lunedì 6 ottobre 2025

Lo specchio delle nostre miserie

Atto conclusivo di una trilogia sulla Francia tra le due guerre inaugurata da un libro che trovai straordinario e proseguita con un secondo capitolo che non so perché ho invece stranamente ignorato - ma per fortuna non così strettamente collegato ai precedenti da risultare inesplicabile, se preso a sé - questo volume appare sin dal primo sguardo chiaramente imparentato con quel genere di narrazioni alla Jonathan Coe in cui le storie di personaggi diversissimi, che in un primo momento scorrono parallele e senza apparenti punti di contatto l’una con l’altra, finiscono poi tutte per convergere, incontrarsi e trasformarsi reciprocamente sotto l’impulso di un concentrato di forze imponderabili e spesso improbabili a cui, per esigenze di sintesi, diamo il nome di “vita”; al tempo stesso, però, vi si può scorgere anche una traccia della medesima, paradossale, intuizione fenogliana di focalizzare l’attenzione su questioni privatissime per fare in realtà dello sfondo da cui esse emergono il vero, pervasivo, onnipresente protagonista della vicenda, con un afflato epico che, complice l’ambientazione in gran parte on the road – pardon, sur la route – ricorda pure qualcosa del Furore di Steinbeck. Per l’attenzione riservata a figure provenienti da un certo sottobosco popolare parigino e in parte inghiottite nel buco nero della guerra senza lasciare troppi segni del loro transito terrestre ci vedo anche echi di Modiano e forse persino di Céline (sia pure ripulito e denichilizzato, quindi in fondo decélinizzato), ma qui corro davvero il rischio di farmi prendere un po’ troppo la mano con le analogie e andare fuori strada. Poiché, comunque, Lemaitre è un meraviglioso affabulatore, mosso da una spiccata curiosità per il non detto acquattato tra le note a pié di pagina della Grande Storia, il risultato complessivo, anche se non del tutto originale, è senza dubbio unico. Ci si diverte, ci si commuove, si ha da pensare e si imparano pure un sacco di cose nuove: cosa volete di più?

Lo sfondo, dicevo. Quello che per noi italiani sono stati Caporetto o l’8 settembre, per i francesi si riassume nella disfatta subita ad opera dei nazisti tra il maggio e il giugno del 1940, quando la “strana guerra” dichiarata da nove mesi, ma praticamente fino a quel punto mai combattuta, comincia per davvero e un intero paese, prima ancora di essere sconfitto sul campo, collassa improvvisamente su se stesso per non averci mai davvero neppure creduto, all’ipotesi di una vittoria, in parte atterrito, in parte ammaliato dalla rinnovata baldanza del tradizionale nemico tedesco. Così, quando si diffonde la notizia che le armate avversarie stanno puntando con decisione verso Parigi, anziché allestire come nel ‘14 la staffetta dei taxi per sbarrare loro il passo sulla Marna, dalla capitale comincia un caotico fuggi fuggi verso la parte opposta, lungo strade che, non essendo neanche lontanamente paragonabili a quelle di oggi, si intasano subito, invase da «centinaia di uomini, donne, bambini, vecchi, che camminavano nella stessa direzione, una parata interminabile di volti concentrati, sgomenti, spaventati», accomunati dalla medesima «aria di naufragio e di rinuncia». «La macchina sobbalzava lentamente in quel flusso di fuggiaschi che era l’immagine di un paese in ginocchio. Volti, volti ovunque. Un immenso corteo funebre (…), diventato l’agghiacciante specchio delle nostre miserie e delle nostre sconfitte». Tutta la debordante grandeure di chi aveva eretto Versailles e assaltato la Bastiglia, e godeva a pari titolo dell’uno e dell’altro momento del proprio passato, si sgonfia desolatamente di fronte a quella che appare in quel momento l’ineluttabile avanzata di una diversa forma di modernità, scandita dal passo dell’oca. Come spesso accade, un simile scenario apocalittico in molti risveglia «gli istinti più bassi, gli egoismi più neri, gli interessi più avidi» (i bravi contadini di Francia, per esempio, se accolgono con relativa benevolenza i primi fuggiaschi che sostano in mezzo ai loro campi, dal secondo o terzo giorno iniziano a imporre tariffe per consentire l’accesso ai pozzi, contenti di lucrare qualche spicciolo sulla rovina nazionale); in altri, tuttavia, suscita «il desiderio di aiutare, di amare, ha imposto il dovere della solidarietà». È questa la «scelta di campo» richiesta dai momenti difficili – che sono poi anche i nostri, dove la solidarietà appare un delitto a quanti considerano più sconcertante scendere in piazza per denunciare un genocidio che il genocidio stesso: «stare tra quelli che si chiudono in se stessi, che sbarrano porta e cuore ai poveri e agli indifesi che si rivolgono a loro, oppure tra quelli che spalancano le braccia, non malgrado le difficoltà, ma grazie alle difficoltà?».

