Da ragazzo, quando di solito la scuola te li propone da leggere, ho furtivamente aggirato diversi classici romanzi di iniziazione repubblicana, non certo per ragioni ideologiche, quanto per motivi – in senso lato – estetici e ingenuamente storicistici. Mi appassionavano di più altri generi e temevo, a torto o a ragione, che non avrei potuto capire appieno quei libri senza adeguata contestualizzazione: un problema che invece non mi ponevano, per dire, astronavi e imperi galattici, ma neppure metamorfosi e altre inquisizioni (a ripensarci oggi, a posteriori, se non fosse che non sono mai stato un tolkieniano e che in provincia certe cose non si notavano molto, avrei potuto anche essere scambiato, in certi momenti, per un simpatizzante del Fronte della Gioventù). Una simile negligenza ha lasciato oggettivamente qualche buco nella mia formazione di cittadino, ma mi ha anche consentito e mi consente tuttora di accostare alcuni di questi testi, da adulto, con la curiosità che nasce da un autentico bisogno intellettuale e non solo per onorare un sia pur rispettabilissimo rito civile. Questo discorso vale ad esempio per certi scritti di Calvino, di Fenoglio, di Rigoni Stern e vale anche per quello che è forse il prototipo di tutti i romanzi partigiani, pubblicato da Vittorini a Liberazione appena avvenuta e letto da me solo ora (dove “ora” è un anno fa), il cui titolo è stato spesso interpretato come espressione di una concezione manichea della guerra, tipica di chi vi era appunto uscito da pochissimo (e che quando scriveva queste pagine, peraltro, era ancora un braccato), e perciò rappresentativa anche di un certo modo, diciamo “canonico”, di intendere la Resistenza. Quindici anni più tardi un altro illustre siciliano avrebbe reso celebre una diversa, più ambigua, classificazione della specie in umanità propriamente detta e altre sue pittoresche e meno nobili varianti. Ma quella sarebbe stata già un’altra Italia, torbida e disillusa, maculata di infinite zone grigie. No, al tempo delle scelte di campo nette e luminose l’alternativa non poteva non essere secca: di qua gli uomini, i veri uomini, la civiltà; di là le bestie, i mostri, la barbarie – da cui la formula apposta in copertina.
So che insospettabili intellettuali hanno avallato questa chiave di lettura, ed è anche per provare a capire se si tratta di un’intuizione felice o di un abbaglio che mi sono deciso infine a leggere il libro. Quell’interpretazione, infatti, legittima la facile critica secondo cui il modo di ragionare che vi è sotteso non sarebbe altro che il rovescio speculare e altrettanto malsano del modo di ragionare attribuibile alle “bestie”: possiamo infatti immaginarci una discriminazione più feroce tra “uomini e no” di quella esercitata nei campi di sterminio nazisti? O, per restare nei confini di questo romanzo (che racconta le azioni di una banda partigiana nella Milano occupata di inizio ‘44), ci si può immaginare logica più perversa di quella che spinge il generale tedesco Clemm a decretare per rappresaglia la fucilazione di centodieci prigionieri – nell’ordine di dieci a uno – dopo un attentato in cui erano morti nove tedeschi e due cani, «il miglior alano della Gestapo. E (…) la mia cagna Greta»? La stessa logica che lo indurrà a far sbranare da altri cani il povero ambulante Giulaj, responsabile involontario della morte di Greta, dopo averlo denudato e sottoposto a un maligno interrogatorio, al termine di una sequenza che per tensione narrativa brilla di luce propria all’interno dell’opera, al punto che avrebbe potuto tranquillamente essere presentata come un racconto a sé stante ed assumere, da sola, il posto centrale che nella memoria resistenziale ha occupato l’intero libro. Che razza di uomo è quello per cui la vita di un altro uomo vale meno di quella di un cane? É un uomo che ragiona così: «per ogni tedesco che muore noi uccidiamo dieci persone. Siamo novanta milioni di tedeschi. Prima di morire in novanta milioni noi dovremmo uccidere novecento milioni di persone. Ci sono nel mondo novecento milioni di persone? Non ci sono. La Germania non può morire». E quando gli fanno notare che in effetti ci sarebbero i cinesi e gli indiani, risponde «i cinesi non contano (…). Gli indiani non contano». Uomini e no, appunto.
