martedì 17 giugno 2025

Le avventure di Gordon Pym

Tra le innumerevoli ragioni per cui mi sento profondamente riconoscente alla vita, non considero certo secondario l’aver avuto accanto alcuni amici che - all’epoca delle primissime scelte autenticamente personali, quando si comincia a delineare in modo più netto il profilo della propria identità - non solo non mi hanno fatto pesare la passione per la lettura come qualcosa di cui vergognarmi, ma l’hanno anzi condivisa con me, sostenendola e nutrendola attraverso scambi, consigli, prestiti e discussioni, che potevano riguardare libri, certo, ma pure fumetti o riviste, come accadeva fino a quattro minuti prima che arrivasse anche da noi internet. Devo, appunto, a uno di loro (chissà se si riconoscerà in questo ricordo?) e al fatto che mi abbia un giorno messo in mano un volumetto economico contenente alcuni racconti di Poe (quelli “del terrore” – recitava il titolo: e c’era sicuramente dentro Il gatto nero e poi Il cuore rivelatore, La maschera della Morte Rossa e, ovviamente, il più agghiacciante e amato di tutti, Il pozzo e il pendolo), se nel volgere di un pomeriggio appena di prima media acquisii così tanti punti esperienza da sbloccare un livello di crescita del mio personaggio e ritrovarmi, quasi di colpo, un lettore adulto. Avendo sostanzialmente snobbato la letteratura per ragazzi pubblicata quand’ero ragazzo, e teoricamente prodotta proprio per soddisfare quelle che si presumevano essere le esigenze di un preadolescente degli anni ‘90, è invece a partire dagli scritti di quell’inquieto poeta americano morto più di un secolo prima che si è man mano forgiato il mio immaginario personale – e sebbene si sia trattato di un immaginario ancora in gran parte ottocentesco, tenderei a dire che non mi è andata poi così male.

In questo percorso di iniziazione, il Gordon Pym si rivelò presto un passaggio pressoché obbligato. Nel «divorante desiderio» di salpare che spinge il giovane protagonista del romanzo a litigare coi suoi stessi genitori pur di imbarcarsi su una nave e abbandonare la terra ferma si rispecchiava, in un certo senso, la mia analoga, vorace, frenesia di prendere ancora una volta il largo fra le pagine di un nuovo libro, come se non ne avessi mai abbastanza, mosso nella fattispecie da irrefrenabile curiosità – spontanea, genuina, commovente curiosità che si può avere solo ad un’età in cui tutto è davvero una continua scoperta – per quella che, a prima vista, si presentava come una grande avventura di mare affine ai cicli salgariani di cui fin lì ero stato cultore, ma che, al tempo stesso, - per quanto, nel frattempo, avevo già annusato di Poe - avevo anche sentore dovesse contenere qualcosa di più, e comunque di molto diverso da ciò a cui ero abituato. Ovviamente non restai deluso (anzi: non restammo, giacché quella lettura, come dicevo, fu condivisa). C’è davvero di tutto, qui dentro – naufragi, ammutinamenti, silenziosi velieri alla deriva con i loro equipaggi di cadaveri devastati da misteriose malattie, banchi di squali pronti ad avventarsi su ciò che resta di corpi mutilati, ammazzamenti vari, compresa una terrificante scena di cannibalismo preceduta da un’ancor più terrificante sequenza di sorteggio per stabilire chi sarebbe stato sacrificato in modo da garantire la vita agli altri (è l’episodio che più mi rimase impresso e che non ho mai scordato) – come una continua, ossessiva, sfida alla morte, quanto basta per far provare a un dodicenne più di un brivido per il presagio che essa effettivamente è lì fuori, perennemente in agguato, e ci dovrai fare ben presto i conti, e imparare a considerarti un reduce per ogni giorno in più che ti viene dato di stare in terra, stemperato però dalla sensazione di essere in fondo ancora al sicuro, ben protetto sotto le coperte spesse del tuo letto mentre leggi di questi sventurati a cui ne capitano letteralmente di tutti i colori. E se da allora in poi mi ero tenuto alla larga da questo libro non era per la paura di riprovare quella stessa paura, ma – tutt’al contrario – per il timore di non provarla più allo stesso modo e di dover perciò ridimensionare il valore delle emozioni vissute allora, al momento giusto, come accade quando rivedi da grande un film che da piccolo ti aveva spaventato a morte e non ti capaciti di come i suoi pessimi effetti speciali possano averti suscitato tanto orrore. Finché, a un certo punto, ha prevalso il desiderio di averne una copia a portata di mano e, in una di quelle interminabili pause di stasi in mezzo alla maturità, mi è venuta la voglia di correre il rischio e rileggerlo da cima a fondo.

Quel che ci ho ritrovato, inevitabilmente, sono stati sparsi, ma ben definiti, pezzi di me. Mi rivedo chiaramente, poco più che bambino, mentre abbocco all’amo delle coordinate fornite da Poe e mi metto a tracciare a matita sul mio atlante De Agostini la rotta che a un certo punto spinge Gordon Pym e i suoi compagni a costeggiare quello che mi è sempre apparso come l’autentico orlo del mondo, l’estrema propaggine meridionale del globo, ancora in gran parte incognita a inizio Ottocento, memento di tutti i luoghi che per un uomo sarebbe meglio non esplorare, come ebbe a imparare a sue spese, nella versione dantesca, il prototipo di tutti gli altri escapisti della morte, Ulisse, a cui qui non sarebbe riuscito l’ultimo trucco. Non saprei dire quali siano, rispettivamente, la causa e l’effetto, ma è un fatto che, nella mia generale suggestione verso le regioni più isolate della Terra (che spinse mia moglie a regalarmi un giorno il bellissimo Atlante delle isole remote), un posto privilegiato hanno proprio le lontanissime terre australi, luoghi come l’isola della Desolazione, Tristan da Cunha, le Crozet, con le loro coste battute da correnti gelide dove vanno a morire i ghiacciai e su cui si agitano solo colonie di pinguini, foche, albatros ed elefanti marini, senza la minima presenza umana. Le isole Kerguelen, che ebbero qualche minuto di gloria perché toccate da Cook nel terzo dei suoi viaggi, sono qui presentate con dovizia di particolari come «uno dei luoghi più desolati e abbandonati del globo», ma non è ancora nulla. Quando la navigazione supera la banchisa polare e la spedizione trova un passaggio per dirigersi sempre più a sud, Poe si immagina che le condizioni climatiche paradosalmente cambino, diventando meno estreme, senza che però questo renda meno inquietanti i panorami. «Era un luogo d’incredibile desolazione, il cui aspetto mi evocò alla mente le descrizioni fatte dai viaggiatori spintisi nelle squallide regioni ove sorgono le rovine dell’antica Babilonia. Senza tener conto della massa di detriti caduti dalla collina sconvolta, che chiudeva come una barriera informe tutto l’orizzonte settentrionale, la superficie del terreno era fittamente disseminata di tumuli giganteschi, forse i resti di mastodontiche costruzioni dovute all’opera di creature titaniche, benché a un più minuto esame risultassero privi di ogni parvenza d’arte umana. V’erano scorie da per tutto e grandi informi blocchi di granito nero, frammisti ad altri di marna, sia gli uni che gli altri irruviditi da granulazioni metalliche. Di vegetazione, in quel tratto brullo oltre ogni dire, neppure l’ombra. Vedemmo soltanto alcuni scorpioni enormi e vari rettili che non si trovano altrove a latitudini così elevate». Così, in appena dieci righe è contenuto in nuce tutto il materiale che esploderà cent’anni più tardi nella cosmogonia di Lovecraft (e a questo punto devo aggiungere che anche Le montagne della follia fu un passaggio obbligato delle nostre letture e che questo concentrato di fantasie ci indusse persino ad abbozzare la stesura di un romanzo a più mani in cui ciascuno, a rotazione, avrebbe dovuto realizzare un intero capitolo cercando di lasciare il racconto in sospeso alla fine della sua parte, per stimolare, di volta in volta, l’inventiva di chi fosse venuto dopo: l’ambientazione da cui partimmo, manco a dirlo, fu proprio un centro di ricerca al Polo Sud).