In modi diversi, questa domanda se la devono porre tutti gli attori chiamati sulla scena, ciascuno con il suo concentrato di delusioni personali travolte, ma non cancellate, da questi eventi enormemente più grandi di loro. Come Louise, una giovane (ma non più così giovane) donna senza marito e senza figli che vive questa sua maternità mancata come un’umiliazione e che, da un momento all’altro, scopre in modo abbastanza traumatico che la madre apatica con cui aveva vissuto, morta un giorno qualunque senza neanche salutare, dopo anni di sconsolata depressione, nascondeva una sofferenza e un vissuto segreto da cui emerge una personalità totalmente diversa da quella che lei stessa le aveva sempre attribuito, per comprendere davvero la quale si mette in cerca di chi conosce pezzi di quel suo inimmaginabile passato. O come Raoul, una canaglia sempre in grado di tirare fuori dal taschino, persino in tempi di penuria, un’ultima sigaretta da offrire al tapino che sta per circuire coinvolgendolo in qualche sporco raggiro, senza rinunciare alla violenza e all’intimidazione se questi si defila, anche quando si tratta di sottrarre risorse dalle caserme assiepate lungo la linea Maginot e allestire un redditizio mercato nero a spese dell’esercito, e che, nel bel mezzo di quello «scenario da fine del mondo», per odio verso la vita, i potenti, le madri ed i padri, «si sentiva a suo agio come a una festa di paese». O ancora come Fernand, un agente della guardia nazionale in crisi di fede, rimasto tuttavia a Parigi, nonostante la catastrofe incombente, trattenutovi dal suo altissimo senso del dovere, per lo meno fino al momento in cui trova inaspettatamente il modo di mettere le mani su una valigia piena di denaro della banca nazionale destinato al rogo perché non finisca nelle tasche naziste e si immagina di poterlo impiegare per pagare finalmente il viaggio della vita in Persia all’amatissima moglie Alice, dando un giro di vite a un matrimonio riuscito, sì, ma – anche per loro – non benedetto da figli. Di tutti costoro seguiremo peripezie, cadute, momenti di gloria e, forse, per qualcuno, persino una forma di riscatto.

Ma il più affascinante di tutti è senza dubbio monsieur Désiré Migault, un professionista del trasformismo, a cui la confusione provocata dalla guerra e la fortuna di vivere in un mondo ancora analogico offrono infinite possibilità di applicare il suo talento nell’assumere vite diverse, cucendosele addosso con un tale, meravigliosa, disinvoltura da risultare tutte le volte credibile, almeno fino a quando qualcuno di quelli che gli girano intorno, per scrupolo, curiosità o semplice puntiglio si avvicina a scoprire la verità, inducendolo a sparire dai radar e a ricomparire altrove sotto nuove sembianze. Quando lo incontriamo per la prima volta indossa la toga d’avvocato ed è impegnato, in un’aula del tribunale di Rouen, nell’arringa difensiva di una giovane ragazza accusata di omicidio, ma prima di questa performance – ci viene detto – era già stato professore anticonvenzionale nella classe unica di Rivaret-en-Puisaye, pilota all’aeroclub di Évreux, chirugo per due mesi all’ospedale Saint-Louis di Yvernon-sur-Saone, tutto sempre per pochi mesi, tempo comunque sufficiente per lasciare un ricordo indelebile in chi ha avuto l’occasione di conoscerlo. Anche la sua carriera forense non dura molto: subito prima di vincere la causa, il presidente dell’ordine gli fa notare che non si trovano gli estremi della sua laurea; lui passa un momento in toilette e da quel momento non si farà più vedere, ma intanto l’ignara corte pronuncia l’assoluzione della sua assistita, e poiché «mettere in discussione la sentenza avrebbe significato riconoscere che il meccanismo giudiziario aveva lasciato che un falso avvocato esercitasse impunemente», semplicemente si fa finta di niente e non se ne parla più. Perché lo fa? E chi lo sa? Forse per sberleffo, iconoclastia, per una forma d’arte o forse solo per puro divertimento.