Ora, che la denuncia di simili brutalità sia uno dei temi portanti del libro è innegabile. Ed è innegabile che Vittorini tenda effettivamente a contrapporre «chi ha freddo, (…) chi è malato, (…) chi è perseguitato, (…) chi viene ucciso», chi – in un modo o nell’altro – è offeso nella sua dignità di uomo e lotta per liberarsi dall’oppressione a chi invece offende, opprime, calpesta la dignità altrui, scegliendo di essere lupo per il suo simile. Adottando un tono a tratti oracolare egli sembra anzi presentare la guerra tra nazifascisti e partigiani (anzi, patrioti, come si diceva allora, a fresco) semplicemente come l’ultimo episodio in ordine di tempo di un conflitto che si riproporrebbe continuamente nella storia: da una parte il Gap, «come qui da noi si chiama ora, e comunque altrove si è chiamato», dall’altra Cane Nero, un ufficiale tedesco dei più spietati, che in realtà «è tutti i cani che sono stati, è nella Bibbia e in ogni storia antica, in Macbeth e Amleto, in Shakespeare e nel giornale d’oggi». E tuttavia, se accentua questo contrasto, eternizzandolo, è per focalizzare meglio – mi pare – un altro problema, che sembra in effetti ribaltare la schematica interpretazione di cui sopra. Questo essere bistrattato, schiacciato, ferito, quello stesso essere che Primo Levi avrebbe provocatoriamente domandato se fosse ancora da considerarsi un uomo, ebbene sì, su ciò non abbiamo dubbi (o per lo meno non li aveva Vittorini), «questo è l’uomo». «Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo» - come sulla via del Calvario (per quanto, a dirla tutta, il risvolto più sconcertante dell’episodio di Giulaj è proprio l’indifferente inerzia con cui i soldati repubblichini, persone come tante, non migliori né peggiori di altre, ne osservano la morte, come un fatto che sì, un po’ disturba, ma che ci vuoi fare, in fondo è la guerra, e poi «quei cani poliziotto valgono molto»...). «Ma l’offesa in se stessa? É altro dall’uomo? É fuori dall’uomo? Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo?».
Questo, insomma, è il dilemma: «noi vogliamo sapere (…) se è nell’uomo quello che essi fanno quando offendono (...) se è nell’uomo quello che noi, di quanto essi fanno, non faremmo». Stentiamo a volerlo ammettere, perché ciò implica una profonda revisione di tutti i bei discorsi che ci siamo fatti sulle nobili concezioni di “umanesimo” e di “umanità” – e in questo modo Vittorini offre il suo contributo a un importante dibattito filosofico del secondo dopoguerra - ma come potrebbero costoro fare tutto quello che fanno se quello che fanno non provenisse anch’esso dal cuore dell’uomo? «Può darsi che Hitler scriverebbe lo stesso quello che ha scritto, e Rosenberg lui pure; o che scriverebbero cretinerie dieci volte peggio. Ma io vorrei vedere, se gli uomini non avessero la possibilità di fare quello che fa Clemm, prendere e spogliare un uomo, darlo in pasto ai cani, io vorrei vedere che cosa accadrebbe nel mondo con le cretinerie di loro». Facile appioppare l’etichetta di “mostro” al killer – facile e deresponsabilizzante, poiché il “mostro” è l’eccezione, l’anomalia, è tutto quello che noi ci figuriamo di non essere. “Uomini e no”, invece, possiamo esserlo tutti, in ogni momento. Potrebbe suonare come un colpo di spugna – tutti colpevoli, nessun colpevole – ma io la leggo in modo leggermente diverso: l’uomo, quando offende, non è snaturato da una qualche forza esteriore che lo plagi e lo manipoli, trasformandolo in qualcosa d’altro; quando offende, l’uomo è non meno uomo di quando è offeso, poiché le possibili motivazioni che ci spingono all’offesa sono già presenti da sempre in noi e ribollono appena sotto la superficie della routine quotidiana; per questo, in realtà, è ancora più odioso il comportamento e ancora più grande la responsabilità degli apprendisti stregoni che, anziché contenerle, solleticano tali pulsioni per calcolo politico, conferendo loro un’indebita sacralità con un seducente rivestimento ideale.
