Ma dopo che hai scritto una cosa come Moby Dick, che altro potresti volere ancora dalla vita? Uomo bennato a cui è stato concesso il privilegio di arpionare davvero la tua personale balena bianca, goditi il tuo sabato, lascia che ora ci provino gli altri, se ci riescono, a fare altrettanto, e ritirati per sempre a fumare con calma la pipa accanto al grandioso camino della tua casa di campagna, proprio come vorrebbe il protagonista dell’ultimo, delizioso, racconto contenuto in questa raccolta (intitolato appunto Io e il mio camino). E invece no, il buon Herman l’idillio non se lo può gustare. La sua controfigura narrativa, descritta con meravigliosa autoironia come una persona così visceralmente all’antica da possedere persino «la curiosa abitudine di gironzolare con le mani… dietro alla schiena», è costantemente assediata da «una moglie intraprendente (…) progettatrice per natura», che sconvolge continuamente con i suoi piani e il suo amore per le novità l’inerzia di un marito impietosamente bollato come “vecchio” (e in effetti, glielo riconosce, «vecchio io stesso, sono sensibile alla vecchiaia delle cose: amo, perciò, soprattutto il vecchio Montaigne, il formaggio stagionato e il vino vecchio; ed evito i giovani, i panini caldi, i libri nuovi, le patate novelle, e sono affezionato alla mia antiquata poltrona dai piedi ad artiglio e al mio vecchio vicino dal piede deforme, il diacono White, e all’ancor più prossima mia annosa vicina, la vecchia vite nodosa, che, nelle sere d’estate, dà di gomito al davanzale della finestra per farmi cordiale compagnia, mentre io, dall’interno, spingo all’infuori il mio, per incontrare il suo; e, soprattutto, di gran lunga al di sopra di tutto, sono molto affezionato al mio vecchio camino dall’alta cappa»).
Forse, quando mia moglie, tempo addietro, mi regalò un’altra edizione di questo racconto qualcosa voleva scherzosamente farmelo capire (e a ragione, giacché – pigro come sono – senza di lei avrei conosciuto un’infinitesima parte di mondo), ma nel caso di Melville si trattava solo di una proiezione letteraria. Non era infatti la remissiva consorte a tormentarlo, ma un ben più incalzante demone, quello che lo induceva a continuare comunque a scrivere, perché scrivere probabilmente gli serviva per vivere, ma forse ancor di più perché scrivere è una malattia, che si fa tanto più acuta quanto meno vieni capito – e in quella moglie così perennemente affaccendata e attiva mi verrebbe allora da scorgere anche un simbolo dei suoi stessi connazionali, così pieni di spirito pratico e così inebriati di quello che appariva loro come un destino manifesto da non sapere assolutamente che farsene di quell’eccentrico scrittore di balene che col suo lento salmodiare satireggiava la loro retorica efficientista e le sedicenti meraviglie del progresso tecnico.
Col suo talento innato per l’allegoria, a coloro che non erano stati convinti dal capitano Achab, Melville portò dunque in dono lo scrivano Bartleby, altro personaggio memorabile, che di Achab può essere considerato per certi aspetti l’opposto, sebbene ne condivida in sostanza la medesima fine. Assunto come copista nell’ufficio di un avvocato di Wall Street, quest’uomo mite, silenzioso e quieto sarebbe stato l’impiegato perfetto se a un certo punto non avesse del tutto inaspettatamente cominciato a rifiutare gli incarichi assegnatigli, opponendo alle direttive del capufficio il suo pacato, ma irremovibile, “preferirei di no”. Le cause di questa sua ribellione restano e resteranno per sempre misteriose: la sua, per dire, non appare affatto una scelta etica come potrebbe essere quella di chi antepone la voce della coscienza all’ordine ingiusto – ma proprio in questo sta la sua grandezza simbolica, quell’elemento conturbante che ci disarma e ci procura una sottile angoscia. Noi che, per garantire un servizio adeguato, facciamo le ore piccole, ben oltre gli orari e le remunerazioni stabiliti dal contratto, potremmo essere tentati di liquidare la sua inspiegabile protesta come una semplice variante della comoda negligenza che contraddistingue il solito collega svogliato alle cui inadempienze tocca di volta in volta porre rimedio coi salti mortali. Tuttavia, rifiutando di partecipare al grande gioco che tutti quotidianamente giochiamo, svenandoci senza sapere neanche il perché, Bartleby ci suggerisce con candore che in realtà tutto questo affaticarsi non porta da nessuna parte, se non ad aumentare ulteriormente la stretta della gabbia di ferro che ci incatena, con le frustrazioni e le ingiustizie che ne conseguono (come mostrano anche altri racconti qui presenti, spesso giocati proprio sulle ambivalenze di una società profondamente contraddittoria, in cui il paradiso degli uni è l’inferno degli altri). Forse, come avrebbe ribadito, con tutt’altro stile, anche Bianciardi, in un mondo in cui tutti si agitano nevroticamente, bisognerebbe avere il coraggio di restare fermi, muti «come l’ultima colonna di un tempio in rovina», terribilmente soli come «un pezzo di relitto in mezzo all’Atlantico», pur sapendo che il nostro destino sarebbe comunque quello di venire triturati e infine sputati dal sistema. Melville l’ha profetizzato ma poi, per fortuna, ha continuato a scrivere, scrivere e scrivere.
(finito il 22 novembre 2021)
Ho parlato di
Bartleby lo scrivano
e altri racconti americani
(Mondolibri 2013)
Trad. di M. Bagicalupo
226 pp. | 5,90 €
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