venerdì 13 novembre 2015

Il fiume della vita

Questa montagna era circondata tutt’intorno da un fiume eccezionalmente rapido e vorticoso; nel fiume continuavano a scendere innumerevoli schiere di ombre per lo stretto sentiero. Io rimasi sbalordito ad osservare quei luoghi e un’infinita moltitudine di ombre e restai così ammirato da trascurare d’indagare la conformazione della regione intorno al fiume. (...) In latino questo fiume viene chiamato “vita e tempo” dell’esistenza umana. La sua riva è la morte.
L.B. Alberti, Intercoenales, Fatum et Fortuna


Poiché le vite cominciano per lo più in un momento qualunque, non c'è un motivo particolare per cui questo blog debba rinascere, sotto le nuove spoglie di autobiografia per interposte letture, proprio ora, proprio con questo argomento. É insomma del tutto casuale che due ordini distinti di pensieri si siano incontrati nella mia testa, scatenando le forze necessarie a smuovere l'inerzia, proprio il giorno dopo aver voltato l'ultima pagina di questo libro anziché di un altro. C'era uno spunto, c'era uno spazio - e questo basti alle Muse.


Il fiume della vita, dunque. Ovvero: di come talvolta non bastino ingredienti prelibati per fare una buona frittata. 

In ordine sparso, che cosa abbiamo qui?

  • Un'idea potente e giocata sul filo del paradosso libertino quale la (quasi-)risurrezione in massa dell'umanità, con tutte le curiose implicazioni che ne possono seguire (personaggi di età diverse che interagiscono fra loro misurandosi simultaneamente con le rispettive storie degli effetti; ma anche, a un livello più becero, lotte all'ultimo scalpo tra Neanderthal e Cherokee o alleanze tra gerarchi nazisti e antichi re di Roma: cose così, che a qualcuno come me piacciono).

  • Uno scenario grandioso quale può esserlo un intero, titanico, mondo attraversato da un unico fiume, altrettanto maestoso, che lo percorre da un polo all'altro per decine di migliaia di chilometri, senza che se ne conosca la fonte né la foce, e sulle cui rive trovano appunto ospitalità le genti dei risorti, distribuite secondo criteri approssimativamente geografici e cronologici, come se si trattasse di una fluida linea del tempo.

  • L'adozione, come protagonista principale, di un personaggio realmente esistito (Richard Francis Burton, questo signore qui), in un certo senso prototipo dell'esploratore vittoriano alla Allan Quatermain, col suo carico di luciferina curiosità e un concentrato motivazionale in cui si fondono insieme superomismo, neocolonialismo e un senso pratico precocemente post-ideologico; personaggio antipatico come pochi (idea coraggiosa per i tempi, se voluta dall'autore, a meno che l'effetto non sia causato da una distorsione prospettica dovuta al passare degli anni e a maturata consapevolezza - o forse era proprio questo l'intento sin dall'inizio, smontare l'archetipo dell'eroe ottocentesco: mi mancano gli elementi per dirlo), uno che pensa per lettere maiuscole e conia di volta in volta espressioni altisonanti per ingabbiare in formule le esperienze, con la stessa disinvolta foga con cui per secoli gli europei hanno dato i loro nomi a questo o quel pezzo di terra appena scoperto. Un uomo che scrive versi di questo tenore, per intenderci: "Fa' ciò che il tuo coraggio t'induce a fare, / e non attenderti applausi se non da te stesso; / vive e muore nel modo più nobile colui che si fa da sé / le proprie leggi". A lui, ricercatore in vita delle sorgenti del Nilo, il compito di tener accesa post-mortem la fiaccola dell'intraprendenza umana nella ricerca delle sorgenti di questo fiume dei fiumi (nonché il compito di solleticare il palato del fanatico di steampunk, benché il termine, all'epoca, non fosse ancora stato inventato).

  • L'alone permanente di mistero su chi abbia allestito un tale esperimento sociobiologico e sul senso ultimo di questa gigantesca operazione, se si tratti cioè davvero dell'ultima spiaggia offerta agli umani per purificarsi prima di trascendere a un livello superiore e definitivo di esistenza oppure di una crudele messinscena imbastita a scopi sostanzialmente entomologici da qualche annoiata divinità.

  • L'espediente narrativo in base a cui, ad una seconda morte patita per dolo o per incidente fa immediatamente seguito una rimaterializzazione presso un'altra sponda dello stesso fiume, senza una logica apparente che spieghi perché qua e non là (il "Direttissimo del Suicidio": ecco appunto un esempio di insopportabile naming esercitato dal protagonista quando comincia a sfruttare scientemente questo non proprio agevole strumento di teletrasporto per sfuggire a coloro che gli danno la caccia).

  • Il sottotesto, da vero e proprio conte philosophique, sul possibile comportamento della nostra specie se posta in una condizione estrema, sì, ma di sostanziale abbondanza, dal momento che, in virtù di un altro escamotage narrativo, cibo e risorse risultano distribuite in modo equo e quotidiano, come la manna nel deserto per gli Israeliti in marcia verso la terra promessa (e il giudizio dell'autore è pessimistico: nonostante queste premesse, ci sarebbero comunque nuovi schiavi, nuovi potentati, nuove forme di oppressione).