Più ancora di tutto, forse, a segnarmi fu la precoce presa di coscienza che il terrore è tanto più forte quanto meno è definito il suo oggetto, ovvero che «l’agghiacciante orrore a volte provocato debba attribuirsi, anche nei casi più clamorosi e nei quali fu sperimentata una vera e propria ambascia fisica, più a una paura fatta di presaga inquietudine che l’apparizione possa essere reale che non all’assoluta certezza della sua realtà». Questa sensazione è tipica dei racconti di Poe e vale qui soprattutto per la visione finale (altro ricordo indelebile), spaventosa non per il suo contenuto, ma per la sua incomprensibilità e il suo irrudicibile mistero, su cui il libro stesso magistralmente si chiude, pur avendo annunciato, in corso d’opera, che a Gordon Pym sarebbero toccate «mille avventure (…) in nove lunghi anni», di cui non sappiamo però assolutamente nulla. Se i malcapitati, a quel punto, fossero infatti sprofondati nell’abisso e riemersi nella terra cava, avremmo avuto a che fare con un Burroughs qualunque (Edgar R., non William S.), mentre è l’assoluta trascendenza dell’ignoto a spaventare e a sedurre a un tempo, ad esercitare una forza attrattiva quasi incontenibile, per quanto potenzialmente persino autodistruttiva. Ed è proprio questo genere di esperienza ciò che, sotto sotto, da allora in poi, ho sempre continuato a cercare, criterio dirimente per separare, nella letteratura fantastica, l’essenziale da ciò che invece è trascurabile.

(finito il 1 luglio 2022)

Ho parlato di


Edgar Allan Poe
Le avventure di Gordon Pym
(Rizzoli 2009)

trad. di M. Gallone

240 p. | 8 €

(ed. or.: The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1838)

giovedì 5 giugno 2025

Il mondo sommerso

Ecco, io, per esempio, di questo libro qui non sarei più capace di ricostruire oggi la trama esatta, e senza l’aiuto di qualche sbirciatina in rete non sarei stato in grado di riprendere neppure per linee generali il capo e la coda degli eventi che vi sono narrati per darne un’idea a voialtri ipotetici miei interlocutori. Mi si potrà dire che è passato troppo tempo dalla lettura – ed effettivamente è vero; così come è vera quell’altra cosa che si potrebbe anche dire, ossia che questo libro qui appartiene a quel genere di testi la cui trama esatta non conta poi forse ricordare più di tanto, perché pensato piuttosto per essere fruito quasi come se fosse un condensato allucinogeno di frasi sintetizzate fra loro allo scopo di simulare l’effetto prodotto dall’azione prolungata di molecole di acidi sulla corteccia cerebrale del lettore, che dunque, man mano che procede nella storia, meno sembra anche capire quale direzione essa stia prendendo. Tutto ineccepibile, se non fosse che a venire a galla, in questo modo, non è altro che la mia forma naturale di praticare l’esercizio della lettura, non solo come folle rincorsa verso il finale, né tantomeno come dotto esorcismo contro la noia, bensì quale autentica attività immersiva attraverso cui esplorare virtualmente tutti quei mondi possibili preclusi alla nostra limitata esperienza fisica – proprio come accade con certi sogni, le cui atmosfere inquietanti o gioiose (per mia fortuna ho fatto esperienza d’entrambe) possono impregnarti a tal punto l’immaginario da segnarti tutta la vita, nonostante le numerose incongruenze interne e i loro clamorosi buchi di sceneggiatura, che in fondo non interessano a nessuno.

La meraviglia impagabile di questa attività così semplice è che per innescare tali viaggi può bastare anche un thriller post-apocalittico come quello di cui dovrei parlare, che è per inciso uno dei primissimi romanzi pubblicati da un giovane Ballard, all’inizio degli anni ‘60, quando, con ampio anticipo sulla transizione ecologica e persino sulla crisi petrolifera, la questione dei cambiamenti climatici che vi è sottesa non era ancora diventata il luogo comune a cui rischiamo purtroppo di assuefarci prima di essere riusciti a trovargli una soluzione in grado di salvarci. Lo scrittore inglese si immagina infatti che, in un futuro non troppo remoto, senza neanche bisogno di attendere l’effetto dell’azione autodistruttiva dell’uomo, il combinato disposto di violente tempeste solari e dell’allargamento delle fasce di Van Allen abbia determinato un generale surriscaldamento dell’atmosfera terrestre, con il conseguente scioglimento dei ghiacci polari, la liquefazione del permafrost e il progressivo innalzamento del livello del mare, fino al punto di trasformare irrimediabilmente il profilo delle terre emerse cui siamo abituati sotto l’incedere di una dilagante pantalassa e dei milioni di metri cubi di sedimenti che essa trascina con sé: in questo nuovo mondo un golfo d’America esiste sul serio, non solo nella mente di Trump, e corrisponde grosso modo alla distesa d’acqua che ha inondato le grandi pianure del Midwest, mentre quella che un tempo era stata l’Europa si è trasformata in un reticolo di gigantesche lagune tropicali. I cinque milioni di Sapiens ancora in vita si sono spinti sempre più a nord o a sud, colonizzando l’Antartide e le aree artiche di quanto resta di Russia e Canada per sfuggire al soffocamento, alla disidratazione e alle radiazioni generate in quelle saune perenni che gli antichi avevano battezzato zone torride e che solo adesso sono diventate realmente inabitabili per l’uomo. Di tanto in tanto, però – il racconto comincia all’incirca così – qualche équipe di scienziati si avventura ancora nelle aree non totalmente inospitali per effettuare incursioni e rilevamenti sui fondali dove riposano quali novelle Atlantidi le grandi metropoli della fu modernità trionfante. Ed è qui, nel bacino da cui affiorano le memorie della gloriosa Londra, che uno di questi gruppi di ricercatori si imbatte in un personaggio quanto mai ambiguo, detto Strangman, «mezzo pirata e mezzo demone», vero erede di una lunga tradizione di antieroi del mare che risale fino a Melville e Conrad, «con la sua faccia bianca e sorridente e i lineamenti crudeli che si acuminavano come frecce quando sorrideva», «lo sguardo viscido» e il volto stesso «simile a un teschio», perennemente vestito di bianco come gli scheletri in smoking del quadro di Delvaux, il cui aspetto è reso ancora più sinistro dal contrasto con la ciurma di neri deferenti che presta servizio sul suo panfilo kitsch zeppo di robaccia trafugata qua e là e spacciata per vera arte. Sarà appunto l’irrompere sulla scena di quest’uomo dalla dubbia moralità, che si circonda di giganteschi alligatori come se fossero cani da caccia, a dare improvviso e brusco movimento a una vicenda che pareva invece destinata lentamente ad assopirsi come un sole morente.

