giovedì 5 giugno 2025

Il mondo sommerso

Ecco, io, per esempio, di questo libro qui non sarei più capace di ricostruire oggi la trama esatta, e senza l’aiuto di qualche sbirciatina in rete non sarei stato in grado di riprendere neppure per linee generali il capo e la coda degli eventi che vi sono narrati per darne un’idea a voialtri ipotetici miei interlocutori. Mi si potrà dire che è passato troppo tempo dalla lettura – ed effettivamente è vero; così come è vera quell’altra cosa che si potrebbe anche dire, ossia che questo libro qui appartiene a quel genere di testi la cui trama esatta non conta poi forse ricordare più di tanto, perché pensato piuttosto per essere fruito quasi come se fosse un condensato allucinogeno di frasi sintetizzate fra loro allo scopo di simulare l’effetto prodotto dall’azione prolungata di molecole di acidi sulla corteccia cerebrale del lettore, che dunque, man mano che procede nella storia, meno sembra anche capire quale direzione essa stia prendendo. Tutto ineccepibile, se non fosse che a venire a galla, in questo modo, non è altro che la mia forma naturale di praticare l’esercizio della lettura, non solo come folle rincorsa verso il finale, né tantomeno come dotto esorcismo contro la noia, bensì quale autentica attività immersiva attraverso cui esplorare virtualmente tutti quei mondi possibili preclusi alla nostra limitata esperienza fisica – proprio come accade con certi sogni, le cui atmosfere inquietanti o gioiose (per mia fortuna ho fatto esperienza d’entrambe) possono impregnarti a tal punto l’immaginario da segnarti tutta la vita, nonostante le numerose incongruenze interne e i loro clamorosi buchi di sceneggiatura, che in fondo non interessano a nessuno.

La meraviglia impagabile di questa attività così semplice è che per innescare tali viaggi può bastare anche un thriller post-apocalittico come quello di cui dovrei parlare, che è per inciso uno dei primissimi romanzi pubblicati da un giovane Ballard, all’inizio degli anni ‘60, quando, con ampio anticipo sulla transizione ecologica e persino sulla crisi petrolifera, la questione dei cambiamenti climatici che vi è sottesa non era ancora diventata il luogo comune a cui rischiamo purtroppo di assuefarci prima di essere riusciti a trovargli una soluzione in grado di salvarci. Lo scrittore inglese si immagina infatti che, in un futuro non troppo remoto, senza neanche bisogno di attendere l’effetto dell’azione autodistruttiva dell’uomo, il combinato disposto di violente tempeste solari e dell’allargamento delle fasce di Van Allen abbia determinato un generale surriscaldamento dell’atmosfera terrestre, con il conseguente scioglimento dei ghiacci polari, la liquefazione del permafrost e il progressivo innalzamento del livello del mare, fino al punto di trasformare irrimediabilmente il profilo delle terre emerse cui siamo abituati sotto l’incedere di una dilagante pantalassa e dei milioni di metri cubi di sedimenti che essa trascina con sé: in questo nuovo mondo un golfo d’America esiste sul serio, non solo nella mente di Trump, e corrisponde grosso modo alla distesa d’acqua che ha inondato le grandi pianure del Midwest, mentre quella che un tempo era stata l’Europa si è trasformata in un reticolo di gigantesche lagune tropicali. I cinque milioni di Sapiens ancora in vita si sono spinti sempre più a nord o a sud, colonizzando l’Antartide e le aree artiche di quanto resta di Russia e Canada per sfuggire al soffocamento, alla disidratazione e alle radiazioni generate in quelle saune perenni che gli antichi avevano battezzato zone torride e che solo adesso sono diventate realmente inabitabili per l’uomo. Di tanto in tanto, però – il racconto comincia all’incirca così – qualche équipe di scienziati si avventura ancora nelle aree non totalmente inospitali per effettuare incursioni e rilevamenti sui fondali dove riposano quali novelle Atlantidi le grandi metropoli della fu modernità trionfante. Ed è qui, nel bacino da cui affiorano le memorie della gloriosa Londra, che uno di questi gruppi di ricercatori si imbatte in un personaggio quanto mai ambiguo, detto Strangman, «mezzo pirata e mezzo demone», vero erede di una lunga tradizione di antieroi del mare che risale fino a Melville e Conrad, «con la sua faccia bianca e sorridente e i lineamenti crudeli che si acuminavano come frecce quando sorrideva», «lo sguardo viscido» e il volto stesso «simile a un teschio», perennemente vestito di bianco come gli scheletri in smoking del quadro di Delvaux, il cui aspetto è reso ancora più sinistro dal contrasto con la ciurma di neri deferenti che presta servizio sul suo panfilo kitsch zeppo di robaccia trafugata qua e là e spacciata per vera arte. Sarà appunto l’irrompere sulla scena di quest’uomo dalla dubbia moralità, che si circonda di giganteschi alligatori come se fossero cani da caccia, a dare improvviso e brusco movimento a una vicenda che pareva invece destinata lentamente ad assopirsi come un sole morente.

