Memore dell’apologo di Carlo Fruttero sulla scarsa credibilità che avrebbe un disco volante se atterrasse a Lucca o in Val Padana, anziché in Texas (vuoi mettere? Là arriverebbe subito lo sceriffo in jeep col suo bel fucile a pallettoni a risolvere la situazione, qui da noi bisognerebbe attenzionare il questore, smuovere il brigadiere dei carabinieri, inviare il messo comunale…), uno potrebbe essere tentato di trasporre lo stesso ragionamento dalla fantascienza all’horror – e prenderebbe un enorme abbaglio, non solo perché l’Italia vanta una consolidata tradizione come luogo d’elezione per storie macabre sin dai tempi dei primi romanzi gotici settecenteschi, ma anche e soprattutto perché, per quanto sia celebrato fino alla nausea come l’incarnazione stessa della bellezza, il nostro paese di campanili, se lo si guarda all’ora giusta, non è poi meno inquietante di quanto lo sia, sotto la quiete sonnacchiosa della provincia, la Nuova Inghilterra che i Lovecraft e gli Stephen King hanno popolato di mostri terrificanti, senza bisogno di farli arrivare dalla Transilvania. Un po’ questo si spiega con banali ragioni psicologiche: in fondo, la paura dell’ignoto si è fatta per la prima volta strada in quasi tutti noi quella volta che da bambini abbiamo esplorato qualche vecchio cascinale abbandonato ai margini della nostra consueta area di giochi, dove ci si diceva appunto di non andare a cacciarci. Non credo sia un caso che effettivamente uno dei libri più spaventosi che abbia mai letto è L’estate di Montebuio di Danilo Arona, ambientato in gran parte nel luogo meno esotico che potresti supporre, ovvero l’Appennino alessandrino sormontante Genova. Ci sarebbe qui un gran potenziale su cui lavorare. Poiché, però, siamo un popolo più pettegolo che fantasioso, ci accontentiamo per lo più degli interminabili feuilleton propinati dalla cronaca nera, che tuttavia riducono a chiacchiericcio, e quindi infine stemperano e sviliscono l’orrore annidato a due passi da casa; e se proprio ne vogliamo effettuare una trasposizione letteraria, lo facciamo piuttosto attraverso il giallo, che tendenzialmente è risolutivo, quindi consolatorio, e - dando lavoro a tutta quella pletora di commissari, procuratori, religiosi detective distribuiti pressoché in ogni chilometro quadrato del nostro frastagliato territorio -, col pretesto dell’indagine, offre anche una certa idea di mondo riconducibile a colori, odori e sapori tipici di quello spicchio di terra, contribuendo in fin dei conti ad alimentare il turismo enogastronomico. Basterebbero solo due righe di Pavese o di Fenoglio per intuire invece quanto profonda sia l’oscurità ancestrale che offusca certe nostre ridenti borgate. Ma lo stesso tema si può trattare anche con toni più pop, se così si può dire, e probabilmente è anche stato già fatto; non essendo, però, così aggiornato in materia, quando ho intuito che questo libro proponeva qualcosa di simile, l’ho immediatamente fatto mio accogliendolo come una piacevole novità.
