Tanti anni fa, più o meno all’inizio del mio percorso da studente universitario, lessi il libretto di Maurizio Ferraris proposto in questa stessa invitante collana denominata “Biblioteca essenziale”, sperando che in poche parole mi spiegasse (proprio nel senso di erklären) che cosa mai fosse l’ermeneutica, e ne uscii invece con le idee ancora più confuse di prima, non tanto per la difficoltà dell’argomento in sé, quanto perché, - ma lo scoprii solo dopo -, quel testo un po’ subdolamente presentato come riassunto dello status quaestionis segnava invece l’avvio di una presa di distanza intellettuale verso quella pratica filosofica da parte di un pensatore che dell’ermeneutica aveva anche scritto un’importante storia, ma ora sottoponeva a critica caustica ciò che avrebbe dovuto introdurre, lasciando frastornato chi, come il sottoscritto, doveva ancora capire bene che cosa fosse ciò che lo si invitava caldamente ad abbandonare, con l’argomento principe secondo cui la celebre espressione niciana “non esistono fatti, solo interpretazioni” risulterebbe immediatamente fallace ad ogni uomo di buon senso se la si trasformasse in “non esistono gatti, solo interpretazioni”. Nonostante questa piccola delusione, a distanza di molto tempo, sono tornato a riporre le mie speranze in un testo di quella stessa serie, confidando che l’illustre accademico di turno mi aiutasse questa volta a capire che cosa mai fosse la guerra - e non è che sia andata molto meglio.
Forse sono io, o forse è un rischio congenito in tutte le opere che provano a fare il punto su questioni molto complesse e che, proprio per questo, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe e al motivo per cui sono state scritte, finiscono per essere più utili a chi le cose un po’ già le sa e riesce perciò a capire anche solo da sfumature o variazioni d’accento dove si indirizza davvero il discorso, a differenza di chi invece ne sa poco o niente ed è lì per imparare tutto quel che c’è da sapere. Va detto, a mia parziale discolpa, che di un possibile «risultato deludente», sia pure in forma interrogativa, rispetto al nocciolo della questione, parla lo stesso Bonanate, persino dopo tre densissimi capitoli e un centinaio di pagine di analisi, citazioni, confronti storici e l’articolazione di un dettagliato “catalogo delle guerre” che fa spavento, perché una tale vastissima fenomenologia (la guerra può infatti essere internazionale o civile, diadica o coalizionale, partigiana, regolare o irregolare, convenzionale o non-convenzionale, di movimento, di posizione, aerea, marina, terrestre, “stellare”, di liberazione, dinastica, di religione, rivoluzionaria o di difesa, eccetera eccetera) lascia pensare che l’inventiva umana non abbia davvero mancato di esplorare nessuna possibilità di questa sua specifica perversione, come se si trattasse di un immenso repertorio del fetish più estremo. D’altra parte, più la casistica è ricca, più è facile che si trasformi in puro fumo negli occhi, come quando si discetta sul fatto che a Gaza la gente, sì, mangia pochissimo e muore tantissimo, ma che non si parli, per carità, di “carestia” o di “genocidio”, perché la storia – in questo davvero cattiva maestra – ci presenta esempi ben peggiori che in quest’occasione non sarebbero (ancora) stati raggiunti. Ci sarebbe pure da rallegrarsi, se dopo millenni di assuefazione alla violenza, oggi provassimo un sincero ribrezzo anche solo a pronunciare le parole della pura forza, perché potrebbe essere indizio che la nostra specie starebbe costruendosi un nuovo e meritevole tabù; magari in parte è anche così, ma la conseguenza più immediata, per ora, è che uomini indegni si appellano ai cavilli per giustificare il mancato rispetto di quegli impegni condivisi che con estrema fatica siamo comunque riusciti ad assumerci dopo i grandi cataclismi novecenteschi (vale anche per noi italiani, che per Costituzione dovremmo ripudiare la guerra e dobbiamo perciò preoccuparci sempre di sottolineare che i nostri militari in giro per il mondo sono lì semplicemente a “portare la pace”). I discorsi, insomma, sono ingannevoli. Bonanate osserva a un certo punto che, sia pure paradossalmente, la politica internazionale della seconda metà del XX secolo, si sarebbe progressivamente pacificata, «ponendo tuttavia la guerra al centro della sua realtà». Quando c’era la guerra fredda, il mondo sarebbe cioè stato più in pace di quanto lo sia ora, in un’epoca in cui nessuno vuole più nominare la parola “guerra”.