Ma, come dicevo, di queste peripezie poco ricordo. Invece, sin dalle prime righe, anche se non capita quasi niente, quel che si è impresso indelebilmente nella mia fantasia è stato lo scenario in cui si muovono i personaggi del romanzo. Se chiudo gli occhi, me lo vedo davanti. Tra i resti ancora affioranti degli edifici prosperano infatti ormai «le fronde verde cupo delle gimnosperme, residuo del triassico», e «adagiati sulle poltrone e sulle finestre di quelle che una volta erano state sale di importanti di consigli di amministrazione, i rettili avevano preso possesso della città», tornando ad essere, «dopo milioni di anni, (...) la forma di vita dominante». Con le «loro teste antiche e impassibili», le iguane riattivavano nei loro osservatori umani «arcaiche memorie delle giungle terrificanti del Paleocene», rinnovando «l’ostilità implacabile che una classe zoologica prova nei confronti di un’altra che ne ha usurpato il posto». Al posto della frenesia degli assembramenti automobilistici delle nostre tangenziali è subentrata una tersa quiete meridiana, e con essa il sovrumano silenzio degli spazi primigeni, l’indescrivibile solitudine degli oceani, ma anche «il rallentamento del metabolismo e il regresso biologico che si manifestano in tutte le forme di vita animale in procinto di affrontare importanti metamorfosi». Come in una pausa di sospensione prima di una nuova accelerazione evolutiva, suggestionata dall’umidità che aleggia perennemente su questi mari caldi analoghi a quelli del Cambriano, la coscienza dei protagonisti sembra riadattarsi a condizioni di vita preumane e, sempre più incapace di distinguere chiaramente sonno e veglia, pare a un passo dal collassare a uno stadio ancor più arcaico di quello bicamerale. «Stiamo precipitando nel nostro passato archeopsichico, riscoprendo gli antichi tabù e gli istinti primordiali rimasti sopiti per migliaia di anni. Il pensiero della brevità della singola vita umana è fuorviante. Ognuno di noi ha la stessa età dell’intero regno biologico e il nostro flusso sanguigno è immissario dell’immenso oceano della sua memoria collettiva. L’odissea uterina del feto in crescita riassume in sé l’intero passato biologico e il sistema nervoso centrale del feto è una tabella temporale codificata, in cui ogni connessione di neuroni e ogni livello spinale rappresentano stadi simbolici, un’unità di tempo neuronico».

Ecco perché, più che andare avanti con la storia, qui poco per volta si scende. L’acqua che sommerge inesorabilmente i prodotti di una storia durata appena un battito di ciglia, su scala cosmica, ci riporta infatti alla nostra origine protozoica, prefigurando il nostro riassorbimento in quello stesso accogliente liquido amniotico planetario da cui a un certo punto siamo affiorati, forse per sbaglio, convinti d’essere più che una semplice variazione sul tema, una buffa fantasia passeggera delle sempiterne piante, l’increspatura onirica che ha turbato per un attimo il perenne sonnecchiare della Terra. Trascinati «in calde profondità traslucide dove le realtà puramente nominali del tempo e dello spazio cessavano di esistere», gli ultimi uomini di cui parla il libro sembrano chiudere definitivamente il cerchio cosmologico fissato dalla Moira, esaurendo il ciclo vitale della nostra specie con larghissimo anticipo rispetto a una sua eventuale migrazione interplanetaria. Qualcuno comincia a capire che resistere non ha più senso. Al più lucido, che però vuol dire anche il più folle, fra loro non resta che imbarcarsi in una apparentemente insensata «odissea verso sud», attratto da un atavico e inspiegabile richiamo primordiale, «come un sognatore alla disperata ricerca di una porta che lo conducesse fuori dal suo incubo». Tutto ciò che siamo stati verrà digerito, assimilato e riutilizzato. Ci vorrà il suo tempo – ma all’universo, a differenza che per noi, questo non manca.

(finito il 16 giugno 2022)

Ho parlato di


J.G. Ballard
Il mondo sommerso
(Feltrinelli 2005)

trad. di S. Massaron

200 pp. | 7,50 €

(ed. or.: The Drowned World, 1962)






lunedì 28 aprile 2025

I geroglifici e la croce

Per un po’ a questo gioco ho partecipato anch’io, per cui ne parlo con cognizione di causa. Facili le regole base: si prende un outsider della filosofia (ai tempi, il mio cavallo di battaglia preferito fu Francisco Sanchez, che come carneade funziona doppiamente bene, essendo stato scettico anche lui – ma di analoghi derelitti abbandonati negli orfanotrofi della storiografia ne ho adottati anche altri, in occasioni diverse) e gli si dedica un saggio, un contributo, un minuto in una conferenza per dire che dopotutto le interpretazioni fin lì offerte sul suo conto, ancorché legittime, sono leggermente sfocate o limitate o del tutto fuorvianti e che è venuto finalmente il momento di riconoscere a costui il giusto posto che gli spetta nella storia del pensiero, che di solito si rivela essere quello di aver fatto da imprescindibile nodo di collegamento (o “cinghia di trasmissione”, come credo di aver detto il giorno della mia laurea) tra qualche altra quinta o sesta linea di rincalzo dell’avanguardia intellettuale dell’umanità. In questo modo, senza arrischiarsi in un pericolosissimo confronto diretto con i pesi massimi, dal quale si uscirebbe inevitabilmente con le ossa rotte, si può sperare di innescare il sollevamento dell’olimpico sopracciglio di qualche nume accademico e guadagnare nientepopodimenoche l’ambitissimo riconoscimento di “pionieristico” al proprio studio. Si capisce allora perché ho provato immediata simpatia verso Giuliano Mori, che a occhio e croce è più giovane di me, ma ha già fatto più carriera di quanta ne abbia mai fatta io, quando ho constatato nel suo libro l’allineamento di tutti questi segni applicati al caso di un minore emerito come Athanasius Kircher, uno al quale persino la letteratura popolare ormai riserva la sua irrisione in quanto prototipo del sapiente ottuso, di quelli – cioè – che conoscono già le cose prima di averle viste e negano pure l’evidenza se questa non si conforma al loro pregiudizio. Lo dico davvero senza ironia, se non quella che ricade anche sul sottoscritto: noi sottospecie di umanisti intenti a studiare cose bellissime, ma non immediatamente spendibili in società, siamo costretti a raccontarcela un po’ per cercare di dimostrare che quel che facciamo effettivamente un senso ce l’ha, anche se interessa giusto quattro altri dissociati come noi sparsi su tutta la Terra – e tanto più ne abbiamo bisogno, per farci coraggio, quando ci addentriamo per la prima volta, con tutta la circospezione del caso, nelle sconfinate praterie della ricerca, dove ad ogni passo rischi di cadere in trappola e diventare pasto per gli affamati avvoltoi appostati sulle guglie del Parnaso. Ma una volta pagato questo modesto dazio alla retorica automotivante, che piacere concedersi il lusso di curiosare, per il puro gusto di farlo, un testo che, a rigor di logica, non avrebbe invece nessun senso leggere, se non per postillare con l’ennesima nota una tesi di dottorato.

Ora, di tutte le cose di cui si è occupato Kircher – e sono veramente tante: all’epoca, piaccia o no, passava per uno che sapeva davvero tutto – qui il focus cade sull’egittologia, e in particolare sulla sua convinzione di aver finalmente individuato un metodo per portare alla luce, dopo millenni, l’autentico significato dei geroglifici, con il loro contenuto di verità riposte ai non iniziati. Pazienza se tale opera di decodificazione si basi su un doppio errore di fondo, concettuale (il considerare, cioè, il geroglifico come un linguaggio simbolico e non fonetico) e materiale (l’impiego, come chiave per la traduzione, non già della Stele di Rosetta, ancora sepolta sotto le sabbie, ma della Tabula Bembina o Mensa Isiaca, manufatto bronzeo che con ogni probabilità non era neppure egizio, bensì una copia romana di età imperiale, le cui iscrizioni simulavano dunque solo l’estetica dei geroglifici senza esserlo davvero), perché ben più importante è il presupposto soggiacente a questo lavoro, ovvero la ripresa di un vecchio tema apologetico adattato però ai nuovi scenari della propaganda fide seicentesca e sorprendentemente valido, depurato di tutte le sue pesantezze antiquarie, e pur con tutto il suo carico di problematicità, anche per la moderna teologia delle religioni. Al fondo del progetto kircheriano sta infatti l’idea di una rivelazione implicita condivisa da tutti i figli di Adamo e dunque presente in nuce in tutte le culture della Terra, anche se andata incontro a un processo di progressivo oblio dei propri principi originari e dunque a una sorta di snaturamento, quando, smarrito il suo senso profondo, si è cominciato a venerarne il mero rivestimento, proprio come accaduto, appunto, con i geroglifici – poco più che stilizzati disegnini per chi non è in grado di penetrarne il mistero – e soprattutto con le diverse divinità dei pantheon pagani, divenute distinti oggetti d’adorazione anziché manifestazioni, o avatar, dell’unico Dio, come invece dovrebbero essere considerate.