Gli ingredienti sono in effetti esattamente quelli che potrebbe riportare un manuale di sceneggiatura dopo averli estrapolati da un repertorio che ha in Strangers Things la sua variante più recente. Si prende un gruppo di ragazzini non esattamente popolari, colti in quel limbo di transizione appena prima dell’adolescenza, «quell’età», per intenderci «in cui si è ormai grandi per credere a Babbo Natale o a Gesù Bambino, ma si è ancora con un piede impigliato nell’infanzia per ammetterlo in modo schietto». Fra di loro si isola una ragazzina in particolare, con una famiglia disfunzionale alle spalle, perennemente sull’orlo della separazione soprattutto a causa dell’incapacità del padre, mezzo alcolizzato, di tenersi a lungo un lavoro, e costretta perciò a spostarsi di qua e di là, in un areale poi non così vasto, ma che per una tredicenne vuole dire comunque rimettersi in gioco ogni volta da capo. Al suo fianco si mette l’immancabile maldestro bambino cicciottello, abituato a esprimersi più spontaneamente in dialetto che in italiano, di quelli che vanno a scuola solo in felpa e vengono inevitabilmente presi in giro dai compagni, e che, pian piano, nel suo modo tenero e impacciato, finirà per innamorarsi dell’amica fino al sacrificio di sé. Si aggiunge quindi un elemento sinistro nell’ascendenza familiare della ragazzina, una nonna non proprio convenzionale, che in paese è nota come guaritrice, e alla quale perciò ci si rivolge per curare malanni di vario tipo, il più delle volte sanati «grazie a precisi movimenti delle dita, a una serie di formule sussurrate a mezza bocca, a frizioni o impacchi di erbe dalle proprietà medicamentose», e che dunque gode del rispetto, sì, degli abitanti del luogo, come se fosse una specie di sciamano del villaggio, ma proprio per lo stesso motivo è anche oggetto di sacro timore e di diffidenza da parte loro, atteggiamento non dissimile da quel misto di affetto e sospetto che anche la nipote prova in modo contrastante verso quella strana nonna e la sua strana casa, dove si sente più che mai protetta, ma in cui riconosce che c’è «qualcosa di sbagliato», sebbene non sappia dire esattamente cosa.
Tutto liscio, dunque, senonché i due ragazzini in questione non si chiamano Will o Beverly, ma Sonia e Matteo, e quel che ci viene raccontato non avviene a Derry o a Hawkins, bensì nella ben più prosaica Lanzo Torinese, che avrà pure il suo bel ponte del diavolo, ma difficilmente immagineresti davvero come l’anticamera dell’inferno. Nulla di prodigioso può infatti arrivare da Nazareth. Quali misteri reconditi nasconderà mai quel borgo di mezza montagna, da dove anche un centro minore come Cirié, che non arriva a ventimila abitanti, laggiù in fondo alla valle, sembra già una metropoli, e la cui principale attrazione – a metà degli anni Novanta, quando si immaginano svolti i fatti qui narrati – è il bar della stazione, col gabbiotto del flipper, il cassone del videogioco (uno, ovviamente) e un vecchio jukebox? Eppure proprio in questo capoluogo dell’ordinarietà, dove sono ricorsivi persino i pochi diversivi – i fuochi d’artificio per la Madonna di settembre, le scarne giostre in occasione della festa del patrono -, un giorno come un altro si verifica qualcosa di veramente insolito e disturbante, così tanto disturbante da essere divulgato dai media in modo insolitamente sobrio solo come “l’incidente”. Accade cioè che una mattina di novembre, la professoressa di italiano del glorioso istituto comprensivo “Luigi Perona” – una donna di cui nessuno saprebbe dire esattamente l’età, perché «tutti i lanzesi la ricordavano già vecchia e prossima alla pensione», anche se lei «continuava imperterrita a insegnare» (e a lamentarsi di anno in anno del comportamento sempre più insostenibile delle giovani generazioni) -, mentre i suoi studenti di seconda media stanno svolgendo un tema in classe condotto a porte chiuse (per uno di quei vezzi inspiegabili che hanno appunto certi professori), dopo essersi arrotolata lentamente le maniche del vestito, in tutta tranquillità e senza scomporsi, comincia ad azzannarsi un braccio e a divorarselo brano a brano. Una scena raccapricciante, che in un primo momento viene in qualche modo circoscritta, non senza qualche conseguenza traumatica, ma che fa appena da preludio alla vera e propria ecatombe destinata a scoppiare durante le vacanze di Natale tra il 1996 e il 1997, quando una nevicata particolarmente abbondante come oggi non ce ne sono più isola praticamente il paese dal resto del mondo, avvolgendolo in un silenzio ovattato dove può capitare di tutto. In quei giorni di totale sospensione dell’abituale realtà, Sonia e Matteo vivranno la loro iniziazione alla vita e in qualche modo, pagandone il giusto prezzo, salveranno quel che sarà possibile salvare di capra e cavoli. Fine, titoli di coda, prodotto e diretto da Steven Spielberg.