Fateci caso. Chi offende, soprattutto chi offende in grande stile, sventola sempre la grande causa che lo giustificherebbe davanti alla storia. Paradossalmente, quelli che sembrano non avere ideali molto definiti sono invece proprio i gappisti protagonisti del romanzo, a cominciare dal loro capitano, presentato solo con quel curioso nome di battaglia – Enne2 – che può stare effettivamente per qualunque uomo: una figura tormentata, complessa, sfuggente, interiormente desertificata, sospeso tra l’amore impossibile per una donna già sposata e una lotta di cui a un certo punto non capisce più il significato. Quanto ai suoi sottoposti, «tutti questi uomini erano semplici, erano pacifici (…). Essi avevano, ognuno, una famiglia: un materasso su cui volevano dormire, piatti e posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e i loro interessi non andavano molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? Perché dormivano con una pistola sotto il cuscino? Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano?». A differenza dei soldati tedeschi, che potevano contare sulla copertura del proprio Stato, «questi uomini non avevano dietro niente che li costringesse, niente che prendesse su di sé quello che loro facevano. Restava dentro a loro quello che loro facevano. (…) Perché, se erano semplici, se erano pacifici, lottavano? Perché, senza aver niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte e lo sostenevano?». Nessuno di loro vuole la morte, tanto meno se bella. Nessuno vorrebbe uccidere, neanche per la rivoluzione. E allora perché muoiono, perché uccidono? All’esibita grandiosità di chi ha scambiato la guerra per la ricerca del Santo Graal e descrive perciò con accenti mistici la carneficina in corso viene contrapposta una disarmante, persino banale, richiesta di normalità. «Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini non potessero essere felici? (…) Avrebbero un senso tutte le nostre cospirazioni? (…) C’è qualcosa al mondo che avrebbe un senso? (…) No. No. Bisogna che gli uomini possano essere felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici». In fondo non si desidera nient’altro che un po’ di tranquillità. Mi pare illuminante che descrivendo la mattina in cui Milano si sveglia e scopre le vittime innocenti dell’ennesimo massacro nazifascista (altra scena madre, altro episodio che avrebbe potuto perfettamente funzionare da solo), Vittorini dica che nei volti dei morti «vi era soltanto serietà, e la ferocia che è della serietà». La scelta delle parole non è casuale, anzi viene ribadita affermando che quei morti sono «morti per una vita che sia più seria». Come se domandassero, esibendo il proprio corpo violato ai fascisti: no, seriamente, ma è davvero questo il vostro obiettivo, è davvero questo il mondo che avete in mente? E allora «questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere. (…) E perché lottare? Per resistere. Come se mai la perdizione ch’era sugli uomini potesse finire, e mai potesse venire una liberazione». Resistere, s'intende, ai tentativi sempre risorgenti di instaurare il paradiso in terra su fondamenta impastate di sangue umano.
Con ciò non sono del tutto risolte le ambiguità. L’ultima pagina presenta un giovane operaio appena reclutato fra i partigiani che non riesce ad uccidere un soldato tedesco quando se lo trova di fronte praticamente indifeso. «Lo vide non nell’uniforme, ma come poteva essere stato: indosso panni di lavoro umano, sul capo un berretto da miniera», e in un certo senso è come se nell’altro vedesse riflesso se stesso. Si limita perciò a rubargli la moto e a darle fuoco, poco distante, salvo poi sentirsi in dovere di giustificarsi coi compagni e concludere «imparerò meglio» - che sono le parole, un po’ inquietanti data la situazione, con cui il romanzo si chiude, oscurando d’un tratto quella ch’era apparsa per un attimo una possibile via d’uscita dal massacro attraverso il reciproco riconoscimento. Ma sono proprio queste ambiguità a scagionare Vittorini dall’accusa di spocchiosa superiorità morale. Il libro, lo si sarà capito, è al contrario irrisolto e pensoso, carico di tutti i dubbi che potevano gravare sulla coscienza di un partigiano pur convinto della bontà della propria causa – e semmai il suo limite sta proprio nel non essere pienamente riuscito ad amalgamare una narrazione di ritmo hemingwayano (che, come detto, ha momenti di alto livello e oltretutto ha il pregio di raffigurare quella Resistenza urbana così diversa da quella di Langa o di montagna a cui forse siamo più abituati) con gli intermezzi riflessivi e persino lirici in cui l’autore prende la parola per chiosare quanto succede - intermezzi che spezzano quel ritmo, generando continue dissonanze. Come uno strano ibrido, Uomini e no mi sembra più significativo come indizio del travaglio che l’ha ispirato che non per la qualità letteraria complessiva del prodotto finale. Ma posso io - proprio io - imputare a qualcuno di essere stato troppo concettoso?
(finito il 28 giugno 2020)
Ho parlato di
Uomini e no
(GEDI 2020)
192 pp. | 7,90 €
Collana "Storie di Resistenza" vol. 4
(ed. or., 1945)
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