C’è una cosa che è opportuno sapere, prima di avventurarsi nelle oltre seicento pagine di questo libro (che peraltro è solo la prima metà di un dittico dedicato alla storia d’Europa dal 1914 ai nostri giorni), e cioè che, come onestamente riconosce il suo autore, «praticamente per ogni singola frase che ho scritto era disponibile una moltitudine di lavori specialistici, spesso di grande qualità», al punto che provarne a ricavare anche solo una bibliografia minima sarebbe «come contare i granelli di sabbia», un’impresa ai limiti dell’insensatezza. Non credo sia un’iperbole. Anzi, in fondo è un’ovvietà, soprattutto agli occhi di chi nella vita ha svolto un minimo di ricerca, eppure riconoscerlo chiaramente, una volta superata la vertigine e il senso di smarrimento per la consapevolezza che non riusciremo mai davvero a sapere tutto quello che ci sarebbe da sapere, aumenta il senso di gratitudine per quegli storici autorevoli come Ian Kershaw che, giunti sulla settantina, provano a rifondere in una sintesi relativamente agevole tutto quello che ritengono di avere capito dopo una vita di onorati studi, consentendo anche a noi dilettanti di orientarci meglio in questioni più grandi di noi. «Ciò che questo libro ha di originale riguarda dunque esclusivamente la struttura e l’interpretazione: il come la storia è scritta e, a un livello più profondo, la natura dell’argomentazione». Nessun contributo inedito, perciò. Poco male: tenere in pugno tutto quanto è umanamente possibile, organizzato per temi e capitoli, così da averne un quadro coerente e non rapsodico, è in fondo l’obiettivo di ogni insegnante. E a ciò serve, appunto, un libro come questo.
Qual è allora la sintesi che resterà quando, fra dodici secoli, sui manuali di storia si dovranno condensare, non dico in seicento, ma in due pagine, questi eventi per noi ancora così vividi? Potremmo dirla così: «uno dei cliché prediletti dei commentatori delle partite di calcio, quando dopo l’intervallo si verifica un rovesciamento delle sorti della gara, è che si tratta di una partita “spaccata a metà”. É forte la tentazione di pensare al Novecento europeo come a un secolo “spaccato a metà”, forse con un tempo supplementare dopo il 1990». In quel lontano futuro, presumibilmente, si scriverà perciò che in quei quarantacinque anni compresi tra l’attentato di Sarajevo e la divisione delle due Germanie, in quella «catastrofica, quasi suicidaria» prima metà di XX secolo, l’Europa arrivò a un nulla dall’autodistruzione, salvo poi riprendersi e imboccare, almeno nella sua parte occidentale, una strada di inaudita prosperità, durata lo spazio di un paio di generazioni, prima che nuove crisi rimettessero in discussione risultati che apparivano acquisiti e riaprissero pozzi avvelenati che ci si era illusi di avere sigillato, sussurrando il sospetto che nell’inferno da cui in qualche modo ci si era tirati fuori si possa tornare a sprofondare da un momento all’altro. Ma poiché, per intanto, siamo ancora pienamente nel cono d’ombra del XX secolo, a cento anni esatti dalla marcia su Roma, provo a spremere da questa lettura qualche contributo più spendibile per orientarsi nel tempo presente. Lo farò a mio gusto, consapevole che si tratta di una selezione opinabile.
Prendiamo, per esempio, la questione della pace. Nessuno, dopo il 1918, vuole seriamente riaprire le ostilità – nessuno, s’intende, a parte i nazisti. Le cosiddette democrazie occidentali hanno a cuore più di ogni altra cosa la stabilità e, per quanto essi siano «talvolta ripugnanti», se ne infischiano degli affari interni delle dittature che spuntano come funghi nell’Europa tra le due guerre, almeno finché non si vadano a minacciare i confini, e a volte anche oltre, come dimostrano i farseschi accordi di Monaco sventolati incautamente da Chamberlain dinanzi alla folla. Inglesi e francesi fanno di tutto pur di evitare lo scontro diretto, svendendo a Hitler pezzi di Europa orientale in base alla stessa logica che spinge oggi un Orsini a chiedere che si ceda unilateralmente a Putin tutto quello che vuole purché non sganci l’atomica (logica secondo la quale si dovrebbe coerentemente attribuire la responsabilità del secondo conflitto mondiale proprio ad inglesi e francesi, anziché ai tedeschi, per essersi di colpo inspiegabilmente irrigiditi sulla Polonia: se avessero ceduto anche su quella, la guerra forse non sarebbe mai cominciata e si sarebbero evitati un sacco di morti, per lo meno sui campi di battaglia, ma forse non nei campi di sterminio). La controprova è che, dopo la guerra, Franco e Salazar rimasero al loro posto – e ci sarebbe rimasto credo anche Mussolini, se non si fosse intestardito ad affiancare l’alleato tedesco. Salutare ingordigia nazista, verrebbe da dire, senza la quale, a forza di compromessi al ribasso, si sarebbero continuati a tollerare senza troppi scrupoli nel cuore dell’Europa discriminazioni e violazioni dei diritti come ogge li si tollera in paesi considerati amici come gli emirati del Golfo o l’Arabia Saudita. Kershaw sottolinea infatti chiaramente che, sin dal 1936, l’espansione militare era diventata ormai l’unica via d’uscita aperta alla Germania per sopperire alle spese e agli investimenti voluti dal regime, a meno di non scegliere un’impossibile (per ragioni ideologiche) “normalizzazione” del regime stesso. Essendo intimamente convinto che «soltanto la guerra – e l’acquisizione di nuove risorse economiche – avrebbe risolto i problemi della Germania», Hitler mise il suo paese nelle condizioni di non poter far altro che la guerra: splendido caso di profezia che si autoavvera. Ecco, ma un mondo in cui la svastica sventola impunemente da Acquisgrana a Konigsberg può essere davvero considerato un mondo in pace? Oppure aveva ragione Kant quando diceva che «la violazione del diritto in un luogo della terra viene sentita in tutti»? Siamo in grado, oggi, di pensare un ordine globale che possa tagliare alla radice le premesse di una futura catastrofe prima di arrivare alla lotta di tutti contro tutti?
