghane o siriane, con tutti quei gruppi contrapposti, le cui relazioni reciproche sono così complesse da ricostruire a distanza. Per provare ad affrontare quel che accade in simili scenari occorrerebbe grande lucidità e soprattutto l’umiltà di affidarsi a chi conosce bene, e possibilmente per esperienza diretta, quei territori e quelle culture. È esattamente il contrario di quel che viene descritto in questo libro – ma anche da questo punto di vista la grande letteratura, come ai discepoli di Emmaus, svela il senso delle immagini che vediamo tutti i giorni al telegiornale. L’intenzione di Tolstoj, infatti, più che quella di celebrare una figura comunque ambigua come Chadzi-Murat, mi pare sia di offrire un apologo contro la stupidità della guerra, che corrompe e disperde le risorse anche delle persone potenzialmente migliori perché permette con troppa facilità di assecondare i capricci delle persone indiscutibilmente peggiori. Come quando al cinema o a teatro o all’opera si attende la performance dell’attore solista che compare in una sola scena ma che tiene da solo in piedi l’intero dramma, così qui si assiste, più o meno a metà del racconto, alla vera e propria irruzione sul palco nientemeno che dello zar Nicola I, totalmente avulso dal contesto in cui si era svolta e si sarebbe continuata a svolgere la trama, ma dalla cui sola volontà, per assurdo, quella trama interamente dipende. Tolstoj era del tutto consapevole che queste pagine non avrebbero superato la tagliola della censura – e vorrei ben vedere. Nicola è rappresentato come un vecchio laido e lascivo, convinto della propria assoluta superiorità intellettuale e morale e della sua assoluta centralità nel garantire l’ordine mondiale, proprio come quei leader che proclamano di poter risolvere in 24 ore tutte le crisi globali con un semplice tweet («“Già, cosa sarebbe senza di me non solo la Russia, ma l’Europa”»; e ancora: «“Evidentemente, da noi, in Russia, c’è un unico uomo onesto”»). Il problema, proprio come chi non sa più uscire dalla propria bolla social, è che «la continua, aperta, ripugnante adulazione degli uomini che lo circondavano l’aveva condotto al fatto che non vedeva ormai le proprie contraddizioni, che non conformava più le proprie azionie e le proprie parole alla realtà, alla logica e perfino al semplice buon senso, ma era pienamente convinto che tutte le sue disposizioni, per quanto fossero insensate, ingiuste e in disaccordo tra loro, diventassero sensate, e giuste, e in accordo tra loro solo perché le aveva date lui». Ebbene, quest’uomo che si compiace di condannare a dodicimila vergate uno studente malato di nervi, reo di avere aggredito un professore dopo essere stato bocciato per la seconda volta a un esame – e se ne compiace perché «grazie a Dio, la pena di morte da noi non c’è», ma sa benissimo che quella condanna porterà proprio alla morte, solo dopo tanta crudele sofferenza in più; quest’uomo che si reca in chiesa non per onorare Dio, ma per ricevere da Dio stesso, tramite i suoi servitori, saluti e onori, «perché da lui dipendeva la prosperità e la felicità di tutto il mondo, e benché egli fosse stanco di ciò, non negava tuttavia al mondo il suo contributo»; quest’uomo totalmente ignaro di quanto sta accadendo per davvero laggiù nel Caucaso, la mattina in cui gli arrivano sul tavolo i dispacci sulla questione di Chadzi-Murat «era di pessimo umore e non avrebbe accettato suggerimenti da nessuno per puro spirito di contraddizione», assecondato da quei cortigiani perfettamente consapevoli dell’insensatezza delle sue decisioni, ma per nulla disposti a mettere a repentaglio la faticosissima costruzione della loro carriera e perciò pronti ad avallare sempre e comunque «la crudele, folle e disonesta volontà imperiale».
Ci sarebbe da ridere, se non fosse per quello che ne consegue, discendendo via via l’inesorabile catena di comando. Convintosi che la trattativa aperta da Chadzi-Murat sia un segno dell’imminente crollo della linea di difesa locale, lo zar ordina infatti un altro attacco. Ma nel Caucaso, «in nessuna occasione, avevano luogo quelle battaglie corpo a corpo con le sciabole che si immaginavano e si descrivevano sempre» secondo la «raffigurazione poetica della guerra» che gli stessi soldati russi avevano in mente quando venivano spediti direttamente laggiù dall’accademia militare (pure oggi, del resto, le guerre lì si combattono abbattendo aerei di linea). Un altro attacco, nel Caucaso, significa qualcosa che in italiano abbiamo parole migliori per descrivere: saccheggio, rappresaglia, strage. Nel villaggio devastato «si diffuse un fumo acre, e in questo fumo si muovevano i soldati, trascinando fuori dalle saclie quel che trovavano e, soprattutto, catturando e sparando alle galline che i montanari non avevano fatto in tempo a portare via». Quando gli abitanti rientreranno, per contare i morti e la devastazione, «i pianti delle donne si sentivano in tutte le case e nella piazza dove erano stati portati altri due corpi. I bambini piccoli piangevano insieme alle madri. Si lamentava anche il bestiame affamato, al quale non c’era niente da dare. I bambini grandi non giocavano, ma con occhi impauriti guardavan gli adulti. La fontana era stata imbrattata, evidentemente apposta, tanto che non si poteva prenderne acqua. Era stata imbrattata anche la moschea». Esposti a questa brutale violenza - ordinata da un principe che non sa quello che sta facendo, ed eseguita da soldati che sarebbero bravi ragazzoni russi ma a cui è stato insegnato di obbedire agli ordini, e per i quali quella è l’avventura della loro giovinezza - «il sentimento che provavano tutti i ceceni, dal più piccolo al più grande, era più forte dell’odio. Non era odio, era il non riconoscere questi cani russi come uomini, e un disgusto tale, una ripugnanza e un imbarazzo di fronte alla crudeltà insensata di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, così come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velenosi o i lupi, era tanto naturale quanto l’istinto di conservazione». Nicola era convinto che dopo questa manifestazione di forza i ceceni avrebbero ceduto; e invece, proprio per via di quella manifestazione di forza, continueranno a combattere e a combattere e a combattere, perché sangue chiama sangue soltanto. Ed è così, finché il protervo di turno non dichiarerà che “con questi terroristi è impossibile discutere” e stabilirà per decreto che l’unica soluzione è lo sterminio. È tutto così maledettamente chiaro che ancora non siamo riusciti a capirlo.
(finito l'11 maggio 2022)
Ho parlato di
Chadzi-Murat
(Garzanti 2020)
trad. di P. Nori
188 pp. | 10 €
(ed. or.: Chadzi-Murat, 1912)
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