giovedì 8 agosto 2019

La montagna incantata

Narra la Bibbia che, giunto per la prima volta presso il monte di Dio, di fronte al roveto che ardeva senza consumarsi, a Mosé fu intimato di togliersi i sandali, perché quello era un luogo santo. É più o meno con la stessa palpitazione in cuore che provo a balbettare le mie sensazioni dopo essermi accostato a quest’altra montagna, interamente fatta di parole, imponente e bellissima come un massiccio alpino, scalando la quale alle volte ti manca perfino l’aria per quanto si vola alto, in zone rarefatte del pensiero, quasi a contatto con le sfere celesti. «Il cielo splendeva intensamente azzurro sopra i nuovi getti a lancia in cima agli abeti, mentre la località nel fondovalle brillava di luce vivida al calore, e lo scampanio delle mucche, libere in giro e intente a brucare dai pendii l’erba breve e scaldata dal sole, empiva l’aria d’un placido incanto». Ma in questo paesaggio incontaminato si innalza un edificio di infezione e di morte, un lussuoso sanatorio per malattie polmonari che accoglie degenti di varia provenienza. Non è che la prima, appariscente, opposizione su cui si regge l’intero romanzo, interamente ambientato a Davos, prima che questo villaggio svizzero diventasse meta di economisti e finanzieri. La seconda opposizione, altrettanto netta, è quella tra questo mondo d’alta quota, posto seimila piedi al di là dell’uomo e del tempo (Silvaplana non è distante), e il mondo «di laggiù», quella prosaica e indaffarata regione a una dimensione da una delle cui capitali, la brulicante Amburgo, giunge bel bello, in un giorno d’estate del 1907, il giovane Hans Castorp, «né un genio né uno sciocco», rampollo di buona famiglia e ingegnere navale fresco di laurea, in procinto di entrare come praticante nella celebre ditta Tunder & Wilms: insomma, «un uomo del traffico mondiale e della tecnica», un perfetto prodotto dell’Ottocento trionfante, il cui destino, proprio per questo, può assumere per Mann «un certo significato superpersonale». In realtà, Castorp affronta questo lungo viaggio non per sé, ma per visitare il cugino Joachim, la cui sospirata carriera militare è stata momentaneamente interrotta dalla salute cagionevole. Quel che ancora non sa, quando approda al sanatorio, è che l’ascesa che ha compiuto è appena l’inizio del suo percorso iniziatico di risalita dalla caverna. Convinto come tutti di essere sano, scopre infatti per caso di covare anch’egli una malattia, che lo costringerà, dapprima controvoglia, poi con sempre maggior convinzione, a restare confinato lassù per sette anni, un po’ come accadrà ad Heinrich Harrer in Tibet. E probabilmente ci sarebbe rimasto per sempre, perché, anche quando gli diagnosticano la guarigione del corpo, Castorp appare ormai del tutto indifferente alle sirene del secolo, se non fosse per quel colpo di tuono esploso a Sarajevo che «spacca la montagna magica e mette bruscamente alla porta il dormiglione», improvvisamente deciso ad arruolarsi. Sul campo di battaglia lo guardiamo «ancora una volta nel viso schietto, prima di perderlo di vista» per sempre. Non sappiamo che fine farà, anche se non nutriamo molte speranze sulla sua sopravvivenza. Ad ogni modo, la vita è aperta. 

La trama, di per sé, è tutta qui. Però Mann utilizza il microcosmo di Davos per allestire un fenomenale spaccato del “mondo di ieri” travolto dalla bufera bellica e il modo in cui coniuga una minuziosa attenzione al dettaglio con una potente visione d’insieme dimostra una padronanza tecnica del mezzo quale raramente, confesso, ho mai visto – e, almeno sotto questo profilo, forse si tratta davvero del libro migliore fra quelli che ho letto: qui ogni singola parola è attentamente selezionata per descrivere con precisione puntuale il minimo particolare e al tempo stesso si carica di una profondità simbolica che sprigiona una molteplicità di significati e livelli di lettura di cui avrò colto sì e no qualche frammento. Mann stesso sostiene che il libro andrebbe letto due volte, se non ci si é troppo annoiati la prima – e se questo vale in generale per tutti i classici, devo dire che il suggerimento qui è particolarmente pertinente. Siamo letteralmente alle prese con un romanzo-mondo, sia pure giocato interamente ai margini del mondo, in quel particolarissimo limbo che è il luogo di cura, o meglio ancora con un’enciclopedia tribale della modernità, zeppa di riferimenti che spaziano dalla biologia dei protoplasmi alla nuova tecnologia dei raggi x e del cinematografo, o ancora con un’apocalisse ermetica senza lieto fine, in cui la Gerusalemme terrena e quella celeste continuano a non incontrarsi. 