Tocca fare un doppio inciso, anagrafico e ambientale. Primo: io ho chiarissimo quel momento lì, perché, sebbene sia un pelo più vecchio di Sonia e Matteo e un pelo più giovane dell’autore del libro, il capodanno del ‘97 è stato un piccolo rito di passaggio anche per me, alla prima festa di San Silvestro fuori di casa e lontano dalla mia famiglia. Dirò di più. A un certo punto si fa riferimento alla finale di Champions del maggio precedente – quella vinta dalla Juve sull’Ajax, per capirci – perché Matteo rievoca una terribile serata con dei suoi compagni di classe in cui con suo grande spavento si finisce a fare a gara a chi ce l’ha più lungo, ed anch’io so dire con precisione a casa di quale amico ero proprio quella sera lì e quali goffe scemenze da quindicenni abbiamo combinato, a contorno di una partita che a qualcuno interessava certo un po’ di più, ma era soprattutto un pretesto per trovarsi insieme e costruire ricordi da poter rievocare ancora in una cena di trent’anni dopo. Secondo: tutto ciò che vale per Lanzo Torinese potrebbe valere tranquillamente anche per Mondovì. A casa della nonna si mangiano infatti rubatà, paste di meliga e fricieuj, nelle cucinette di alcune case sbuffano i putagé, le signore anziane offrono ai bambini non semplici caramelle ma i sukaj, alla base delle finestre si distendono i salami di stoffa per bloccare gli spifferi, sulla nonna di Sonia aleggia il sospetto che sia una masca, con tutto il carico di suggestioni popolari che un tale termine si porta dietro – e tutto questo retroterra atavico si mescola, senza soluzione di continuità, ai videogiochi portatili, ai video di MTV, ai Ringo al cacao, al 486 con su installato Quake, ai Pokemon, al Televideo, mentre alla melodia di Madonnina dai riccioli d’oro si sovrappone l’ultima hit di Bon Jovi ascoltata rigorosamente al walkman. Ogni generazione vive, in un modo o nell’altro il suo momento di trapasso, ma quel trapasso lì, con quella mescolanza tra un’eredità contadina al sapor di bagna caòda e i primi assaggi di una modernità che comunque, nella provincia piemontese, sembrava arrivare per la prima volta come se fosse già un po’ di seconda mano, è esattamente il trapasso che ho vissuto anch’io, tale e quale.
Tutto questo per dire che uno come me rientra senz’altro fra i lettori ideali in grado di raccogliere praticamente tutti gli ammiccamenti disseminati pagina dopo pagina, compresi quelli alle pubblicità più idiote del tempo. Non era forse proprio questo ciò che volevo? L’orrore a portata di mano, che si materializza là dove ti senti più al sicuro, appena dietro l’uscio di casa del natio borgo selvaggio? Se però all’inizio è stato divertente stare a questo gioco, alla lunga confesso di esserne rimasto sopraffatto. Cosa ho provato di fronte a questo libro me l’ha spiegato, senza volerlo, perché parlava d’altro, un mio zio musicista quando mi ha raccontato del suo primo saggio di composizione in conservatorio, perfetto da un punto di vista formale, ma che il suo maestro di allora, pur riconoscendone la tecnica soggiacente, commentò dicendo “ottimo lavoro, ma questa non è musica!”. Potrei dire lo stesso: qui ci sono tutti i pezzi necessari affinché il corpo viva, tranne la vita stessa. Perfino la morale è esibita, come un’autoesegesi, quando si conclude che «insieme [Sonia e Matteo] hanno vissuto la più crudele delle esperienze. Il verbo del cambiamento, spietato e necessario, è sceso su di loro come una benedizione: crescere. Inizia il vero orrore». La vita morde e può anche far molto male; in qualche modo bisogna imparare a baciarla senza farsi sbranare. A conti fatti, vien la sensazione che sia un libro scritto per ragazzi – e non ci sarebbe niente di male – rivolto però a chi ragazzo non lo è più. Forse l’idea era di risvegliare lo young adult (come si dice oggi) che c’è ancora dentro noi diversamente giovani, esprimendosi come se si parlasse direttamente a lui, ma con la calvizie e l’incipiente canizie si diventa anche un po’ più esigenti e si vorrebbe qualcosa in più di un prodotto quasi totalmente derivativo. Plaudo perciò al tentativo, che meritava la dovuta attenzione, ma la prossima volta gradirei qualcosa di più forte.
(finito il 16 luglio 2022)
Ho parlato di
Morsi
(Bompiani 2022)
186 pp. | 17 €
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