Considerata la mia fissazione per le ricorrenze, non apparirà strano che, avvicinandosi la scadenza dei quarant’anni e giunto il momento di scegliere il libro che presumibilmente sarebbe stato presente sul comodino il giorno del mio compleanno, ne abbia individuato uno che raccontasse eventi accaduti proprio nello stesso anno in cui nacqui, appena due-tre mesi prima del parto. Si tratta per la verità di avvenimenti che in un italiano medio evocano, credo, pochi ricordi diretti – a differenza che in uno spagnolo, per il quale costituiscono invece un punto di riferimento generazionale fondamentale, come lo sarebbero state, per me, ad esempio, le stragi di mafia – ma su cui la grande letteratura ha spiegato la potenza del suo braccio, rendendoli in un certo senso universali. Penso di non dire nulla di eccezionale, infatti, se riconosco Anatomia di un istante fra i libri fondamentali di questo primo ventennio di XXI secolo, di quelli che merita leggere non solo perché, leggendoli, si imparano una marea di cose su qualcosa di cui probabilmente non si sapeva molto (come, in questo caso, il tentato golpe militare del 23 febbraio 1981 contro la giovane democrazia spagnola), ma anche e soprattutto perché, intraprendendo piste non ancora battute, offrono un esempio delle straordinarie potenzialità ancora latenti in quel vecchio arnese che è la scrittura.
Dove sta la peculiarità di questo libro? Cercas (di cui avevo già adorato Soldati di Salamina, che era un altro splendido esercizio di resa dei conti con il passato) lo presenta come «l’umile testimonianza di un fallimento», consistente nel non essere riuscito a realizzare un romanzo, come avrebbe voluto, sul tema prescelto. Infatti, dopo aver stracciato e ripreso diversi progetti, «compresi infine che gli eventi del 23 febbraio possedevano in sé tutta la forza drammatica e il potenziale simbolico che esigiamo dalla letteratura e compresi che, sebbene io fossi uno scrittore di romanzi, per una volta la realtà mi importava più della finzione letteraria o mi importava troppo per volerla reinventare sostituendole una realtà alternativa, perché nulla di quanto io potessi immaginare sul 23 febbraio mi coinvolgeva e mi emozionava tanto, né sarebbe potuto risultare più complesso e persuasivo, della pura realtà del 23 febbraio». Mi chiedo se questo discorso non valga in realtà per ogni evento storico: se il mio obiettivo è misurarmi con ciò che è stato, perché dovrei accontentarmi di una sua versione romanzesca, quando ho gli strumenti per accertare quanto accaduto? Dirò di più. Il potere specifico della poesia (qui concordo con Aristotele) è di dare coerenza e unità a un garbuglio altrimenti incongruo di episodi, giocando coi tempi e col montaggio per trasformare il puro vissuto in una autentica narrazione; l’invenzione è appunto una strategia utile a fornirci delle ipotesi di senso attraverso le quali provare a sintetizzare la marea di dati da cui siamo quotidianamente sommersi. Non c’è nulla di male, in fondo è una funzione vitale della nostra specie, tant’è vero che i “grandi racconti” non sono affatto spariti dai radar, ma proliferano più che mai, specie in quel particolare ramo della cultura pop che è diventata la politica contemporanea.
In una narrazione ogni anello deve tenersi. La storia, però, è la scienza della complessità, delle alternative sempre possibili, della concomitanza di cause non sempre chiaramente distinguibili, della pietra accidentale su cui a volte si infrangono anche i flussi e riflussi della lunga durata. Se la favola ha una sua morale, la storia può averne molte, anche contrapposte fra loro, e per questo richiede un approccio diverso, che, senza disimpegnarsi dalla ricerca di una spiegazione, sia strutturalmente aperto e consapevole dei propri limiti: chi scrive di storia non assomiglia, cioè, al Dio onnisciente che all’atto della creazione modella la materia sulla base degli esemplari contenuti nella sua mente, bensì al modesto paleontologo che prova a ricostruire a posteriori come sono andate le cose, sapendo benissimo che tra un reperto fossile e un altro ci sono buchi a volte impossibili da colmare e che una minima variazione ambientale avrebbe potuto alterare in modo significativo lo sviluppo della trama di cui sta cercando di dipanare i fili. Per questo, tornando a Cercas, trovo che sia salutare, oggi più che mai, immergersi nella lettura di un libro che non offre una soluzione già pronta, ma che al contrario impiega le tecniche della letteratura per rappresentare la stessa opera di ricerca, coi suoi dubbi, le sue esitazioni, e però anche con i punti fermi che tutto sommato si possono dire ragionevolmente acquisiti, dopo aver vagliato e soppesato tutte le possibilità. Ricostruire la storia di un complotto è l'antidoto migliore ad ogni forma di complottismo. Questo libro, infatti, dice ancora il suo autore, «non rinuncia del tutto a capire attraverso la realtà ciò che ha rinunciato a capire tramite la finzione letteraria». Il suo metodo consiste nel forzare «i limiti del possibile fino a raggiungere il probabile e cercando di ritagliare la forma della verità ricorrendo al verosimile. Naturalmente, non posso assicurare che tutto ciò che racconterò in seguito sia vero; ma posso garantire che è impastato con la verità e soprattutto che è quanto di più vicino alla verità io possa raggiungere, o comunque immaginare».