Ma, come dicevo, di queste peripezie poco ricordo. Invece, sin dalle prime righe, anche se non capita quasi niente, quel che si è impresso indelebilmente nella mia fantasia è stato lo scenario in cui si muovono i personaggi del romanzo. Se chiudo gli occhi, me lo vedo davanti. Tra i resti ancora affioranti degli edifici prosperano infatti ormai «le fronde verde cupo delle gimnosperme, residuo del triassico», e «adagiati sulle poltrone e sulle finestre di quelle che una volta erano state sale di importanti di consigli di amministrazione, i rettili avevano preso possesso della città», tornando ad essere, «dopo milioni di anni, (...) la forma di vita dominante». Con le «loro teste antiche e impassibili», le iguane riattivavano nei loro osservatori umani «arcaiche memorie delle giungle terrificanti del Paleocene», rinnovando «l’ostilità implacabile che una classe zoologica prova nei confronti di un’altra che ne ha usurpato il posto». Al posto della frenesia degli assembramenti automobilistici delle nostre tangenziali è subentrata una tersa quiete meridiana, e con essa il sovrumano silenzio degli spazi primigeni, l’indescrivibile solitudine degli oceani, ma anche «il rallentamento del metabolismo e il regresso biologico che si manifestano in tutte le forme di vita animale in procinto di affrontare importanti metamorfosi». Come in una pausa di sospensione prima di una nuova accelerazione evolutiva, suggestionata dall’umidità che aleggia perennemente su questi mari caldi analoghi a quelli del Cambriano, la coscienza dei protagonisti sembra riadattarsi a condizioni di vita preumane e, sempre più incapace di distinguere chiaramente sonno e veglia, pare a un passo dal collassare a uno stadio ancor più arcaico di quello bicamerale. «Stiamo precipitando nel nostro passato archeopsichico, riscoprendo gli antichi tabù e gli istinti primordiali rimasti sopiti per migliaia di anni. Il pensiero della brevità della singola vita umana è fuorviante. Ognuno di noi ha la stessa età dell’intero regno biologico e il nostro flusso sanguigno è immissario dell’immenso oceano della sua memoria collettiva. L’odissea uterina del feto in crescita riassume in sé l’intero passato biologico e il sistema nervoso centrale del feto è una tabella temporale codificata, in cui ogni connessione di neuroni e ogni livello spinale rappresentano stadi simbolici, un’unità di tempo neuronico».

Ecco perché, più che andare avanti con la storia, qui poco per volta si scende. L’acqua che sommerge inesorabilmente i prodotti di una storia durata appena un battito di ciglia, su scala cosmica, ci riporta infatti alla nostra origine protozoica, prefigurando il nostro riassorbimento in quello stesso accogliente liquido amniotico planetario da cui a un certo punto siamo affiorati, forse per sbaglio, convinti d’essere più che una semplice variazione sul tema, una buffa fantasia passeggera delle sempiterne piante, l’increspatura onirica che ha turbato per un attimo il perenne sonnecchiare della Terra. Trascinati «in calde profondità traslucide dove le realtà puramente nominali del tempo e dello spazio cessavano di esistere», gli ultimi uomini di cui parla il libro sembrano chiudere definitivamente il cerchio cosmologico fissato dalla Moira, esaurendo il ciclo vitale della nostra specie con larghissimo anticipo rispetto a una sua eventuale migrazione interplanetaria. Qualcuno comincia a capire che resistere non ha più senso. Al più lucido, che però vuol dire anche il più folle, fra loro non resta che imbarcarsi in una apparentemente insensata «odissea verso sud», attratto da un atavico e inspiegabile richiamo primordiale, «come un sognatore alla disperata ricerca di una porta che lo conducesse fuori dal suo incubo». Tutto ciò che siamo stati verrà digerito, assimilato e riutilizzato. Ci vorrà il suo tempo – ma all’universo, a differenza che per noi, questo non manca.

(finito il 16 giugno 2022)

Ho parlato di


J.G. Ballard
Il mondo sommerso
(Feltrinelli 2005)

trad. di S. Massaron

200 pp. | 7,50 €

(ed. or.: The Drowned World, 1962)






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