«Tutte le culture, tutte le lingue e tutte le religioni si possono ricondurre a un’unica origine divina, che deve essere riscoperta e restaurata», ragion per cui compito specifico della Chiesa sarà quello di inviare «i suoi missionari non a convertire, ma a richiamare i popoli idolatri all’originale conoscenza del vero Dio che essi avevano dimenticato», ovvero «a liberare quei nuclei di spiritualità delle impurità idolatriche e riportarli alla loro pratica più corretta». Da buon gesuita seicentesco, Kircher, quando pensa all’Egitto e ai suoi dei ha infatti soprattutto in mente Confucio e quella Cina in cui i suoi confratelli euclidei si vestivano come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming. E forse ha ancora più in mente le chiese protestanti, che, scavando un solco invalicabile tra ciò che sta prima e ciò che sta dopo Cristo, ciò che sta sotto la Grazia e ciò che resta irrimediabilmente al di fuori di essa, avrebbero smarrito la dimensione propriamente “cattolica” salvaguardata invece dalla Chiesa romana, con la sua volontà (almeno ideale) di abbracciare e accogliere all’interno del colonnato di San Pietro tutti i popoli, affratellati dalla comune paternità di Dio. Di questa comune radice gli Egizi sarebbero stati i più consapevoli fra i gentili, assai più di quanto lo fossero gli stessi greci, se non altro per l’antichità della loro cultura, la cui origine è da Kircher stesso fissata all’anno 1984 dopo il diluvio, ovvero al tempo della prima dispersione delle stirpi avvenuta in quel di Babele. All’epoca la sapienza adamitica era ancora patrimonio diffuso e poté così condensarsi in dottrine coltivate per secoli all’ombra delle piramidi, finché, smarritone il senso, il Verbo stesso si è incarnato per restaurarne e restituircene l’autentico significato, che per Kircher coincide sostanzialmente con una concezione quadripartita della realtà, convergente però verso un unico punto centrale, come rappresentato plasticamente da quell’altro manufatto tipicamente egizio, l’obelisco, le cui quattro facce piegano infatti tutte verso un medesimo vertice. Il disegno può apparire non del tutto innocente e tradire un impulso assimilazionista, ma al tempo stesso offre anche una base per provare a impostare un’opera di dialogo interculturale finalizzato a far emergere in ogni cultura il vero e il buono che, seppur detto con espressioni differenti, rivela l’umano comune fatto a immagine di un Dio sempre più grande di qualsiasi formula entro cui lo si voglia intrappolare. La tesi «secondo cui l’unità non esclude la molteplicità e la molteplicità non impedisce l’unità» costituisce infatti per Kircher «il più dolce frutto della sapientia degli antichi» e permette di «conoscere la molteplicità delle forme che Dio può assumere, le quali tuttavia sono congiunte in una stretta unità e insieme compongono l’immagine della divinità». Altro che mero divertimento erudito, siamo addirittura dalle parti di Von Balthasar. E anche se non sarà più un gesuita come loro, in pratica è anche un pezzo dell’agenda del prossimo papa.

(finito il 12 giugno 2022)

Ho parlato di


Giuliano Mori
I geroglifici e la croce. 
Athanasius Kircher tra Egitto e Roma
(Scuola Normale Superiore 2016)

175 pp. | 9,50 €

sabato 5 aprile 2025

La sinagoga degli zingari

Il fatto che scriva delle mie letture in netto ritardo rispetto a quando le ho fatte mi permette, tra l’altro, di ricordare a me stesso che sono passati appena tre anni, e non trecentocinquanta, come a tratti invece mi sembra, da quando riuscivo a prendermi, perfino in mezzo alle correnti tumultuose del pentamestre, delle pause sufficientemente lucide per sprofondare tra le pagine di un libro anziché collassare e basta sui cuscini del divano, appena in grado, tutt’al più, di scrollare inebetito video di vecchi sketch comici o di talk-show a tema calcistico – quando, per dire, il Pastor a cui prestavo attenzione era appunto una scrittrice di accurati romanzi storici tinti di giallo (sotto pseudonimo) e non il sia pur brillantissimo commentatore sportivo capace di ricordare i marcatori di un oscuro Vicenza-Reggiana stagione ‘96-’97. É stato possibile, e dunque lo sarà ancora, per forza, e sinceramente non vedo proprio l’ora che questo accada.

Tornerà perciò il momento in cui potrò anche soddisfare di nuovo il piacere di raccogliere da un saggio o da un romanzo informazioni e atmosfere da rifondere in un buon racconto per i miei studenti, unito a quello, parallelo, di placare le curiosità personali che inevitabilmente sorgono proprio nel momento in cui assembli con un po’ più di attenzione i vari pezzi del puzzle e scopri quanti dettagli sorprendenti rischiano di restare nascosti dietro alla confortevole sintesi dei manuali scolastici. Come a un attore che riflette su cosa non è andato per il meglio nell’interpretazione della sera prima, anche a me quest’esigenza sorge di solito a posteriori, dopo una lezione in cui non mi è sembrato di aver detto le cose come avrei dovuto e potuto, magari perché incagliatomi, nell’esposizione, su un punto evidentemente poco chiaro prima di tutto a me stesso. Nella fattispecie, è stato con la promessa di darmi un’idea più vivida di un crocevia novecentesco quale l’inferno di Stalingrado che questo libro mi ha tentato e mi ha sedotto.

Quel che non sapevo in partenza, ma ho ricostruito solo a posteriori, è che il romanzo in questione non è che l’ultimo di una saga composta, al momento, da oltre dieci volumi, in ostentata continuità con i classici del feuilleton – a cui rimanda persino l’elenco iniziale dei personaggi, con tanto di mansione ricoperta nell’opera – sebbene poi dell’intrattenimento puro violi apertamente una delle regole base, quella, cioè, che proibirebbe nel modo più assoluto di anticipare i finali, dal momento che l’ordine di pubblicazione non coincide con l’ordine cronologico degli eventi e del protagonista si sa perciò già che in qualche modo riuscirà a tirarsi fuori dalla sacca in cui restò impantanata l'Armata di Paulus, in quanto il settimo episodio della serie lo ritrae operativo nella Salò repubblichina dell’ultimo autunno di guerra. Apprezzo questo pudore nel presentare come mera fiction d’avventura quella che è a tutti gli effetti una seria meditazione morale, come se si volesse cautelativamente evitare ogni rischio di supponenza facendola avanzare mascherata da letteratura popolare (da Ambler in giù, mi vengono in mente diversi esempi dello stesso tenore, in cui verosimili finzioni, ritmate su sapientissimi tempi scenici, aprono modestamente squarci di autentica comprensione sulla realtà storica e l’esistenza umana).

Ma poiché comunque di giallo in fin dei conti si tratta, ci sono gli inevitabili morti ammazzati e c’è l’inevitabile detective che deve occuparsi del caso – per quanto possa suonare lievemente assurdo (e con questo siamo già nel cuore del problema) intestardirsi per capire chi ha ucciso chi, quando di uomini ne muoiono ogni giorno a centinaia in quel carnaio che è l’estremo fronte orientale. Ma l’interesse speciale per alcune vittime rispetto a tutte le altre si può in parte spiegare, se a sparire, all’inizio del racconto, sono due brillanti scienziati rumeni, marito e moglie, Nicolae e Bianca Tincu – per intenderci, allieva di Madame Curie lei, amico di Fermi e Majorana lui, gente insomma che ne capisce bene di atomi, reazioni e radiazioni e che potrebbe forse avere una chiave per mettere fine al conflitto -, i quali vengono inghiottiti dall’immensa steppa ucraina mentre stavano cercando di raggiungere, un po’ rocambolescamente, la prima linea tedesca. Ma che diavolo ci andavano a fare nel punto più caldo di una guerra mondiale? E chi li ha eliminati, se poi sono davvero stati eliminati? Per prima cosa, infatti, bisogna trovarli. E in quell’immensa pianura in cui «non esistono direzioni» e le misure «si dilatano fino a perdere significato», dove «ci sono più sterrate che stelle in cielo» e si estendono sentieri che sembrano tirati «con un righello e continuare sino alla fine del mondo», è davvero come cercare il proverbiale ago nel pagliaio. E se alla fine sono morti davvero, bisognerà appunto capire chi li ha uccisi, e qui non c’è che l’imbarazzo della scelta, poiché la steppa sarà pure sterminata, «ma era evidentemente molto più popolata di quanto uno straniero potesse immaginare». I russi, i romeni stessi, gli ungheresi, i cosacchi – e perché non gli italiani?, accampati a Millerovo, sul Don: tutti, e in primis i litigiosi cespugli del sottobosco nazista, valvassini del nuovo ordine nero distesosi sull’Europa dell’est, avrebbero avuto i loro buoni motivi incrociati (rivalsa, vendetta, ritorsione, invidia) per farlo.