La descrizione della «placenta» in cui maturò il golpe e di come si svolse e andò a finire non ha però, anzitutto, fini documentari: provare a capire come sono effettivamente andate le cose è piuttosto il modo attraverso cui Cercas (nato nel 1962) arriva infine a comprendere la generazione di suo padre, quella che col franchismo aveva sostanzialmente convissuto e che poi se l’era sfilato di dosso quasi come se niente fosse, identificandosi per questo in quell’Adolfo Suarez che, da primo ministro ormai dimissionario, fu il principale obiettivo del colpo di stato. Era stato proprio Suarez, infatti, dopo una carriera interamente costruita all’ombra della dittatura, ad avviare, sotto il naso dei generali, la transizione democratica. Cercas – che, all’epoca dei fatti, da ventenne, non provava nessuna stima per lui - lo descrive, ripercorrendo il suo percorso biografico, come un «arrivista servizievole e ambizioso», un «galletto falangista, simpatico, cialtrone e ignorante»: nulla, in lui, fa pensare a un campione della libertà, e se anche, nei giorni concitati del golpe, sostenne questa parte è solo perché, giunti a quel punto, la caduta della democrazia avrebbe significato anche la sua caduta personale. Eppure, quel che a sorpresa viene fuori è che, a suo modo, anche Suarez è stato un eroe - più precisamente, un «eroe della ritirata», come lo definì Enzesberger, a cui Cercas espressamente si richiama. L’eroe “della ritirata” è il contraltare dell’eroe “della conquista”: se quest’ultimo è «un idealista dai principi chiari e irrinunciabili» che «raggiunge l’apoteosi imponendo le proprie posizioni», l’altro «è pervaso dal dubbio e si barcamena tra compromessi e negoziati», finché abbandona le proprie convinzioni «facendosi da parte». Per molti aspetti, «l’eroe della ritirata è un eroe del tradimento» - il che richiede però di rivedere profondamente i nostri schemi di pensiero, poiché noi «possediamo un’etica della lealtà», ma non abbiamo ancora elaborato «un’etica del tradimento», sebbene a volte sia propria questa mancanza di intransigenza, persino un po’ grigia rispetto al titanismo dell’idealista, ciò che consente alla vita di continuare il suo corso (un po’ quanto ricorda quell’immagine secondo cui Dio crea il mondo ritirandosi, come la marea di ritorno che lascia emergere la spiaggia).
Qui il discorso coinvolge, oltre Suarez, anche gli altri protagonisti presenti nell’emiciclo parlamentare durante l’assalto del generale Tejero: la scelta di giungere a un accordo che permettesse di lasciarsi alle spalle la dittatura non può essere considerato un atto di giustizia, perché non comportò il risarcimento delle vittime, eppure, proprio in virtù di questo compromesso, «è stata costruita una democrazia altrimenti impossibile se l’obiettivo prioritario non fosse stato costruire il futuro bensì – Fiat iustitia et pereat mundus – emendare il passato». E anche se da quel compromesso fosse uscita una democrazia claudicante, poco importa: «non esiste la democrazia perfetta, perché ciò che sancisce una vera democrazia è il suo carattere flessibile, aperto, malleabile – cioè, permanentemente migliorabile -, e dunque l’unica democrazia perfetta è quella che è perfettibile all’infinito. La democrazia spagnola non lo è, ma è una vera democrazia». É proprio questo il dono che, non si sa quanto consapevolmente, fecero ai loro figli questi eroi della ritirata, ossia quei dirigenti che – provenendo dalle fila del franchismo o dell’opposizione - seppero fare un passo indietro, perché compresero che in ciò consiste la politica, nel «cedere sugli aspetti secondari per non rinunciare all’essenziale». Costoro furono tutti, in un modo o nell’altro dei traditori, ma di che cosa? Essi «tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; (...) tradirono il passato per non tradire il presente. A volte per essere fedeli al presente occorre tradire il passato. A volte il tradimento è più difficile della lealtà. A volte la lealtà è una forma di coraggio, ma in certi casi è una forma di codardia». E insomma, tutto questo anche per dire che aver mandato a Palazzo Chigi una persona solo perché le si riconosce grande coerenza non è detto che sia per forza di cose una scelta intelligente.
(finito il 16 maggio 2021)
Ho parlato di
Anatomia di un istante
(Guanda 2012)
trad. di P. Cacucci
468 pp. | 12,50 €
(ed. or.: Anatomia de un instante, 2009)
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