In un libro di tanti anni fa, in modo non credo del tutto accidentale, il professor Maurizio Ferraris buttava lì la confessione che, tra i sedici e i ventidue anni, si era letto per ben sette volte tutta quanta la Recherche. Io che sono uno che si accontenta mi sono dato come obiettivo più modesto quello di leggerne per lo meno un volume all’anno, per sette anni, tra i quaranta e i quarantasei. “Quanto tempo perduto…”, mi si dirà. E invece no, perché se c’è un autore che davvero ti dà la sensazione che il tempo quantitativamente speso per leggerlo ti venga restituito decuplicato in profondità e spessore, quello è proprio Proust, con la sua capacità sopraffina di indugiare a lungo su un dettaglio apparentemente irrilevante per portarne alla luce sfumature che mai ti saresti neppure immaginato, se non ci fosse stato lui a svelartele, assicurandoti così che persino in un istante di distrazione, di quelli che passano di continuo senza che ci fai caso e vanno a formare come la preponderante massa oscura di cui è fatta la maggior parte della nostra esistenza, sono in realtà racchiusi infiniti mondi degni di esplorazione.
Vale, in un certo senso, quel che il narratore stesso osserva a un certo punto, a proposito delle sue letture estive nel giardino della casa di campagna: «quei pomeriggi contenevano più avvenimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un’intera vita», giacché la lettura «scatena dentro di noi nello spazio di un’ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte». Solo che ci vuole molta pazienza, qui, perché è tutto così estremamente denso, e così poco interessante, del resto, lo sviluppo in sé della trama, che finisci per indugiare anche tu, con chi scrive, sulle raffigurazioni di una vetrata o sulle sfaccettature di un’emozione, al punto da trasformare la lettura in qualcosa di molto simile a quell’arte della ruminatio tipica della monastica lectio divina – o, se volete, all’immersione in un’immensa sinfonia, di cui si possono cogliere adeguatamente movimenti e motivi solo dopo un ascolto ripetuto e prolungato. Più che letta per arrivare alla fine, la Recherche andrebbe messa ogni tanto in sottofondo, come un disco. Così si può capire davvero la differenza che passa tra il mero consumo e l’esperienza che ti trasforma da dentro.
E insomma, che volete che mi inventi di nuovo su Proust e sulla sua idea folle e apparentemente impossibile di riversare sulla pagina scritta tutte le fragranze della vita, con le sue incalcolabili e intrecciate sedimentazioni? Tra l’altro siamo appena all’inizio del viaggio e manca ancora il quadro d’insieme: circolano già un sacco di personaggi incredibili, di ciascuno dei quali viene colto almeno un aspetto che lo rende assolutamente memorabile (e tanto più quanto a prima vista esso appare ordinario, come, per esempio, la povera sguattera paragonata a un certo punto alla Carità di Giotto), eppure non saprei dire chi di questi resterà fino alla fine e chi no. Posso solo ipotizzare che fra i primi ci sia Swann, il ricco borghese ebreo così direttamente legato all’episodio che innesca il motore dei ricordi e la cui proprietà è una delle due “parti” verso cui potevano dirigersi le consuete passeggiate della famiglia del protagonista, opposta a quella degli aristocratici Guermantes, lontanissime fra loro, più che per la distanza chilometrica, per quella «che correva fra le due parti del mio cervello in cui le pensavo (…) l’una inconoscibile all’altra, nei vasi chiusi e non comunicanti dei differenti pomeriggi» (La parte di Guermantes è appunto il titolo del terzo volume, che leggerò, se Dio vuole, quest’estate). Quello Swann, dicevo, con cui il protagonista scoprirà di condividere «l’angoscia che si prova sentendo l’essere al quale si vuol bene in un luogo di piacere dove noi non siamo» - che mi pare, a naso, una delle chiavi di lettura del romanzo e una fonte zampillante di pena e di arte per il suo autore.
Di sicuro resteranno i luoghi in cui si sviluppano quelle passaggiate, e il villaggio che ne sta al centro, l’ipotetica Combray che, proprio come il campanile della sua chiesa sempre visibile da ogni parte della città e della campagna circostante, riaffiora continuamente nel ricordo del narratore, territorio geografico e allo stesso tempo, ma soprattutto, paesaggio dell’anima, giacché le pietre e i fiori che lo caratterizzano «hanno formato per me l’eterno volto del paese dove amerei vivere». Proprio per questo si va avanti adagio, gustando a piccoli sorsi: perché, come per un incantesimo prodotto dai lunghissimi periodi di Proust, non di rado la sua Combray trasfigurava nella mia Combray, con la mia “parte di Swann”, il cielo che avevo visto io, gli incontri che avevo fatto io, tutto quell’immenso sostrato, insomma, che costituisce la gran parte di quel che sono diventato e ripensando al quale ho cominciato anch’io a riconquistare almeno qualcuno di quegli anni solo apparentemente perduti che proprio oggi sono diventati in tutto quarantadue.
(finito il 13 agosto 2021)
Ho parlato di
Dalla parte di Swann
in M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 2018, pp. 3-285.
Trad. di G. Raboni
2058 pp. | 32 €
(ed. or.: Du côté de chez Swann, 1913)
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