Ho usato il condizionale, perché queste comparazioni mi sembrano sempre parecchio azzardate, ma assumono un senso – mi pare – se ci si pone dal punto di vista adottato dall’autore, che è quello di un docente di relazioni internazionali (disciplina nata anche per provare a dare una risposta secolare all’antica questione teologica dell’origine del male). Se ho capito bene, il perno del suo ragionamento è la tesi secondo cui «ciò che accomuna tutte le guerre è che esse sono combattute non per se stesse, ma per il loro fine, ovvero per la determinazione di una regolamentazione autoritativa dei rapporti tra stati». Si può dunque concordare con von Clausewitz quando sostiene che la guerra è sempre uno strumento della politica e che, appunto per questo, ha una propria grammatica, ma non una logica propria. Checché ne possano pensare tutti coloro che, da Omero a Junger, in forme diverse, l’hanno cantata come un’esperienza essenziale della natura umana, «pur essendo l’evento più drammaticamente coinvolgente grave e doloroso tra tutti quelli a cui l’umanità possa dare vita, la guerra non è la regolatrice massima ed estrema delle sorti del mondo e resta tributaria e ancella della politica, alla quale, comunque e sempre, dovremo guardare per trovare la guerra». Nella fattispecie – continua l’argomentazione – «una nuova guerra scoppierà (cioè, è scoppiata) ogni qual volta la struttura di dominio internazionale esistente si sarà sgretolata (sotto i colpi di forze emergenti contestatrici, della volontà di sopraffazione di una potenza su un’altra, ecc.). Diremo, in termini quasi paradossali, ma tutt’altro che insensati, che la guerra serve a realizzare la pace. Quest’ultima sarà infatti raggiunta quando il vincitore avrà plasmato l’ordine internazionale secondo le sue intenzioni – ecco che la tradizionale concezione della pace come intervallo tra due guerre perde la sua apparente solidità: la guerra è lo strumento della pace».
Questo libro uscì in prima battuta nella seconda metà degli anni ‘90, in quel battito di ciglia durante il quale qualcuno pensò che, dopo il cedimento strutturale di una delle due superpotenze e del suo impero, le guerre sarebbero state un fenomeno sempre più residuale e minoritario. Bonanate sentì tuttavia l’esigenza di riprenderlo in mano e aggiornarlo all’inizio del nuovo Millennio, perché, nonostante continuasse a provare buone sensazioni («se si confronta l’età attuale con qualunque altro periodo della storia internazionale degli ultimi cinque secoli, si può facilmente verificare che il mondo non è mai stato altrettanto poco in guerra come in questi ultimissimi anni»), l’attacco alle Twin Towers aveva introdotto una novità assoluta che sembrava capace di rimescolare totalmente il mazzo delle possibilità e vanificare ogni scenario idilliaco, «con un colpo di coda, tipico di fenomeni immensi e incontrollabili tra i quali siede certo la guerra». In particolare, in quel primo scorcio di secolo (che per noi vuol dire fino all’altroieri, l’epoca ormai lontanissima della “giustizia infinita” contro il terrorismo), «in assenza di grandi progetti politici, sembra che la guerra si renda autonoma dalla politica ed essendo entrata in una sorta di perversa autoreferenzialità risulti fine a se stessa, facendo inutilmente del male senza inseguire alcun bene». Oggi, però, la situazione sembra nuovamente cambiata, con il prepotente ritorno di attori e dinamiche apparentemente più tradizionali, e ci tocca nuovamente riadattare le nostre categorie – come del resto è inevitabile che sia, se ci si dà come regola di interrogare «la politica per capire la guerra», giacché senza una comprensione adeguata della politica retrostante, di guerra si può parlare fino alla noia senza arrivare mai a nessun risultato soddisfacente (conclusione che spiega, appunto, perché qualsiasi trattazione sulla guerra che pretenda di incentrarsi solo sulla guerra, per quanto colta, risulti o espressamente tecnica o alla fine del tutto inconcludente). E allora, chiediamocelo: siamo alla vigilia di una nuova spartizione della terra? Bonanate cita di sfuggita la teoria avanzata dal suo collega americano Joshua Goldstein in un volume di fine anni ‘80 intitolato Long Cycles, secondo cui, studiando le caratteristiche macrostrutturali che caratterizzano i grandi cicli egemonici della storia moderna e proiettando sul futuro le tendenze del passato, «la prossima guerra mondiale [...] dovrebbe scoppiare verso il 2030». Né lui né altri, in realtà, lo possono sapere, e queste previsioni servono solo a conferire un postumo e arbitrario carisma profetico a chi ha avuto la ventura di estrarre il numero giusto, ma se in altri momenti avremmo solo fatto spallucce con sufficienza, chi si sentirebbe oggi di escludere con assoluta certezza questa possibilità?
(finito il 23 luglio 2022)
Ho parlato di
La guerra
(Laterza 2011)
172 pp. | 12 €
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