venerdì 30 dicembre 2016

Tempo scaduto

Ambler è un mio vecchio pallino. Prende personaggi che per qualche motivo sono sempre un po’ outsiders (perché apolidi, ad esempio, oppure di famiglia multietnica, oppure dei sopravvissuti, o tutto questo insieme) e li lancia in intrighi internazionali più grandi di loro che spesso e volentieri hanno come cornice il Mediterraneo – il che, per un meridianista come me, è oro colato. Qui la storia comincia con un botto interrotto (leggere per credere), continua come in un romanzo di Sciascia (c’è di mezzo un presunto manoscritto attribuito all’anarchico russo Necaev, che non si capisce se è autentico o un falso, ma che trova un editore italiano interessato a pubblicarlo: del resto, «il falso in Italia è industria nazionale»), quindi, tra rapimenti simulati e inseguimenti vari, si finisce immersi nelle complicate trattative per l’allestimento di un’intervista televisiva a un eccentrico sceicco del Golfo, che anziché comprarsi il Paris St. Germain (siamo solo nel 1981) decide di investire i suoi petrodollari nell’acquisto di un’antica miniera in Austria, per motivi che appaiono da subito loschi e farseschi al tempo stesso – dove però l’intervista è solo la copertura per un incontro segretissimo fra emissari NATO e il suddetto sceicco allo scopo di negoziare un possibile scambio di favori. Assolutamente nulla di banale o scontato, anzi (certo, la cellula terroristica maghrebina nascosta nell’hinterland milanese oggi può apparire triviale, ma – ripeto – siamo solo nel 1981). Il tutto condito oltretutto con considerazioni spesso acute, e mai didascaliche, sul ruolo dei mass-media nella diffusione del terrore o sulle difficoltà del dialogo interculturale («voi dell’Occidente, tranne pochissime eccezioni, non riuscite mai a capire la mentalità araba. Ecco perché i vostri uomini d’affari hanno bisogno di persone come me che la interpretino per loro. Che interpretino non solo le parole, ma gli atteggiamenti e gli stati d’animo. L’inglese che parlo io è diverso dal vostro. Lo avrà notato»). Con una morale un po’ cinica, ma efficace, e forse adatta al caso nostro: che le guerre mondiali rischiano di nascere più per errore e per imperizia che per scelta. «Il potere effettivo è in mano a coloro che hanno la capacità catalitica di provocare reazioni incontrollabili». Bene, bravo, d’accordo, svariati like di approvazione perché in fondo ci piace, però – onestamente – qui la tira un po’ troppo per le lunghe, mentre i thriller sono invece in buona parte una questione di tempi. Il catalogo ambleriano offre di meglio: tornare su questi passi se si è completisti.


(finito il 28 novembre 2016)

Ho parlato di



Eric Ambler
Tempo scaduto
(Adelphi, 2004)

trad. di A. Terzi

345 pp., | 10 €

(ed. or. The Care of Time, 1981)

venerdì 23 dicembre 2016

Furore

«Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutt’i posti... dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. (...) Sarò negli urli di quelli che si ribellano... e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito... be’, io sarò lì». Ciò detto, quando il libro non è ancora finito, Tom Joad esce di scena. Come in un’ascensione laica, i suoi contorni si sfumano e la sua figura evapora al nostro sguardo finché non ci sembrerà di intravederla ancora, muta ma interrogante, su un barcone alla deriva nel Mediterraneo o in una carovana in fuga da Aleppo (anche se non disdegna di transitare a Stoccolma, dove di tanto in tanto gli rinnovano un Nobel per interposta persona: in questo gli Accademici di Svezia hanno del metodo). Questo gran colpo di teatro è uno dei tanti modi attraverso cui il cronista Steinbeck modella la realtà di cui ha avuto testimonianza diretta e di cui fornisce anche una lucidissima interpretazione socio-economica, quella delle migrazioni di massa dei contadini durante la Grande Depressione, in modo da trasformarla in una parabola universale, che fornisce chiavi di lettura spendibili anche nel tempo presente. Perché c’è così tanta America, qui, con tutti i suoi miti fondativi (dalla Route 66 alla corsa verso la California), quasi in un controcanto “di terra” a quell’altro grande romanzo americano “di mare” che è Moby Dick (così simili, i due – entrambi apocrifi moderni della Bibbia), eppure, pagina dopo pagina, leggi sì nomi come Hooverville o Lawrenceville ma nella tua testa traduci sempre più spesso con Rosarno o Gorino. «La lingua è la stessa, sì, ma loro sono diversi. Guarda come vivono. Pensi che uno di noi vivrebbe in quel modo? Manco morto!». «Gli sceriffi assoldarono altri vicesceriffi e ordinarono altri fucili; e la gente comoda nelle case asciutte provò dapprima compassione, poi disgusto, infine odio per la gente affamata». «Quando c’era lavoro per un uomo, dieci uomini lottavano per averlo – e la loro unica arma era il ribasso di paga. Se quello lavora per trenta centesimi, io ci sto per venticinque. Se quello lavora per venticinque centesimi, io ci sto per venti. No, pigliate me, ho fame. Lavoro per quindici centesimi. Lavoro per qualcosa da mangiare. Pigliate me. Lavoro per un pezzetto di carne. Ed era un affare, perché le paghe scesero e i prezzi rimasero alti. In attesa di tornare ai tempi della schiavitù. E i soldi che potevano servire per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare e reprimere». E si potrebbe andare avanti, fino all’insostenibile descrizione della distruzione della frutta nelle piantagioni sotto lo sguardo basito di gente affamata che si accontenterebbe di arance marce, perché troppa produzione non genera profitto. «Quando uno ha un tiro di cavalli, non si mette a fare l’inferno se gli deve dare da mangiare pure quando non lavorano. Ma se invece ha degli uomini, non gliene frega un accidenti. É come se i cavalli sono più importanti degli uomini. Non lo capisco». Furore è un bagno ristoratore di pietà, e già solo per questo – in un tempo avvelenato quale il nostro – fa bene al cuore. Ma non si limita a gridare contro il cielo: qualche nome e cognome lo fa, una bella grattata alla retorica razzista la dà, certi puntini li unisce – e per questo fa bene anche al cervello. 