Quel che rende singolari i romanzi di Ben Pastor – e su cui ho tergiversato fin qui – è che colui al quale è chiesto di dipanare il garbuglio, l’eroe insomma di tutto il ciclo, è nientemeno che un ufficiale della Wermacht, nonché agente del controspionaggio, di nome Martin Bora, un aristocratico cattolico prussiano che ha succhiato regole militari e amor di patria sin dalla prima poppata, seppur aromatizzate con aromi di raffinata cultura classica e mitteleuropea - non dunque un volgare nazista, ma comunque uno il cui atavico senso dell’onore e la lealtà alla terra dei padri ha finito per collocare dalla parte sbagliata della storia, con tutto il carico di contraddizioni e complessi che ne può derivare (non siamo troppo distanti, anche se con una caratterizzazione assai più netta e sofisticata, da quel Vincenzo Bernardi protagonista di un romanzo che con questo mi pare avere stretti legami di parentela, a partire dall’editore comune). E se è vero che, nella letteratura di genere, il mistero è spesso allestito solo per vedere all’opera l’investigatore di turno, e rappresentarlo con le sue idiosincrasie e le sue manie, effettivamente anche qui, man mano che entri nel mondo interiore di Bora (aiutato dal fatto che ampie sezioni del racconto sono esposte in prima persona, come sue pagine di diario), ti rendi conto che, anche se «in questa storia (…) non torna proprio niente», quel che ti interessa in fondo di più è provare a comprendere quest’uomo riservato e taciturno, intelligentissimo e freddo, capace di un distacco irreale anche nelle situazioni più estreme senza che questo lo renda anaffettivo verso il disastro di cui è testimone («era come se dentro di lui coesistessero due persone, perfettamente distinte, eppure coerenti»).

Soprattutto, vorresti provare a venire a capo dell’enigma da cui lui stesso è ossessionato, e di cui, nonostante i suoi studi filosofici finalizzati a possedere la Conoscenza con la maiuscola, continua a sfuggirgli pienamente il senso. A Bora questo tormento si manifesta nella forma geroglifica, appunto, della “Sinagoga degli zingari”, ircocervo simbolico apparsogli in sogno da bambino e riemerso di nuovo dall’inconscio ora che sta avanzando a muso duro verso il Volga, «più simile a un piccolo Cremlino che a un tempio, (…) edificio fortificato, da tetti luminosi e ornati», perennemente «due o trecento passi davanti a lui, fissa e irraggiungibile. I mattoni rosso fuoco, le tegole di vario colore, le finestre, le cornici e i portali dovevano pure avvicinarsi, ma non lo facevano mai». Rielaborazione originale e complessa, costruita su un labirinto borgesiano di citazioni, della leggendaria città perduta di Kitez, ennesima variazione sul tema del Graal, emblema di tutto ciò cui aneliamo ma che non potremmo mai possedere, per un attimo forse i suoi mattoni coincidono e si sovrappongono a quelli della città di Stalin, infuocata dai roghi, in un orrore disperatamente senza senso, nonostante i velleitari tentativi di imporre in quel teatro dell’assurdo un minimo d’ordine razionale individuando i responsabili (forse) di un delitto politico. Da questo paesaggio lunare il maggiore Bora farà ritorno nel corpo, ma non nello spirito, come se una parte di lui fosse costretta a vivere in eterno in mezzo alle strade di Stalingrado e «ad avanzare futilmente in questa futile guerra» fosse un suo alter ego puramente esteriore, un automa che continua a funzionare per pura inerzia animale. «Relitti, rottami ovunque, solitudine, un oceano ghiacciato dove neanche gli squali si avventurano»; anche i reduci sono semplicemente «oggetti che il mare ha ributtato a riva». Certo, è un giallo e alla fine, in una sospesa appendice praghese, dove fa un suo cameo persino Ernst Junger, abbiamo pure la nostra bella scena del salotto, in cui tutto quello che c’era da scoprire più o meno viene rivelato. Ma dopo che hai visto Stalingrado nell’inverno del 1942, cosa vuoi che te ne importi ancora?

(finito il 10 giugno 2022)

Ho parlato di


Ben Pastor
La Sinagoga degli zingari
(Sellerio 2021)

trad. di L. Sanvito

664 p. | 17 €

(tit. or.: The Gypsy Synagogue)

sabato 8 febbraio 2025

Alla fine il nulla?

Ammetto che, quando pochi giorni fa, in occasione dell’intronizzazione del secondo Trump, li ho visti schierati tutti lì in fila, a Washington, i protagonisti dell’odierno teatrino degli orrori, ho per un attimo auspicato anch’io per loro quel che il professor Barbero esclamò in una vecchia intervista a proposito di Reagan e della Thatcher, ovvero che possano anche loro bruciare per sempre all’inferno, trattenuto appena dal timore di tradire in questo modo il risentimento dello schiavo sbeffeggiato nella Genealogia della morale a partire da quel passo di Tertulliano che invita il pio cristiano a disertare circhi e teatri terreni, perché neanche lontanamente paragonabili alla straordinaria soddisfazione che sarà offerta ai redenti dallo spettacolo dell’eterno tormento dei crassi epuloni di ogni tempo, sprofondati laggiù nella morta gora dove anche Dante si prende la soddisfazione di ricacciare a pedate quel farabutto borioso di Filippo Argenti. D’altra parte, non avendo a disposizione riscontri fattuali, è giocoforza che l’aldilà ciascuno se lo immagini a suo modo, dando di volta in volta sfogo alle proprie personali aspirazioni o paranoie, che si tratti di un’insopprimibile aspirazione alla giustizia o del bisogno di riannodare prima o poi tutti i fili della sua vita. Se ci si pone in una prospettiva più specificamente teologica, l’escatologia potrebbe apparire invece come una sorta di speculazione al quadrato, ipotesi costruita su un’ipotesi, e tirarsi facilmente addosso la critica di inconsistenza metodologica: come si può infatti pretendere di costruire un discorso razionale su qualcosa di cui, per definizione, non possiamo sapere nulla? Non sarà forse più dignitoso tacere e limitarsi ad attendere, con sobrietà e pudore, che giunga la nostra ora? Paradossalmente, invece, proprio perché qui in un certo senso tutto è lecito – e perché, stringi stringi, che lo ammettiamo o no, la domanda che pensiamo di aver gettato fuori dalla porta ci sorprende continuamente alle spalle rientrando dalla finestra, inevitabile, e con altrettanto inevitabili ricadute pratiche sul concreto orientamento della nostra vita – non si vede perché impedire al teologo di continuare a rischiarare quel che la fede testimonia, per aiutare a capire almeno se valga la pena credere in quel che si dice di credere (e, prima ancora, se lo si sia capito poi per davvero, quel che si dice di credere).