Quest’ultima tensione è ben rappresentata dallo scontro ideale che per gran parte del libro oppone i due personaggi intestatisi il compito di educare il giovane Castorp, attraverso una battaglia dialettica che per finezza argomentativa e lucidità di pensiero non è inferiore alle logomachie allestite da Platone. Da un lato il framassone Settembrini, espressione del pensiero umanista, illuminista e positivista: laico, progressista, esuberante sostenitore del razionalismo occidentale contro il misticismo asiatico e profeta della parola come promotrice di civiltà. Dall’altro il gesuita Naphta, pensatore luciferino e intransigente, convinto assertore della superiorità assoluta dell’ordine divino su quello umano, così rigorosamente ascetico da auspicare gelidamente la catastrofe mondiale perché si affermi in ultimo, come deve essere, la gloria di Dio. Tutto semplice, allora: il rosso e il nero l’un contro l’altro armati? Niente affatto, e non solo perché la disputa resta, anch’essa, perennemente aperta – Settembrini messo spesso alle strette da Naphta nel suo ingenuo ottimismo, Naphta terribilmente affascinante in un esercizio critico che però, a forza di sottigliezze, finisce per sbriciolare il senso stesso di ogni cosa – ma soprattutto perché, con un incedere che sembra la messa in sublime copia di ciò che in Hegel spesso è così farraginoso, queste due posizioni scivolano sorprendentemente di continuo l’una nell’altra, al punto che spesso non si capisce più chi è il santo e chi il libero pensatore, chi il conservatore e chi il giacobino, chi è per la religione e chi è contro di essa, chi per Dio e chi per il diavolo. «Ahimé, i principi e gli aspetti si stavano continuamente tra i piedi, di contraddizioni interne non c’era penuria (…). Era la grande confusione, quell’incrociarsi, quell’intrecciarsi di tutto», su cui Mann stende la sua raffinata ironia, ma che al tempo stesso gli permette di enucleare quel problema che mi turba e mi appassiona ogni giorno di più e che definirei l’osmosi continua tra le polarità opposte della modernità – quel rovesciamento del razionale in irrazionale e dell’irrazionale in razionale che consentì continue interazioni tra elementi apparentemente inconciliabili già molto prima del patto Molotov-Ribbentropp. «Spingevano tutto all’estremo, quei due, come è forse necessario quando si viene ai ferri corti, e litigavano accaniti per un’alternativa suprema, mentre a lui sembrava che nel mezzo, tra le esagerazioni contestate, tra il retorico umanesimo e la barbarie analfabeta, ci doveva pur essere quello che si potrebbe chiamare l’umano». É dunque questo il senso fondamentale della prima contraddizione della Scienza della logica

Entrambi gli estremismi, del resto, sembrano avere il fiato corto, e non solo per questioni di salute. Il cantore delle magnifiche sorti e progressive se ne sta confinato fra i monti a pontificare mentre la tanto decandata civiltà occidentale si getta nel baratro delle trincee; il denigratore del mondo spinge a tal punto in avanti il proprio radicalismo da non poter approdare ad altro esito che all’autodistruzione, lui con tutto il suo Valhalla. E allora dico, gettando lì i miei due poveri penny, che questo romanzo in cui svolge una funzione essenziale la riflessione sul tempo, continuamente dilatato e contratto (e non potrebbe essere diversamente, negli anni di Einstein e di Proust), mi appare anche come un’enorme rappresentazione dell’adolescenza, quell’epoca tipicamente senza mezze misure, in cui un singolo anno mi sembra che ne sia durati dieci, se confrontato coi decenni successivi, quasi volati senza accorgermene – quel periodo di innamoramenti selvaggi e incomprensibili (come quello che Castorp prova per madame Chauchat), di epifanie avvenute spesso proprio in montagna e durante le quali mi sembrava di aver capito tutti i misteri del cosmo, tanto da consegnare allo scritto riflessioni che allora mi apparivano profonde e oggi di un candore imbarazzante. Poi, a un certo punto, improvvisamente, la vita chiama e chissà se sei davvero pronto. Forse la fatica di farsi uomini, per non restare adolescenti a vita, consiste appunto nell’orientarsi fra le antitesi, imparando, poco per volta, che gli opposti, per quanto suggestivi per il loro apparente nitore, sono in realtà impraticabili e pericolosi, perché la vita è, sempre, a un tempo amore e morte, sì e no (come diceva Camus), e riunisce ciò che la mente separa. «Morte o vita; malattia, salute; spirito e natura. Sono forse contraddizioni? Domando: sono forse problemi? No, non sono problemi (…). La sconsideratezza della morte è nella vita, senza di essa la vita non sarebbe vita, e nel mezzo sta l’homo Dei – nel mezzo tra leggerezza e ragione – come nel mezzo tra mistica comunità e vana individualità è il suo stato. (…) L’uomo è signore delle antitesi». Il che comporta, però, un’assunzione di responsabilità personale da cui troppo facilmente abdichiamo con la scusa di non voler compiere inciuci.

(finito il 27 febbraio 2019)

Ho parlato di


Thomas Mann
La montagna incantata
(Corbaccio, 2012)

trad. di E. Pocar

704 pp. | 19,90 €

(ed. or. Der Zauberberg, Berlin 1924)


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