Poco importa che non sia più in grado di recuperare la fonte esatta a cui pensavo, dato che analoghi articoli in cui si glorifica questo libro come uno dei testi imprescindibili del primo quinto di XXI secolo se ne possono trovare a decine. Ed effettivamente è vero che, ben prima di cominciarlo, l’avevo già sentito citare dalle persone più diverse e nei contesti più disparati da indurmi a pensare, quando poi mi sono deciso a leggerlo, di essere ormai l’unico sprovveduto a non averlo ancora fatto. Il successo editoriale è però un fenomeno ambiguo, assai più utile per misurare gli umori del pubblico anziché il valore di ciò che è stato scritto. L’esposizione alla ribalta attira inoltre le polemiche e polarizza le posizioni, giacché, più infervorati sono gli applausi, più feroci si levano anche le critiche (come quelle di chi liquida Harari come uno spregiudicato populista della scienza in risposta a chi ne ha fatto quasi un guru spirituale). Ora che, in base alle regole che io stesso mi son dato, è arrivato – con consueto ritardo - il momento di dire la mia, ammetto che non ho ancora capito bene da che parte stare.
Partirei di qui. Circola in rete una recente, bellissima, lezione di Telmo Pievani incentrata sul perché mai proprio noi siamo rimasti l’unica specie umana sulla Terra. Fra le tesi che vi vengono argomentate c’è anche quella secondo cui non sarebbero state l’invenzione dell’atomica o la Rivoluzione industriale, come di solito si dice, a determinare l’inizio del cosiddetto “antropocene” (ovvero l’epoca geologica segnata irreversibilmente dall’azione umana) bensì un evento decisamente più remoto quale l’ondata migratoria che spinse i nostri antenati Sapiens per la seconda o terza volta fuori dall’Africa, all’incirca tra i 60 e i 40 mila anni fa, perché in effetti è proprio da allora che abbiamo cominciato a plasmare il mondo a nostra immagine e somiglianza, come ben si accorsero anzitutto le altre specie umane allora esistenti (i Neanderthal, i Denisova e i Floresiensis, almeno), che per prime dovettero fare i conti con la nostra improvvisa invadenza, dopo che per qualche decina di migliaia di anni eravamo riusciti a costruire con loro una qualche forma di pacifica convivenza (come testimoniano le frequenti ibridazioni attestate dal DNA conservato nei reperti fossili). Harari esprime mi sembra un concetto analogo quando scrive che, a partire dalla Rivoluzione cognitiva, per i Sapiens non si può più parlare di un «modo di vita naturale», in quanto la cultura ha soppiantato la biologia e ai tempi lentissimi della paleontologia è subentrato il tempo accelerato della storia, che ci ha fatto progressivamente aumentare sempre più il passo rispetto a quello dell’evoluzione genetica (creandoci pure qualche complicazione, dal momento che, anche se viviamo nei grattacieli, «il nostro DNA pensa ancora che siamo nella savana», perché non ha ancora avuto veramente il tempo di adattarsi a condizioni che, peraltro, mutano continuamente). Questo è appunto uno di quei libri che, come già a suo tempo quello di Diamond, ci invitano a ragionare secondo questa prospettiva, sempre piuttosto spiazzante, di lunghissimo periodo, e a considerare perciò tutto quello che è successo da allora in poi come parte di un unico processo scandito giusto da due, tre tappe veramente fondamentali, rispetto a cui tutto il resto è quasi irrilevante – e sebbene il suo autore, sorretto da indubbio talento divulgativo e da un’ostentata irriverenza, tenda effettivamente a dare l’impressione di vendere come se fossero sue trovate brillanti delle idee che magari non sono sempre farina del suo sacco, ciò non toglie che molte delle cose che scrive siano convincenti e condivisibili (e difatti me ne sono anche servito a scuola per parlare, ad esempio, di Bacone o di Rousseau).
Perno principale del suo ragionamento è che il motore di questo sviluppo (che non è necessariamente un progresso, se lo valutiamo in termini di felicità raggiunta, poiché «non è detto che nuove attitudini, comportamenti e capacità rendano necessariamente migliore la vita») non sarebbe tanto da riconoscere né in invenzioni materiali quali la ruota né in scoperte come la domesticazione del fuoco, bensì nell’acquisizione della straordinaria «capacità di creare una realtà immaginata traendola dalle parole». Una mutazione non ancora pienamente compresa ci ha consentito infatti di elaborare un linguaggio estremamente duttile, in grado non solo di comunicare l’esistente, ma «di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto. (…) In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attenzione! Un leone!”. Grazie alla Rivoluzione cognitiva, l’Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù”. Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens», in quanto «ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. Possiamo intessere miti condivisi come quelli della storia biblica della creazione, quelli del Tempo del Sogno elaborati dagli aborigeni australiani e quelli nazionalisti degli stati moderni. Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare tra grandi numeri di individui». Da decine di migliaia di anni, in sostanza, ci raccontiamo storie e crediamo alle storie che raccontiamo, al punto da essere disposti a morire per esse. Sono stati proprio questi grandi miti sociali sempre più estesi – il denaro, le religioni universali, la scienza moderna, il capitalismo –, attecchendo come dei meme nella nostra coscienza, ed anzi contribuendo decisamente a plasmarla, a creare le condizioni per l’approdo, dopo svariati ghirigori, a quella comprensione autenticamente globale e planetaria del mondo che trova oggi il suo pieno compimento e che ci permette di riscoprirci, appunto, come Sapiens.
