Se a dodici-tredici anni mi avessero chiesto quale personaggio d’invenzione mi sarebbe piaciuto essere, avrei quasi sicuramente risposto Sherlock Holmes. Più che prenderlo come modello, credo che mi ci rispecchiassi un po’, anche se per molti aspetti non gli somigliavo affatto. Mi appassionavano, per esempio, materie il cui studio gli sarebbe sembrato solo un modo per riempirsi la mente di nozioni inutili, mentre non avevo - come non ho del resto neanche oggi - alcuna competenza in chimica o botanica, né tantomeno so tirare di pugilato o camuffarmi in modo camaleontico da marinaio o mendicante. Mi riconoscevo però molto – anche, va detto, con un velo d’autoironia – in quella sua solitaria eccezionalità e soprattutto nel bisogno di tenere sempre, in qualche modo, la mente impegnata. Benché non sia mai arrivato a praticare quegli eccessi così spesso stigmatizzati dal buon dottor Watson, la solenne dichiarazione rilasciata da Holmes durante la celeberrima scena che apre Il segno dei Quattro mi si scolpì a tal punto nella memoria da indurmi perfino a riportarla sul diario, nei primi anni di liceo, come una sorta di spaccona autopresentazione: «il mio cervello è refrattario a ogni forma di ristagno intellettuale. Datemi dei problemi da risolvere (…) e mi troverò nell’habitat che mi è più consono: allora potrò fare a meno degli stimolanti artificiali; ma io aborrisco la monotona routine dell’esistenza: adoro gli stati di esaltazione mentale». Anche se nel frattempo il corpo si è decisamente impigrito, le rotelle del cervello – spero – continuano almeno un po’ a girare.
Holmes vive insomma dentro di me come un primo amore, suscitandomi le stesse, intense, emozioni che mi procurano sempre gli accordi iniziali di Bohemian Rapsody, in virtù di una personalissima associazione mnemonica comprensibile se si tiene conto che, più o meno nello stesso periodo in cui misi per la prima volta piede a Baker Street, finì nelle mie mani e nel mio mangiacassette anche una copia della Greatest Hits I dei Queen, prestatami da un amico: in modi diversi, furono entrambe delle spinte che contribuirono a farmi prendere definitivamente il largo dall’infanzia. Non per nulla, una delle prime cose che feci nel breve periodo in cui soggiornai a Londra, durante il dottorato, fu di procurarmi per tre sterline un opuscolo sulle “passeggiate sherlockiane” e seguirne le mappe in modo da ritornare fisicamente su alcuni luoghi del delitto già frequentati attraverso la lettura (salvo scoprire che molti di quei luoghi, in realtà, non ci sono più o non ci sono mai stati).
Ora, molte avventure di Holmes le ho lette disordinatamente nel corso degli anni, e molte le ho anche più e più volte rilette, non solo perché generalmente nei gialli non mi ricordo mai chi sia l’assassino, ma anche – e in questo caso soprattutto – perché qui l’assassino non mi interessa mai quanto lui, Holmes. Quel che mi diverte sempre allo stesso modo è vedere cosa combina, come si atteggia, le cose che dice e come le dice, il suo stile talmente spiazzante che non lascia quasi mai possibilità di replica, neanche quando è tremendamente irritante. Si dice che a un certo punto Conan Doyle avesse deciso di toglierlo di mezzo perché non lo sopportava più, e che sia stato costretto a riportarlo in vita con un escamotage per contenere le proteste dei fan, eppure non c’è forse autore che manifesti più compiacimento per una sua propria creatura di quanto abbia fatto lui attraverso il geniale schermo di Watson. A parte forse qualche rara eccezione, qui la detective story non veicola messaggi di critica sociale. Più volte si ribadisce che quelli antologizzati dall’ipotetico biografo sono solo alcuni dei casi seguiti da Holmes, selezionati non per la loro drammaticità, ma al contrario per quel tanto di bizzarria che li rende più curiosi. E se può essere condivisibile quando sostiene Holmes, secondo cui «di solito i casi meno eclatanti sono proprio quelli in cui c’è più spazio per l’osservazione e per la rapida analisi di causa ed effetto che conferisce il suo fascino all’investigazione», la sensazione è che questa scelta narrativa sia stata anche fatta per evitare che il lettore possa distogliere l’attenzione da colui che deve perennemente restare l’unico, assoluto, protagonista della scena.
Dicevo, dunque, che molte avventure di Holmes le avevo lette e rilette, in ordine sparso, nel corso degli anni, ma tutte insieme non mi era ancora capitato, mai. Perciò, se durante il primo lockdown mi sono tolto lo sfizio di leggermi Guerra e Pace, ho approfittato della serrata autunnale di un anno fa per completare una buona volta la lettura di tutti i cinquantasei racconti che, con i quattro romanzi, esauriscono il Canone sherlockiano. Così, mentre Anna si guardava i suoi film natalizi, io, accucciato in quella sorta di nicchia che si apre davanti alla stufa, là dove la padrona precedente aveva accatastato ordinatamente la legna, ma in cui noi abbiamo messo una panca divenuta un mio luogo d’elezione per le letture invernali, collocato com’è proprio in faccia al fuoco, mi sono dedicato a un piacere analogo e non meno rassicurante, osservando un vecchio amico dimostrare come la ragione sia immancabilmente in grado di mettere ordine in un mondo pieno zeppo di piccole e incomprensibili follie. A modo mio, aspettavo anch’io Babbo Natale.
(finito il 19 dicembre 2020)
Ho parlato di
Sherlock Holmes. Tutti i racconti
(Einaudi 2012)
trad. di L. Lamberti
1380 p. | 19 €
(ed. or.: The Adventures of Sherlock Holmes, 1892; The Memoirs of Sherlock Holmes, 1894; The return of Sherlock Holmes, 1905; His Last Bow, 1917; The Case-Book of Sherlock Holmes, 1927).
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