P.s. Ovviamente Furore non lo scopro certo io, che semmai sono in ritardo di anni. Però questa traduzione è la prima versione davvero integrale uscita in Italia, per cui anche chi l’avesse già letto potrebbe farci un pensierino.

(finito l'11 novembre 2016)

Ho parlato di



John Steinbeck
Furore
(Bompiani, 2013)

trad. di S. C. Perroni

633 pp. | 14 €

(ed. or. The Grapes of Wrath, 1939)

martedì 6 dicembre 2016

Il Vangelo basta

I giornalisti la metterebbero giù più o meno così: nel maggio 2009 un gruppo di cattolici dissidenti si ritrovò a Firenze per confrontarsi sullo stato della Chiesa italiana dopo la lunga stagione dominata dalla presidenza del cardinale Ruini e senza saperlo formulò i punti chiave di quella che sarebbe stata l’agenda di papa Francesco. Cosicché il testo che raccoglie i fili di quel dibattito, se letto oggi, quando molti dei suoi spunti sono stati di fatto incardinati solennemente nel magistero petrino, perde un po’ il suo originario carattere di pensosa e sofferta dichiarazione di battaglia sollevata in nome della parresia evangelica, per assumere quello di documento relativo a una fase storica che a prima vista può apparire remotissima, anche se poi così non è, come dimostrano le forti resistenze interne all’azione pastorale di Bergoglio. Qui si vola alto per tuffarsi in basso. Si discetta di teologia trinitaria per esplorare il paradosso di un Dio demetafisicizzato dalla cui interna alterità sgorga una proiezione inclusiva dispiegata dalla creazione all’incarnazione, dalla croce al “terzo testamento” in cui è raccolta ogni azione umana che apre nuove vie verso la verità. E ci si occupa di teologia sacramentaria per ribadire l’autocomprensione anticlericale della Chiesa emersa dal Vaticano II quale comunità di battezzati contraddistinti da un’analoga dignità e dalla disposizione all’ascolto di un Vangelo chiaro quanto basta per aprire incessantemente cammini di conversione che spingano a farsi umilmente compagni di strada in tutte le periferie dell’impero, «nel luogo delle vittime», per contestare tutti i «poteri che si ingrassano sulla sofferenza delle persone». Insomma, la Chiesa non è il Vangelo, «non ha da testimoniare se stessa; non può dire: “guardate me!”, perchè non sempre è credibile ed esemplare. Ha da comunicare la bella notizia che c’è perdono e salvezza per noi peccatori; che un altro mondo è promesso; che questo regno è già qui, nascosto e disconosciuto, ma creduto e vissuto dai poveri e umili, che sperano e cercano, e invocano e gridano al cielo e alla terra; che questo regno è qui, ma deve venire, e il tempo non è tutto qui, ora, non è nelle mani dei vincitori del momento. La chiesa ha da trasmettere speranza, non da indottrinare con teorie; ha da dire la verità, la quale, più che una dottrina, è una vita tesa nella ricerca e nella sincerità; ha da servire il mondo, non governandolo, ma come “diacono” (servitore) che provvede per tutto quanto può alla fame e alla liberazione degli ultimi. La chiesa fatta di chiese, la chiesa plurale ha, come ognuno di noi personalmente, e ognuno di noi per primo, da convertirsi al Vangelo. Nel vivere la conversione continua, dirà e mostrerà al mondo la verità che le è stata consegnata, che in ogni tempo vuole essere di nuovo tradotta in lingue di fuoco che scaldano e danno forza». Che è poi la teorizzazione del genuino relativismo cristiano, quella “riserva escatologica” «che ci fa giudicare le realtà di questo mondo come relative, se lette nei termini del Regno che viene», che ci esorta a diffidare «di un cattolicesimo etico, metafisico e politico, dove non si sa più dove sia stato messo Gesù Cristo» e che ci spinge a denunciare come idolo Dio stesso «quando lo mobilitiamo al servizio dei nostri disegni», appiattendolo su un’idea di natura, di legge e di identità culturale prosciugata di ogni speranza perché funzionale solo all’organizzazione dell’esistente. In questo senso, il Vangelo “basta”. É l’unico principio non negoziabile. Del resto, come scriveva Pasolini, se «il Papa andasse a sistemarsi in clergyman, coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancio o del Tuscolano, non lontano dalle catacombe di San Damiano o Santa Priscilla, la Chiesa cesserebbe forse di essere Chiesa?». 

P.s. Per ironia della sorte, poi un convegno ecclesiale nazionale a Firenze si è davvero tenuto, nel 2015, e anche lì si è volato alto...

(finito il 19 settembre 2016)

Ho parlato di



Alberto Melloni, 
Giuseppe Ruggieri (a cura di)
Il Vangelo basta
Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana
(Carocci, 2010)

160 pp. | 17,50 €