Finzioni, dunque, ancorché potentemente performanti. Così, sarà pure morto Dio, ma tutta la nostra vita continua a basarsi sulla fede «in una perpetua crescita economica» che «va contro quasi tutto ciò che sappiamo dell’universo». Analogamente «i nostri sistemi liberali di politica e di giustizia» continuano a essere «fondati sulla convinzione che ogni individuo ha una natura interiore che è sacra, indivisibile e immutabile, che conferisce significato al mondo ed è la fonte di ogni principio etico e politico», quando «le scienze della vita hanno scardinato completamente questo credo. (…) Con sempre maggior forza, [gli scienziati] sostengono che il comportamento umano è determinato dagli ormoni, dai geni e dalle sinapsi, e non dal libero arbitrio – cioè dalle stesse forze che determinano il comportamento degli scimpanzé, dei lupi, delle formiche». Nonostante tutto quello che hanno potuto immaginare di sé attraverso i secoli, questi «animali insignificanti, il cui impatto sull’ambiente in cui vivevano non era superiore a quello di gorilla, lucciole e meduse», continuano cioè a non avere nulla di strutturalmente diverso da tutte le altre creature. Il tema è quantomai centrale e decisivo: ne va, per dirne una, del valore stesso di una cosetta come i diritti umani. Detto altrimenti, quel che chiamiamo umanesimo è oggi solo un’opera puramente nostalgica di retroguardia con cui cerchiamo di difendere privilegi ormai inaccettabili o il riconoscimento di un qualcosa di buono che, sia pure emerso in modo contingente, merita comunque di essere salvaguardato?
Harari sembra pensare che la nostra specie non abbia veramente nulla di così peculiare da garantirle l’eternità e che, come ci fu una soglia superata la quale sganciammo la nostra storia da quella degli altri uomini, così siamo probabilmente in prossimità di un’altra soglia che ci porterà oltre l’umano, a un livello che per noi oggi è letteralmente inimmaginabile, quando i processi mentali saranno trascritti in circuiti e la programmazione intelligente aggirerà gli estremi limiti biologici, consentendoci di mettere in scacco anche la morte. «Di rado la fantascienza descrive un simile futuro, perché una descrizione accurata di esso sarebbe per definizione incomprensibile. Fare un film sulla vita di un super-cyborg sarebbe come rappresentare Amleto per un pubblico di Neanderthal. I futuri signori del mondo saranno probabilmente assai diversi da noi, molto più di quanto lo siamo noi dai Neanderthal. Mentre sia noi sia i Neanderthal siamo per lo meno umani, i nostri eredi potrebbero essere simili a un dio». Non è chiarissimo se questo sia da intendersi come un monito, un auspicio o una semplice descrizione – ma la sensazione, leggendo soprattutto le pagine finali, è che per Harari questo scenario sia qualcosa di irreversibile a cui tanto vale prepararci per tempo (forse anche solo per il gusto, dal suo punto di vista, di poter affermare: ve l’avevo detto). La storia umana sarebbe dunque solo una lunga parasceve alla futura Pasqua cibernetica? Per uno che, a metà libro, scrive invece che «la storia non può essere spiegata per via determinista, e non può essere prevista perché è caotica» e che noi non la studiamo «per conoscere il futuro ma per ampliare i nostri orizzonti, per capire che la nostra situazione presente non deriva da una legge naturale e non è inevitabile, e che di conseguenza abbiamo di fronte a noi molte più possibilità di quante immaginiamo», mi sembrerebbe una ben curiosa conclusione. Forse alla fine chi racconta è rimasto abbagliato dal suo stesso racconto. Del resto, siamo o non siamo una specie credulona?
(finito il 19 agosto 2021)
Ho parlato di
Da animali a dei. Breve storia dell'umanità
(Bompiani 2014)
trad. di G. Bernardi
533 pp. | 17 €
(ed. or.: Kitsur toldot ha-enoshut, 2011)
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