A quanti ci osservano con la stessa divertita curiosità che dedicherebbero a qualche buffa bestiolina, quando scoprono che siamo in grado di riconoscere al primo sguardo se c’è un volume fuori posto nella nostra libreria, soprattutto se tale discutibile talento s’accompagna ad eccentricità socialmente più rilevanti, come (per dirne solo una, realmente accaduta) il presentarsi in un ufficio pubblico con la maglietta girata al contrario, dovremmo avere una buona volta il coraggio di rispondere con le stesse parole con cui aprì questo suo aureo libretto – fra gli ultimissimi dati alle stampe in vita, quasi un testamento spirituale – uno che sapeva perfettamente quel che diceva poiché affetto dalla nostra stessa malattia: «come ordinare la propria biblioteca è un tema altamente metafisico» (stia dunque alla larga chi s’aspettasse banali consigli di biblioteconomia domestica). Questo non aumenterebbe probabilmente la nostra credibilità fra gli uomini di mondo, ma sarebbe una dichiarazione indubbiamente più sincera delle maldestre scuse spesso abbozzate per mascherare l’imbarazzo. Perchè sì, che ci crediate o no, quando disponiamo i nostri libri l’uno accanto all’altro, stiamo davvero provando a mettere in ordine l’universo. Concettualmente diversa da un semplice magazzino o da un deposito di merci, l’autentica biblioteca assomiglia piuttosto a quello che il mappamondo rappresenta per il globo terrestre, un principio di organizzazione – e proprio per questo dovrebbe sempre essere a scaffale aperto, poiché, anche solo aggirandosi tra queste foreste di simboli e scorrendo le coste dei singoli tomi si possono finire per scoprire le corrispondenze segrete che tengono insieme tutto ciò che c’è.
Lo aveva capito benissimo Aby Warburg, teorico della regola aurea del «buon vicino (…), secondo cui nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile di quello che cercavamo». Calasso ricorda di aver sperimentato personalmente la giustezza di questa regola quando ebbe modo di frequentare la biblioteca di Warburg a Londra per lavorare alla sua tesi sui geroglifici di Sir Thomas Browne; per parte mia, non posso trattenere un fremito di pura riconoscenza verso la vita per avermi dato l’occasione di sperimentare una gioia analoga, al tempo del dottorato, quando bazzicai anch’io le stesse stanze cercando una chiave per entrare nella testa dei miei medici rinascimentali. Quella biblioteca - e mettiamoci pure quella del Wellcome College, lì vicino - sono state per me vere e proprie baie delle Sirene in cui avrei potuto naufragare dolcemente per l’eternità (e non per nulla, nei miei sogni, il paradiso appare spesso come un’immensa biblioteca). Warburg, peraltro «non si stancava mai di spostare libri e poi spostarli di nuovo. Ogni passo avanti nel suo sistema di pensiero, ogni nuova idea sulla interrelazione dei fatti lo induceva a raggruppare in altro modo i libri che vi erano coinvolti. Sobrie parole che invitano a rassegnarsi una volta per tutte: l’ordinamento di una biblioteca non troverà mai – anzi non dovrebbe trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento. É terreno vulcanico, dove sempre qualcosa sta succedendo, anche se non percepibile dall’esterno».
Si annida qui una verità che non si può capire se si intende la lettura in termini di puro consumo e che permette a mio avviso di pronosticare ancora lunga vita ai libri cartacei – a differenza, per esempio, di quanto accade coi supporti materiali audiovisivi, che cambiano di continuo – e questo non solo perché con il papiro e l’ebook puoi fare molte cose (come leggere questo libro), ma non puoi farne moltissime altre («sfogliare un libro, leggere il risvolto, far cadere l’occhio su una pagina a caso, tenere il libro in mano e considerarlo come un oggetto, attraente o urtante»). Sebbene, infatti, non siano in origine pezzi unici come le opere d’arte, in quanto riproducibili in fase di stampa, una loro effettiva unicità i libri poi la guadagnano davvero, col tempo, entrando a far parte di quel personalissimo vissuto di cui la biblioteca personale registra, per così dire, le stratificazioni e i movimenti, proprio come se fosse un’estensione di te, che cresce con te, popolandosi via via di ciò che ti ha segnato o che reputavi importante e lasciando fuori ciò che non ritenevi invece meritevole di attenzione o che hai pensato non ti interessasse più (per questo «una biblioteca dovrebbe fondarsi su larghe esclusioni»: riflesso della vita, essa è sempre una selezione, così come quella è fatta di scelte). E poiché siamo creature distese nel tempo, una vera biblioteca non si limita a inquadrare l’esistente, ma esprime anche una promessa, un messaggio in bottiglia lanciato a se stessi da epoche diverse. «Essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro – e magari lo si troverà in uno scaffale poco frequentato della propria biblioteca. (…) L’importante è che ora si possa leggere subito. Senza ulteriori ricerche, senza provare a trovarlo in biblioteca. Operazioni laboriose, che conculcano l’estro del momento. Strana sensazione, quando si apre quel libro. Da una parte il sospetto di aver anticipato, senza saperlo, la propria vita (…). Dall’altra un senso di frustrazione, come se non fossimo capaci di riconoscere ciò che ci riguarda se non con un grande ritardo. (…) Oggi l’informatica ha ridotto enormemente i tempi dell’attesa e della ricerca di un libro. (…) Ma questo nulla toglie all’incanto di trovarsi fra le mani – immediatamente – un libro di cui non si sapeva di aver bisogno sino a un momento prima. Il gesto decisivo rimane quello di aver acquisito qualcosa, un giorno, pensando che il suo uso era soltanto ipotetico».
Se invece quel libro lo si è già aperto, bisognerebbe sempre potervi ritrovare segni dei propri precedenti passaggi. «Molto raro è il caso di libri che abbia letto e siano rimasti tali e quali, senza alcun segno a matita. Non aggiungere a un libro tracce della lettura è una prova di indifferenza. (…) E a partire dalle annotazioni su un libro svanito dalla memoria si può anche ritrovare quel certo passo che risulterà indispensabile “vent’anni dopo”». É di questi ghirigori e marginalia che il pensiero si nutre avidamente, costruendo continue connessioni ipertestuali con l’ausilio di strumenti apparentemente desueti come un lapis (così cominciò, più o meno, anche Montaigne, costeggiando lateralmente gli storici, e ne vennero fuori gli Essais). In fondo, «l’intrecciarsi delle letture nello stesso cervello è una versione impalpabile di quelle reti neuronali che fanno disperare gli scienziati»: «ogni lettore vero segue un filo (che siano cento fili o un filo solo è indifferente). Ogni volta che apre un libro riprende in mano quel filo e lo complica, imbroglia, scioglie, annoda, allunga». Per questo non è affatto la stessa cosa leggere un libro prima o poi e per questo soppesare quale libro cominciare, quale sia il libro da leggere proprio in questo momento, è sempre un’istanza cruciale. Se, dunque, è certamente una biblioteca quella che si estende nello spazio, lungo le pareti e i corridoi, non lo sarà di meno quella che si dispiega secondo l’ordine del tempo, nella quale la successione delle letture costituisce l’equivalente dell’affiancamento di un libro all’altro sui ripiani. É questo, dopotutto, il motivo per cui mi ostino a seguire con disciplina la regola che mi sono dato, anche se sconto ormai un ritardo di due anni sulla tabella di marcia, perché quelle che qui raccolgo non sono in realtà recensioni ma le coordinate della mappamente della mia vita.
(finito il 30 dicembre 2021)
Ho parlato di
Come ordinare una biblioteca
(Adelphi 2020)
127 pp. | 14 €
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