In questo studio, Lohfink fa esattamente questo: rilegge l’esperienza di fede ebraica e cristiana e propone alcune chiavi che, come accade spesso con la buona teologia, aprono delle porte su altre porte che neanche ti immaginavi che ci fossero e - nel far questo - ti spingono a ristrutturare un po’ l’ordine delle idee che avevi in testa, lasciandoti più d’una volta senza fiato (non dico convinto, ma sicuramente stupito, e costretto perciò a rimuginarci su). Perno fondamentale del suo ragionamento, che già potrebbe incuriosire chi si è assuefatto a ben altro tipo di racconto, è l’insistenza sul «radicale aldiquà» che contraddistingue l’esperienza religiosa di Israele (e che forse, aggiungo io, trova una spiazzante conferma nell’ossessione per il possesso della terra dei padri da parte della destra che attualmente governa lo stato ebraico). Il mondo, lungi dall’essere uno scarto di fabbricazione, è - tutt’al contrario - la creazione amata da Dio, «il suo progetto, la sua gioia, che egli non abbandona[va] nonostante il caos provocato dagli esseri umani». Ma se questo mondo «era lo scopo di Dio», ne consegue che «la vita vera è qui, in questo mondo» e che «il posto dell’essere umano è la storia che sta accadendo ora». A differenza di quanto si sono immaginati, in vario modo, egizi e greci, «non c’è niente di naturalmente eterno nell’essere umano che salga verso le stelle», una frazione dell’essenza divina rimasta intrappolata nelle pieghe del corpo ma destinata spontaneamente a liberarsene con la sua morte per accedere alla sua autentica, e disincarnata, regione d’esistenza. «Se c’è immortalità, questa potrà essere donata soltanto da Dio». É talmente profonda questa convinzione che quando qualche ardimentoso profeta, come Ezechiele, comincia a pensare che Dio non possa rassegnarsi a vedere definitivamente perduto nell’abisso scuro dello Sheol quel che è uscito dalle sue stesse mani, non trova altro modo per esprimersi che dipingendo quella straordinaria e un po’ macabra visione di una distesa di cadaveri le cui carni e ossa riprendono letteralmente vita riagglutinandosi le une con le altre. Se la speranza riguarda solo i vivi, e se il piano di Dio è di realizzare le sue promesse in questo mondo che ha tanto amato, e non di prepararcene un altro altrove, etereo e immacolato, allora sarà Lui stesso a trovare il modo di restituire a questa vita chi nel frattempo l’ha perduta. Come ha scritto Bonhoeffer, «solo quando si amano la vita e la terra, al punto tale che sembra che con esse sia tutto perduto e finito, si può credere alla risurrezione dei morti e a un mondo nuovo». Davvero sorprendente: non è il disprezzo del mondo a proiettarci nell’eternità, ma un irrefrenabile, potente, convintissimo e testardo sì alla vita, pronunciato assai prima che venisse a insegnarcelo Zarathustra (tutto ciò che non rispecchia questa intenzione di fondo potrà essersi anche segnato con la croce, ma proviene da altre fonti e ha imbastardito l’originario messaggio biblico). Ne consegue, come corollario, che non si può essere davvero cristiani se non si è, in una certa misura, dei materialisti.

Noi ci siamo quasi riusciti a pervertirne il messaggio, interpretando il “regno di Dio” di cui parla come una semplice allusione all’aldilà, ma in effetti – e coerentemente con la tradizione ebraica testé richiamata – nella sua predicazione Gesù insiste ripetutamente sul fatto che questo regno è già silenziosamente all’opera nel mondo, impegnato a farsi largo fra le maglie della sempiterna zizzania, per preparare il terreno non già alla fuga da questa valle di lacrime, come auspicato dagli escapisti di ogni tempo, che una volta si chiamavano gnostici e ora sono miliardari ansiosi di lasciarsi alle spalle un pianeta ormai irrecuperabile, e i poveracci privi di biglietto, per andare a fondare le loro futuristiche colonie su Marte, bensì la discesa della Gerusalemme celeste sulla nostra povera terra. «La signora di Dio non vuol essere altro che condurre liberamente la creazione a diventare ciò che essa deve essere secondo Dio: un mondo di giustizia e di pace. (…) Il “mondo” della risurrezione non può essere nient’altro che il mondo in cui viviamo ora portato al suo compimento, alla sua integrità e alla sua salvezza». Per questo, «il futuro ultimo della storia non sarà la catastrofe, non sarà neppure il paradiso degli inizi, ma una nuova società che ha attraversato difficoltà, caos e persecuzione». La Pasqua è per il cristiano la prova che è di questo mondo, e solo di questo mondo che importa qualcosa a Dio – e gli importa talmente tanto da promettercene la conservazione, come testimonia la scandalosa concretezza dei racconti di incontro con il Risorto, che porta sul suo corpo trasfigurato i segni tangibili dell’amore donato. Ispirandosi proprio a questa esperienza fondativa della prima comunità cristiana, Lohfink arriva a formulare come «legge fondamentale della risurrezione» che «può risorgere solo ciò che è divenuto nella storia di vita della singola persona. Proprio per questo, la storia di ogni persona, ogni giorno e ogni ora della vita di un essere umano, ha un significato che in modo diretto e profondo riguarda l’eternità». Detto altrimenti, «la risurrezione significa che ogni momento, che un uomo ha vissuto, viene portato dentro la vita eterna con Dio. (…) Niente di ciò che di positivo proviene dalla lunga storia dell’umanità va perduto. L’intera cultura, l’intera scienza del mondo, tutto ciò che gli uomini hanno pensato, desiderato e acquisito, viene messo al sicuro in questa città» che si sta preparando, giorno dopo giorno, attraverso i nostri piccoli gesti d’amore quotidiano. Persino per i miei libri, forse, ci sarà un qualche spazio in paradiso. Insomma, altro che pitocco intontito dalla “ninna nanna del cielo” (come la chiamava suggestivamente Heine): chi crede nella risurrezione cristiana può «investire le proprie energie nella costruzione di una società giusta, perché il mondo della risurrezione è la forma definitiva che Dio donerà proprio a quel mondo per il quale noi lottiamo qui in questa storia». La speranza cristiana consiste proprio nello sperare contro ogni evidenza fisica che quell’amore distribuito e diffuso non si consumi nello spazio di un giorno, ma sia salvato per sempre. E dunque abbandonarsi con fiducia alla morte, quando verrà, perché tutto ciò che di buono c’è stato, ci sarà ancora – che è ben diverso dal ricercare la morte perché non se ne può più di questo mondo (se odiamo questo mondo, dove potremo mai andare, infatti, quando Dio lo restaurerà?).