Un uomo come lui non può che dare il meglio di sé al Ministero della Propaganda, dove viene arruolato perché millanta indimostrabili competenze in lingue e culture orientali di cui nessuno sa nulla e che lui, semplicemente, si inventa sul momento, suscitando il plauso ammirato di chi accetta come autentico khmer quello che è solo un grammelot improvvisato. È lui a suggerire di scrivere nei comunicati ufficiali che i tedeschi non “avanzano”, ma “si spostano in avanti”, che i francesi non “arretrano”, ma “si spostano indietro”. Consapevole che «non esiste niente di più verosimile della parola ufficiosa», scrive convincentissimi testi radiofonici in cui inventa false domande di falsi cittadini e false risposte di falsi politici e militari anonimi, con la stessa facilità con cui oggi si costruiscono profili fake sui social allo scopo di solleticare l’istinto gregario della specie e raggrumare l’opinione pubblica sulle posizioni considerate più vantaggiose per il governo. Désiré qui si sente davvero a casa, ma è naturale che nel paradiso della falsificazione qualcuno fiuti l’imbroglio e lo costringa ad abbandonare la nave un attimo prima di essere smascherato. Poco male. Nei pressi di Arneville, si imbatte nel cadavere di un sacerdote freddato da una scarica di proiettili e non ci pensa due volte: si infila la tonaca, si accoda alla fiumana che abbandona Parigi e «nel giro di un chilometro, era già prete». A quelli che avrebbe incontrato racconterà, mostrando il foro nella veste, di essere stato salvato dalla proverbiale Bibbia nel taschino. «Quella frottola, un’autentica sfida alle leggi della fisica, non stupiva nessuno perché tutti volevano crederci». Con queste credenziali di presunta santità, l’uomo che si fa ora chiamare padre Désiré riesce dal nulla ad allestire una specie di centro di accoglienza per rifugiati e profughi, dove ci si arrabatta come si può, ma si offre un autentico lumicino di speranza a chi si sta smarrendo nella notte. Manca solo il miracolo, o forse il miracolo è che, pur essendo tutta una finzione, clamorosamente funziona, come se in quel rinnovato esodo si fosse manifestata davvero la presenza di Dio nella sua nube. Il nostro eroe immerge le mani nei liquami per riparare delle tubature con la stessa scioltezza con cui le eleva al cielo mentre celebra liturgie totalmente inventate in falso latino, spacciandole per un fantomatico “rito ignaziano”, ma la sua attività preferita è la confessione, poiché trova «affascinante constatare quanti peccati si potessero attribuire quegli esseri che in realtà erano solo delle vittime». Per tutti loro «aveva l’assoluzione facile e generosa»: in fondo - sembra dirci - siamo tutti prigionieri delle storie che ci raccontiamo, siamo chi ci convinciamo di essere o ci convincono di essere. Ma se questo impulso ci spinge ad arrenderci prematuramente quando pensiamo di non essere all’altezza della situazione, per lo stesso motivo potremmo essere in grado di realizzare autentiche meraviglie, se solo pensassimo di poterlo fare. Perché, allora, non credere che qualcosa di buono sia possibile e, se proprio siamo obbligati a guardarci riflessi in uno specchio deformato, non prendere per valida l’immagine migliore di noi stessi, anziché accettare come normale di essere tutti cinici, avidi e cattivi, continuando a grufolare con un certo compiacimento nell’infamia?

(finito il 9 agosto 2022)

Ho parlato di


Pierre Lemaitre
Lo specchio delle nostre miserie
(Mondadori 2020)

504 pp. | 20 €

trad. di E. Cappellini

(ed. or.: Miroir de nos peines, Paris 2020)

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