Anche se su scala geologica siamo poveri parvenus, rispetto per esempio ai coccodrilli, nel corso dei millenni abbiamo comunque macinato sufficiente terreno da non essere poi più stati in grado di riconoscerci come parenti, quando alfine ci siamo reincontrati. Già Agostino escludeva l’abitabilità e quindi l’esistenza stessa degli antipodi sulla base del fatto che gli pareva impossibile che dei figli di Adamo si fossero potuti avventurare nell’Oceano grande e terribile in tempi tanto remoti, per poi dimenticarselo, quando neppure all’apogeo dell’Impero Romano v’erano a disposizione i mezzi tecnici per farlo. E invece, del tutto controintuitivamente, le cose pare siano andate proprio così. É pur vero che, fino a 8 mila anni fa, in tempi di glaciazioni e di arretramento delle acque, oltre che in assenza di dogane e confini minati, la Terra era più facilmente percorribile di quanto non lo sia ora. Ciò non toglie, tuttavia, che, per esempio, tra Sunda e Sahul, ovvero tra la piattaforma continentale che sorregge l’attuale Indonesia occidentale e quella su cui poggiano Australia, Papua e Tasmania (per intenderci, ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là della linea di Wallace), restasse comunque «un bel po’ di mare: almeno 90 km. Per un potenziale viaggiatore questo avrebbe voluto dire mettersi in acqua senza riuscire a vedere, se non a viaggio già iniziato, la propria destinazione. Sulla base delle informazioni archeologiche di cui disponiamo sappiamo anche che, con tutta probabilità, le imbarcazioni utilizzate da questi migranti non avevano vele ed erano simili alle attuali canoe. Questa carenza di mezzi adatti alla navigazione in alto mare rende ancora più stupefacente la conquista dell’Oceania da parte della nostra specie in tempi così remoti». Insomma: Colombo, scansati pure.
Si dirà che parliamo comunque già di Sapiens e quei loro grandi cervelli, che sono poi sostanzialmente i nostri, a qualcosa dovevano pur servire. Ma questa storia di dispersione globale comincia in realtà assai prima, praticamente da che Homo è Homo – ossia da molto più tempo, anche se non proprio da sei milioni di anni, perché quella è solo la data approssimativa di quando è cominciata la divaricazione tra i nostri più antichi progenitori e quelli degli odierni scimpanzè a partire dall’ultimo antenato comune, ed è assodato che il bipedismo obbligato non fu una conquista immediata, tant’è che la piccola Lucy, la più celebre australopiteca, pare proprio sia morta cadendo da un ramo su cui continuava pur sempre a cercare rifugio la notte. Tanto basta, comunque, per riconoscere all’uomo la qualità di specie mobile per eccellenza. Come suggerisce l’antropologo Marco Aime, qui citato, «oggi si fa un gran parlare di radici e dei diritti che deriverebbero dall’averle in un posto e non nell’altro, ma basta abbassare gli occhi (…) per rendersi conto che in fondo alle gambe non abbiamo radici, ma piedi: piedi che servono per andare in giro e di cui ci serviamo dall’alba dei tempi per il colossale viaggio in cui l’umanità è impegnata fin da quando ha mosso i primi, timidi passi sul suolo, con arti ancora poco adatti a camminare, con un cervello piccolo e poca forza muscolare, ma spinta a procedere da due caratteristiche umane già allora pienamente sviluppate (…): irrequietezza e curiosità».
Con un occhio rivolto, dunque, a Jules Verne ed uno alle Cosmicomiche di Italo Calvino, questo libro si propone pertanto di raccontare, alla luce dei risultati più recenti della ricerca scientifica, le principali tappe di un cammino che ci ha portato a occupare (qualcuno direbbe anche: a infestare) persino le regioni più remote e inospitali del pianeta, al ritmo apparentemente lento, ma inesorabile, di circa 3 km all’anno, pagato con i cronici mal di schiena imputabili al progressivo raddrizzamento di una colonna vertebrale che non era stata brevettata per la postura eretta (poiché la natura ricicla tutto e, non potendo inventare dal nulla, come McGyver, accrocca con ciò che ha a disposizione). Con la sottolineatura che, dovunque ci siamo spinti, a ondate successive, abbiamo finito bene o male sempre per rimescolarci. I risultati acquisiti dalla genetica «confermano qualcosa che avevamo intuito da tempo: siamo tutti bastardi. Abbiamo bisogno di nomi per definire le tantissime forme dei viventi, ma limiti fra una specie e l’altra sono meno definiti e più permeabili di quanto queste etichette possano far pensare. (…) Nella biologia contemporanea, (…) l’appartenere a specie diverse non significa che non ci possa essere stato qualche scambio, e che gli individui ibridi non possano, a loro volta, aver lasciato dei discendenti». A maggior ragione questo processo sarà poi valido per i Sapiens soltanto, cosicché, quando dal comune retroterra biologico cominceranno a delinearsi le popolazioni storiche, nessuna di queste risulterà nettamente isolabile rispetto a un’altra. «Neolitici, Egizi, Greci: tutti questi popoli antichi avevano le loro caratteristiche, che oggi riusciamo in parte a decifrare nei loro genomi. Ma nessuno di questi genomi era puro, perché, e lo si vede bene, tutti contengono componenti eterogenee, di origini eterogenee. L’umanità, fin da prima di Homo sapiens, è sempre stata in movimento, e i risultati delle migrazioni e degli scambi si vedono nel nostro DNA, in cui coesistono, oggi come ieri e l’altro ieri, i contributi di antenati di tante origini diverse». Se siamo ciò che siamo, dunque, non è malgrado gli incroci, ma proprio in virtù di essi. Per quanti masticano già un po’ questi argomenti, tali considerazioni suoneranno ovvietà, eppure potremo dire di aver compiuto davvero il grande passo solo quando, divulgatili al punto di averli finalmente resi senso comune, riusciremo a far capire anche ai più cocciuti che proprio quei romani di cui si fregiano di imitare il saluto sono stati in realtà fra i primi a rivendicare la condizione di migranti e di meticci - in quanto eredi del troiano Enea e della latina Lavinia - come motivo d’orgoglio e non di vergogna.
Ps: a uno di questi rimescolamenti neolitici è dedicato un recente podcast in cinque puntate pubblicato dal Post. S’intitola “L’invasione” e parla, per sommi capi, dell’espansione degli Indoeuropei: per quel poco che sono fin qui riuscito ad ascoltare, mi pare che meriti un surplus d’attenzione.
(finito il 30 dicembre 2021)
Ho parlato di
Il giro del mondo in sei milioni di anni
(Il Mulino 2018)
198 pp. | 15 €
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