A vederla così, molte prospettive si ribaltano e cambia anche il modo di intendere il nostro rapporto con i defunti. Mi limito a un esempio. Posto che ormai abbiamo interiorizzato l’idea che il “cielo” non coincide con una regione fisica sovratmosferica - perché lo spazio, come lo intendiamo noi, è appunto una modalità di percezione condizionata dalla nostra natura creaturale – cosa ci trattiene dal trarre analoghe conseguenze anche con il tempo, quando peraltro la stessa fisica contemporanea ci invita a non considerare reale la rappresentazione ingenua che ne abbiamo? In altre parole, e tornando al caso nostro, perché pensare che il tempo continui a scorrere, come per noi, anche per i morti, i quali dovrebbero perciò attendere milioni di anni prima di rivestirsi dei loro corpi e accedere alla gloria? Lohfink insiste ripetutamente sul fatto che la risurrezione non avviene “dopo” la morte (così come non c’è un “prima” rispetto al Big Bang), ma “nella” morte, senza dilazione alcuna. É “nella” morte che incontreremo Dio, e – posti di fronte alla sua santità - «i nostri occhi si apriranno su noi stessi»: «tutto viene manifestato. Tutto viene in luce» e «conosceremo chi siamo. Noi stessi giudicheremo e condanneremo il male che è in noi» e assaporeremo «la gioia piena di stupore per il bene che c’è stato nella propria vita e nella vita degli altri». In un istante che non è più un istante tutti i secoli si riavvolgeranno e faremo i conti non solo con la nostra storia, ma anche con la storia degli effetti che la nostra vita avrà prodotto, ovvero con le conseguenze delle nostre azioni, generative o distruttive. Questo processo costituirà per tutti una forma di purificazione, che comporta una sofferenza analoga a quella che può provare, già qui in terra, chiunque abbia deciso di cambiare vita e si trova per questo a fare i conti con i propri precedenti fallimenti, ma questa sorta di “purgatorio” «è un evento, non un luogo» e «non si compie più nel tempo terreno». «Il sopraggiungere della morte rende definitive tutte le decisioni compiute dalla libertà durante la vita che in quel momento si chiude; la morte non permette né revisioni né conversioni, neppure “nel caso limite”. Solo in questo modo sono riconosciuti l’importanza della storia e il valore dell’esistenza storica. (…). É qui, in questa vita, che si prendono le decisioni». E se c’è qualche persona, «la cui opzione fondamentale fosse rivolta a cercare solo sé stesso, chiudendosi a ogni altra cosa, Dio dovrebbe abbandonarlo a sé, al suo ripiegamento su di sé. Dio non può infatti sopraffarlo né tanto meno violentarlo. Un uomo così, alla fine, davvero non avrebbe nient’altro che sé stesso – e proprio questo sarebbe l’inferno», una «possibilità terribile» che non può e non deve essere sostituita con l’idea di «una riconciliazione universale» che, per quanto sia nell’auspicio di Dio, non è affatto scontata.

Stando così le cose, la vera preghiera di intercessione non è tanto l’offerta burocratica della messa di suffragio, ma l’impegno a cercare di risolvere tutto l’irrisolto che il defunto ha lasciato in vita, ricomponendo per quanto possibile i cocci che lui ha disperso, perché non sarà una pena supplementare, a purificarlo, nell’aldilà, ma – di nuovo – è quel che avviene di qua a determinare il giudizio definitivo sulla sua vita. Ed è anche per questo che testimonio volentieri pubblicamente la ricchezza del contributo di cui vi ho parlato, perché al suo estensore, morto da circa un anno, possa essere accreditato come giustizia nell’eternità già raggiunta.

(finito il 9 giugno 2022)

Ho parlato di


Gerhard Lohfink
Alla fine il nulla? 
Sulla risurrezione e sulla vita eterna
(Queriniana 2020)

trad. di V. Maraldi

288 p. | 34 €

(ed. or.: Am Ende das Nichts? Uber Auferstehung und Ewiges Leben, Freiburg im Breisgau 2017)

domenica 5 gennaio 2025

Chadzi-Murat

Non è Anna Karenina, non è Guerra e Pace, e a dirla tutta non è neppure La sonata a Kreutzer o La morte di Ivan Ilic, ma è proprio il suo carattere defilato nell’immensa produzione tolstojana (eufemismo per mascherare il fatto che non ne avessi mai sentito parlare prima) ad aver reso terribilmente invitante il suggerimento di Paolo Nori, secondo cui questo sarebbe invece un testo perfetto da cui prendere le mosse se ci si volesse accostare per la prima volta alla letteratura russa. Addirittura: e che ci sarà mai di così interessante? Trattandosi di Nori, la cui naiveté rende talvolta difficile capire dove cominci la garbata presa in giro, non manca il sospetto che si possa trattare di un dotto pesce d’aprile, tanto più se si considerano le motivazioni addotte: perché il libro è breve, dice, e, incentrato com’è su un personaggio non russo (il Chadzi-Murat del titolo: dirò subito chi è), ci evita quel complicato sistema di appellativi e patronimici che rende spesso così indigesta le lettura dei russi. Ma la cosa dal suo punto di vista ha perfettamente senso, in quanto questa ridotta sovrastruttura consentirebbe di sperimentare in modo più diretto di altre opere la forza dirompente che in realtà tutta la grande letteratura russa può esercitare su di noi, invitandoci così a proseguire nel percorso con testi più sofisticati. Come spiega meglio lo stesso Nori nella postfazione a questa edizione da lui tradotta, «ecco, io ho l’impressione che Chadzi-Murat ci parli di quella cosa che ci sta succedendo, e che non succede solo nel Caucaso, ma dovunque, quella cosa della quale sentiamo parlare talmente tanto che anche il nome, conflitti razziali, o come si chiama, non ci dice più niente, è frusto, consunto, io, dicevo, ho l’impressione che Chadzi-Murat ci spieghi questa cosa (cioè ce la mostri, ce la faccia vedere) molto meglio di quanto ce la spieghino quotidianamente le opposte fazioni e i rispettivi esegeti, agiografi, critici, interpreti» (fermo restando che, trattandosi appunto di grande letteratura - russa o non -, inesauribile per vocazione, essa riuscirà comunque a spiegare qualcosa che apparterrà in modo significativo alla inimmaginabile contemporaneità del futuro, anche qualora in quel futuro i conflitti razziali dovessero essere tutti risolti).

Il vecchio Tolstoj inizia a scrivere questo romanzo breve durante una pausa nella gestazione di Resurrezione, verso la fine del secolo decimonono e della sua stessa sua vita, lavorandoci poi a lungo con continue revisioni e stesure, anche se l’episodio intorno a cui esso ruota riguarda una vicenda che lo riporta indietro di molti anni, al tempo in cui era un giovane ufficiale impegnato per conto dello zar nelle interminabili guerre caucasiche, là dove Asia ed Europa continuano tuttora ad attorcigliare nervosamente le dita delle rispettive mani l’una intorno all’altra senza riuscire a chiuderle in una vera e propria stretta. Quello è infatti un mondo estremamente complesso, frammentato in un pulviscolo di gruppi etnici parlanti lingue diverse dai nomi esotici (circassi, calmucchi, ceceni – per citarne alcuni, variamente ripartiti, a loro volta, tra ceppi turchi, mongolici e iranici) e attraversato a sua volta da profonde linee di faglia religiose oltre che tribali. Qui l’amico di ieri potrà facilmente essere il nemico di oggi e con altrettanta facilità il nuovo amico di domani, per cui conviene più che mai guardarsi prima alle spalle che di fronte, se si vuole sperare di sopravvivere.

Un personaggio come Chadzi (o Hadij) Murat (a seconda delle traslitterazioni) è esattamente il prototipo di homonculus che potrebbe essere forgiato in un siffatto crogiuolo di forze contrastanti dal bravo alchimista di storie. Tolstoj, però, non se lo inventa dal nulla. L’uomo fu effettivamente un condottiero àvaro che abbracciò il chavazat (come allora veniva chiamato il jihad) per contrastare con tutta la passione della sua fede religiosa la penetrazione russa nel Daghestan, sebbene in rapporti non particolarmente limpidi con l’imam Samil, guida suprema della resistenza musulmana nel distretto. Tant’è che, quando quest’ultimo ad un certo punto cerca di eliminarlo, Chadzi-Murat, scampato all’attentato ma ormai isolato, con una mossa spettacolare quanto spericolata si consegna agli odiatissimi russi offrendo loro il suo appoggio contro il vecchio sodale, per vendetta, ma anche per salvare la propria famiglia, rimasta in mano al nemico. Questa faida sarebbe un’ottima occasione per dare un’ulteriore giro di vite all’occupazione di terre così faticose da sottomettere, eppure i russi tergiversano, temendo il bluff - e il racconto descrive sostanzialmente questo periodo sospeso di trattative e contatti sempre molto diffidenti tra gli ufficiali russi e quello che fino a poco tempo prima era uno dei loro più pericolosi nemici, i quali non potendo dialogare fra loro, perché non parlano la stessa lingua, si soppesano in base a gesti, espressioni del volto, portamento, finché Chadzi-Murat decide che ne ha abbastanza e, approfittando delle libertà che gli sono concesse, nonostante sia formalmente un prigioniero politico, architetta una fuga per riprendere in un modo o nell’altro la sua lotta personale. Mal gliene incolse, però, dal momento che, prima di raggiungere i villaggi di montagna in cui sperava che il suo carisma potesse garantirgli ancora degli appoggi, è sorpreso da una guarnigione cosacca, da cui viene brutalmente trucidato. Tutto questo accadde all’incirca tra il 1851 e 1852. Tolstoj afferma che a rievocargli, a distanza di così tanto tempo, questa «antica storia caucasica», e a suscitargli l’intenzione di raccontarla poi tutta, in parte per come l’aveva sentita a sua volta raccontare da altri, ai tempi del servizio mlitare, in parte per come se l’è andata immaginando lui nel corso degli anni, sarebbe stata la visione di un cespuglio di lappole su cui era passata la ruota di un carro e che stava perciò «un po’ di traverso, tuttavia dritto. Come se gli avessero strappato una parte del corpo, rivoltato le interiora, staccato un braccio, cavato gli occhi. Ma lui stava dritto, e non si arrendeva all’uomo che, intorno a lui, aveva distrutto tutti i suoi fratelli. “Che energia!” pensai. “L’uomo l’ha avuta vinta su tutto, ha distrutto milioni di piante, e questo ancora non si arrende”».