Secondo appunto. Ciò che garantì il successo dei regimi totalitari, soprattutto quelli di destra, fu la capacità di sfruttare gli strumenti messi a disposizione dalla democrazia per impiegarli in chiave antidemocratica, facendo passare l’idea che questo fosse «il volto moderno dell’arte di governare» (non senza pesanti responsabilità da parte di chi aveva contribuito a impaludare e svilire sistemi parlamentari che certo non erano sempre specchio di democrazia). Questa retorica continuamente riemergente mi fa più paura dei nostalgici coi busti di Mussolini nel salotto. Anche allora, infatti, «per buona parte della popolazione più che di un’entusiastica adesione al regime si deve parlare di un conformismo coatto (…) C’era in giro molta apatia e passiva accettazione di ciò che non poteva essere cambiato. (…) In pratica, l’idea di una totale compenetrazione di Stato e società non parve mai vicina a concretarsi. Il fascismo si dimostrò incapace di conquistare ampie sezioni della società italiana (…). Ma dove mancava la convinzione sincera c’era quanto meno l’acquiscenza. Gli italiani accettarono il regime, e vi si adattarono». É fuorviante interrogarsi troppo sui gradi del consenso, quando la pura inerzia produce lo stesso effetto, ed assai più a buon mercato.
Con questo vengo al terzo e ultimo punto: la difficoltà di fare i conti con il passato. I processi di Norimberga hanno avuto un alto impatto simbolico, ma anche l’effetto di isolare i mostri, garantendo una sorta di impunità, anzitutto di fronte alla propria coscienza, in chi non fu chiamato alla sbarra. In realtà, «la denazificazione della società tedesca era un compito non già semplicemente formidabile, ma irrealizzabile», in un paese in cui più di otto milioni di persone erano state iscritte al partito. Ma questo vale anche per fiancheggiatori e collaborazionisti di tutti i paesi, compresi quelli vincitori, come la Francia, per non parlare dell’Italia. «Lo sguardo rivolto al futuro doveva prevalere su una più completa opera di purificazione del passato. L’amnesia collettiva era la premessa della marcia in avanti». Così abbiamo cominciato a raccontarcela e a convincerci di essere stati magicamente prigionieri per vent’anni di un manipolo di matti giunti da Marte – e persino molti tedeschi, stremati da due anni di bombardamenti, quando ormai ne morivano a diecimila al giorno nell’immondo Ragnarok del Reich, cominciarono a percepirsi come vittime, dimenticandosi di aver «applaudito i primi successi di Hitler e gioito per le vittorie della Wehrmacht, mentre innumerevoli europei soggetti al giogo nazista soffrivano miseria e schiavitù, morte e distruzione». Ma dal punto di vista delle vere «vittime della disumanità, non si poteva certo dire che giustizia fosse stata fatta, nemmeno lontanamente; il veleno non era stato prosciugato. Niente poteva risarcire le loro sofferenze; nessuna autentica catarsi era immaginabile. (…) La resa dei conti era rimasta – ineluttabilmente – incompiuta. Per il resto del Novecento, l’Europa non sarebbe riuscita a liberarsi completamente del fetore della grottesca disumanità degli anni di guerra». É solo in questo senso, come un’onta, un ricordo rimosso non rielaborato e non certo come un onore, che occorre sempre ricordare, come dice quel tale, che siamo tutti quanti eredi del Duce.
(finito il 19 giugno 2021)
Ho parlato di
All'inferno e ritorno. Europa 1914-1949
(Laterza 2020)
Trad. di G. Ferrara degli Uberti
651 pp. | 24 €
(ed. or.: To Hell and Back. Europe, 1914-1949, 2015)
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