Non si può negare che, con tutto questo ben di dio, uno, leggendo, non si faccia continui viaggi mentali, quasi ad ogni svolta di pagina. Il problema si pone quando ci si rende conto che questi viaggi costituiscono il disperato tentativo operato dalla propria mente per supplire alla mediocrità di una scrittura che sembra rinunciare a dare pieno svolgimento alla ricca messe di intuizioni che pure l'autore mostra di avere. Avrei preferito più solennità - o se volete più epica - e meno humour. Resta così la sensazione di avere per le mani un grande romanzo seminale, di quelli che probabilmente hanno lavorato a fondo sulla fantasia di molti scrittori e sceneggiatori successivi, ma che, preso in sé, lascia soprattutto un fastidioso senso di delusione per ciò che sarebbe potuto realmente essere e non è stato, come una serata galante mai davvero decollata dopo ottimi auspici iniziali (con buona pace, e me ne rammarico, del professore di liceo che, tanti anni fa, mi suggerì questa lettura). Dune, per dirne solo uno, è letteralmente su un altro pianeta.

Il libro che viene dopo. Scontato dire il sequel, anche se di questo autore mi tenta di più Il diario segreto di Phileas Fogg, che mi vendono come riscrittura del Giro del mondo in 80 giorni sotto forma di guerra segreta fra forze aliene. Ma sarei curioso di leggere anche gli sfidanti nella cinquina del premio Hugo 1972 che sono stati battuti da questo romanzo, giusto per capire se, a distanza di quarant'anni e più, quel giudizio può essere ancora condiviso. 

Una pagina (76-77)

- Ti conosco! - gridò una donna. Era una ragazza alta, con occhi azzurri, un bel viso, e un corpo pieno di curve. - Ti conosco! Sir Robert Smithson!

L'uomo smise di parlare e guardò la ragazza sbattendo le palpebre. - Ma io non conosco lei!
- Non puoi conoscermi! Ma dovresti! Io sono una delle migliaia di ragazze che dovevano lavorare sedici ore al giorno, per sei giorni e mezzo alla settimana, affinché tu potessi vivere nella tua grande casa sulla collina e indossare dei begli abiti, affinché i tuoi cavalli e i tuoi cani potessero mangiare molto ma molto meglio di come mangiavo io! Io ero una delle ragazze della tua fabbrica! Mio padre lavorò come uno schiavo per te, mia madre lavorò come una schiava per te, e anche i miei fratelli e le mie sorelle lavorarono come schiavi per te, o almeno quelli di loro che non erano troppo malati o che non morirono a causa del cibo troppo scarso o troppo cattivo, o dei giacigli sudici, o delle correnti d'aria che entravano dalle finestre, o dei morsi dei topi. Mio padre perse una mano in una delle tue macchine, e tu lo cacciasti a pedate senza dargli neppure un penny. Mia madre morì di tubercolosi. Anche la mia vita se ne stava andando tra un colpo di tosse e uno sputo, mio bel baronetto, mentre tu t'ingozzavi di cibi prelibati e sedevi in soffici poltrone e ti appisolavi in chiesa nel tuo banco grande e lussuoso e davi in elemosina migliaia di sterline per nutrire i poveri infelici dell'Asia e mandare dei missionari in Africa per convertire i poveri pagani. Io sputavo pezzi di polmone, e dovetti prostituirmi per trovare abbastanza denaro da sfamare i miei fratellini. E mi presi la sifilide, maledetto bastardo d'un devoto, perché tu volevi spremere ogni goccia di sudore e di sangue da me e da quei poveri diavoli come me! E morii in prigione perché tu dicesti alla polizia di trattare le prostitute col massimo rigore. Tu... Tu...
Smithson dapprima era diventato rosso, poi pallido. Poi si alzò tutto impettito, guardò biecamente la donna e disse: - Voi prostitute dovete sempre gettare su qualcuno la colpa della vostra sfrenata concupiscenza e del vostro sporco mestiere. Dio sa che io ho seguito la Sua via.
Voltò le spalle e se ne andò, ma la donna gli corse dietro e gli sferrò un colpo (...). Smithson si allontanò di corsa dalla donna, prima che questa tentasse qualcos'altro, e si perse in fretta in mezzo alla folla. Sfortunatamente, disse Ruach, pochissimi avevano compreso che cosa stava succedendo, perché non capivano l'inglese.
- Sir Robert Smithson - disse Burton. - Se ricordo bene possedeva dei cotonifici e delle acciaierie a Manchester. Era noto per la sua filantropia e per le sue opere pie a favore degli atei. Morì nel 1870 o giù di lì all'età di ottant'anni.
- Probabilmente era convinto che sarebbe stato ricompensato in paradiso - aggiunse Lev Ruach. - Di certo non gli dev'essere mai venuto in mente di aver commesso tutti quegli assassinii.
- Se non avesse sfruttato lui i poveri, l'avrebbe fatto qualcun altro.

(finito l'8 novembre 2015)

Ho parlato di


Philip José Farmer
Il fiume della vita
(Fanucci 2012)

Trad. di G. Tamburini

244 p. | 9, 90 €

(ed. or. : To Your Scattered Bodies Go, 1971)

Note. La Fanucci ha ristampato anche i volumi successivi del ciclo.