Anche solo a riassumerla così, per sommi capi, una vicenda del genere ricorda l’intricato mosaico delle polveriere afghane o siriane, con tutti quei gruppi contrapposti, le cui relazioni reciproche sono così complesse da ricostruire a distanza. Per provare ad affrontare quel che accade in simili scenari occorrerebbe grande lucidità e soprattutto l’umiltà di affidarsi a chi conosce bene, e possibilmente per esperienza diretta, quei territori e quelle culture. È esattamente il contrario di quel che viene descritto in questo libro – ma anche da questo punto di vista la grande letteratura, come ai discepoli di Emmaus, svela il senso delle immagini che vediamo tutti i giorni al telegiornale. L’intenzione di Tolstoj, infatti, più che quella di celebrare una figura comunque ambigua come Chadzi-Murat, mi pare sia di offrire un apologo contro la stupidità della guerra, che corrompe e disperde le risorse anche delle persone potenzialmente migliori perché permette con troppa facilità di assecondare i capricci delle persone indiscutibilmente peggiori. Come quando al cinema o a teatro o all’opera si attende la performance dell’attore solista che compare in una sola scena ma che tiene da solo in piedi l’intero dramma, così qui si assiste, più o meno a metà del racconto, alla vera e propria irruzione sul palco nientemeno che dello zar Nicola I, totalmente avulso dal contesto in cui si era svolta e si sarebbe continuata a svolgere la trama, ma dalla cui sola volontà, per assurdo, quella trama interamente dipende. Tolstoj era del tutto consapevole che queste pagine non avrebbero superato la tagliola della censura – e vorrei ben vedere. Nicola è rappresentato come un vecchio laido e lascivo, convinto della propria assoluta superiorità intellettuale e morale e della sua assoluta centralità nel garantire l’ordine mondiale, proprio come quei leader che proclamano di poter risolvere in 24 ore tutte le crisi globali con un semplice tweet («“Già, cosa sarebbe senza di me non solo la Russia, ma l’Europa”»; e ancora: «“Evidentemente, da noi, in Russia, c’è un unico uomo onesto”»). Il problema, proprio come chi non sa più uscire dalla propria bolla social, è che «la continua, aperta, ripugnante adulazione degli uomini che lo circondavano l’aveva condotto al fatto che non vedeva ormai le proprie contraddizioni, che non conformava più le proprie azionie e le proprie parole alla realtà, alla logica e perfino al semplice buon senso, ma era pienamente convinto che tutte le sue disposizioni, per quanto fossero insensate, ingiuste e in disaccordo tra loro, diventassero sensate, e giuste, e in accordo tra loro solo perché le aveva date lui». Ebbene, quest’uomo che si compiace di condannare a dodicimila vergate uno studente malato di nervi, reo di avere aggredito un professore dopo essere stato bocciato per la seconda volta a un esame – e se ne compiace perché «grazie a Dio, la pena di morte da noi non c’è», ma sa benissimo che quella condanna porterà proprio alla morte, solo dopo tanta crudele sofferenza in più; quest’uomo che si reca in chiesa non per onorare Dio, ma per ricevere da Dio stesso, tramite i suoi servitori, saluti e onori, «perché da lui dipendeva la prosperità e la felicità di tutto il mondo, e benché egli fosse stanco di ciò, non negava tuttavia al mondo il suo contributo»; quest’uomo totalmente ignaro di quanto sta accadendo per davvero laggiù nel Caucaso, la mattina in cui gli arrivano sul tavolo i dispacci sulla questione di Chadzi-Murat «era di pessimo umore e non avrebbe accettato suggerimenti da nessuno per puro spirito di contraddizione», assecondato da quei cortigiani perfettamente consapevoli dell’insensatezza delle sue decisioni, ma per nulla disposti a mettere a repentaglio la faticosissima costruzione della loro carriera e perciò pronti ad avallare sempre e comunque «la crudele, folle e disonesta volontà imperiale».

Ci sarebbe da ridere, se non fosse per quello che ne consegue, discendendo via via l’inesorabile catena di comando. Convintosi che la trattativa aperta da Chadzi-Murat sia un segno dell’imminente crollo della linea di difesa locale, lo zar ordina infatti un altro attacco. Ma nel Caucaso, «in nessuna occasione, avevano luogo quelle battaglie corpo a corpo con le sciabole che si immaginavano e si descrivevano sempre» secondo la «raffigurazione poetica della guerra» che gli stessi soldati russi avevano in mente quando venivano spediti direttamente laggiù dall’accademia militare (pure oggi, del resto, le guerre lì si combattono abbattendo aerei di linea). Un altro attacco, nel Caucaso, significa qualcosa che in italiano abbiamo parole migliori per descrivere: saccheggio, rappresaglia, strage. Nel villaggio devastato «si diffuse un fumo acre, e in questo fumo si muovevano i soldati, trascinando fuori dalle saclie quel che trovavano e, soprattutto, catturando e sparando alle galline che i montanari non avevano fatto in tempo a portare via». Quando gli abitanti rientreranno, per contare i morti e la devastazione, «i pianti delle donne si sentivano in tutte le case e nella piazza dove erano stati portati altri due corpi. I bambini piccoli piangevano insieme alle madri. Si lamentava anche il bestiame affamato, al quale non c’era niente da dare. I bambini grandi non giocavano, ma con occhi impauriti guardavan gli adulti. La fontana era stata imbrattata, evidentemente apposta, tanto che non si poteva prenderne acqua. Era stata imbrattata anche la moschea». Esposti a questa brutale violenza - ordinata da un principe che non sa quello che sta facendo, ed eseguita da soldati che sarebbero bravi ragazzoni russi ma a cui è stato insegnato di obbedire agli ordini, e per i quali quella è l’avventura della loro giovinezza - «il sentimento che provavano tutti i ceceni, dal più piccolo al più grande, era più forte dell’odio. Non era odio, era il non riconoscere questi cani russi come uomini, e un disgusto tale, una ripugnanza e un imbarazzo di fronte alla crudeltà insensata di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, così come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velenosi o i lupi, era tanto naturale quanto l’istinto di conservazione». Nicola era convinto che dopo questa manifestazione di forza i ceceni avrebbero ceduto; e invece, proprio per via di quella manifestazione di forza, continueranno a combattere e a combattere e a combattere, perché sangue chiama sangue soltanto. Ed è così, finché il protervo di turno non dichiarerà che “con questi terroristi è impossibile discutere” e stabilirà per decreto che l’unica soluzione è lo sterminio. È tutto così maledettamente chiaro che ancora non siamo riusciti a capirlo.

(finito l'11 maggio 2022)

Ho parlato di


Lev Tolstoj
Chadzi-Murat
(Garzanti 2020)

trad. di P. Nori

188 pp. | 10 €

(ed. or.: Chadzi-Murat, 1912)