«Il 23 marzo non si fonderà un partito, ma si darà una spinta a un movimento e si fisserà una meta. (…) Il 23 marzo sarà creato l’anti-partito, (...) che far[à] fronte contro due pericoli: quello misoneistico di destra e quello distruttivo di sinistra. Sarà fissato un programma di pochi punti, ma precisi e radicali...». Ogni volta che rileggo queste righe resto basito. Ma come? L’ideale dell’anti-partito e la preferenza accordata al termine “movimento”, l’intenzione di andare oltre i vecchi schematismi di destra e sinistra, la sbandierata radicalità di pochi temi inderogabili che dovrebbero avere la precedenza su tutto il resto: se non fosse per lo stile demodé, potrebbe tranquillamente trattarsi dell’atto di convocazione del primo Vaffa-day con l’indicazione delle sue cinque stelle identitarie. E invece quelli citati sono estratti da alcuni articoli del Popolo d’Italia che annunciano, nel 1919, l’imminente e ovviamente «solenne» adunata da cui sarebbero nati, a Milano, i Fasci di combattimento. L'autore di tali proclami è l’allora trentaseienne Benito Mussolini, che provava in questo modo a ritagliarsi uno spazio di manovra nel caotico clima post-bellico per trasformare il diffuso ma generico malcontento di quei giorni in onda d’urto politica capace di dare una spallata definitiva al moribondo Stato liberale e alle imbolsite cariatidi che lo rappresentavano, non ancora raggiunte dalla consapevolezza che il loro tempo si era ormai compiuto.
L’idea alla base di questo disegno è semplice: la guerra ha scompaginato tutte le carte e quelli che a suo tempo l’hanno voluta e l’hanno fatta ora hanno il diritto e il dovere di guidare il Paese anche in tempo di pace. L’avanguardia di questa “trincerocrazia” (come la chiama lui) non ha bisogno di statuti, né di regolamenti, e men che meno di discussioni («tutto ciò è roba di partito», appunto). Quel che occorre, piuttosto, è la disponibilità a porsi «in una persistente mobilitazione», per prolungare lo sforzo militare e la sua connaturata violenza, indirizzandoli questa volta verso i nemici interni, allo scopo di produrre un «disordine creativo» che porti infine all’instaurazione di «uno Stato di tipo nuovo, radicato nelle masse» e sorretto da forze fresche. Si tratta di una miscela altamente esplosiva, a cui - in mancanza di una coerente linea ideologica (d’altronde «noi fascisti non abbiamo dottrine precostituite, la nostra dottrina è il fatto», sostiene un Mussolini che non ha ancora incontrato Gentile) – si è dato il nome di «diciannovismo» e in cui, per lo stesso motivo, si può trovare tutto e il contrario di tutto, come mostrano emblematicamente le schede biografiche dedicate da Franzinelli a ciascuno di quelli che sarebbero effettivamente stati presenti quel 23 marzo a piazza San Sepolcro (da cui “sansepolcrismo”, come sinonimo stesso di questo protofascismo urbano e “movimentista”). «Il fascismo delle origini mescola estremismo di destra e radicalismo di sinistra, in un dinamismo urlato e spericolato alla ricerca di sbocchi traumatici, sovvertitori degli assetti istituzionali»: fra quanti condividevano questo ribellismo anarcoide troviamo il capo degli Arditi Ferruccio Vecchi e l’ideologo del futurismo Marinetti, uomini dai cognomi importanti come un nipote di Garibaldi e il figlio di Cesare Battisti, troviamo chi sarebbe stato fucilato dai partigiani e chi sarebbe morto democristiano. Ma troviamo anche alcuni insospettabili come Pietro Nenni e Arturo Toscanini (che addirittura nelle liste del Fascio si sarebbe candidato alle elezioni del novembre ‘19). Non per nulla, nel corso del Ventennio, sulla memoria di quella giornata si sarebbe poi giocata una partita fatta di rimozioni, falsificazioni e rielaborazioni perché sarebbe stato un po’ imbarazzante per il fascismo trionfante riconoscere un tale guazzabuglio come suo atto fondativo (cosa invece interessantissima per lo storico).
In quel miscuglio, tuttavia, l’intraprendente Mussolini del 1919 ci sguazza pienamente a suo agio, poiché ritiene (con qualche ragione) di essere l’unico in grado di poter dare a tali proteste una qualche prospettiva di ampio respiro. Ciò a cui pensa, in quel momento, è una «costituente combattentista» che possa presentarsi come unico soggetto autorizzato a istituire un nuovo patto sociale, ma lo sviluppo tecnologico ci permette oggi di comprendere più chiaramente che ciò che effettivamente si sforzava di realizzare non era altro che una community ante litteram (ed è soprattutto in questo che le odierne bestie della comunicazione gli sono – forse involontariamente - più debitrici). A tale scopo, non avendo ancora a disposizione i moderni social network, Mussolini si serve come tribuna del suo giornale, mettendo a punto tecniche così innovative da essere tuttora ampiamente sfruttate dalla stampa italiana di destra (e non solo), come il titolo shock, l’apostrofe violenta e soprattutto la storpiatura derisoria dei nomi degli avversari (per cui, ad esempio, Nitti diventa «Sua Indecenza Cagoia», «il ministro della fogna», mentre Giolitti è descritto come una «malvagia carogna»). In questo modo, il futuro Duce «accentua il decadimento della vita pubblica irridendo governanti e oppositori, per mostrare – nell’incapacità degli interlocutori di reggere il livello dello scontro – la debolezza di questi e l’irresolutezza di quelli», in un gioco al massacro che si nutre di quel tipo di chiassate ancora tanto praticate da molti dannunzianetti armati di smartphone. Altrettanto impressionanti sono i temi agitati, soprattutto se li si scorre col senno di poi. Mussolini tiene in quei mesi comizi infervorati in cui propone, tra le altre cose, «l’instaurazione della Repubblica, assemblea rappresentativa di reduci e lavoratori per deliberare le otto ore giornaliere, livelli minimi salariali, il coinvolgimento delle maestranze nella gestione aziendale, coinvolgimento sindacale alle trattative di pace europee». E ancora: confische dei beni ecclesiastici, decimazioni delle ricchezze e persino – udite udite – una «energica tassazione sulle eredità». Quelli che oggi tengono il suo busto sul comodino e gli rivolgono le orazioni serali rabbrividirebbero al pensiero. Quelli che all’epoca avevano orecchie per intendere, invece, non si scomposero più di tanto. Nonostante i proclami e le accuse sistematiche rivolte ai pescicani della finanza arricchitisi durante la guerra, Mussolini non spaventa, infatti, la borghesia. Tutt’altro. Basta non limitarsi a leggere gli articoli pubblicati sul Popolo d’Italia, ma studiare anche le inserzioni pubblicitarie che lo sovvenzionano per capire chi lo tiene a galla (follow the money, come si sarebbe detto poi: ed è un bel metodo di indagine). Mussolini getta ami al popolo perché ha abbastanza fiuto per comprendere che non se ne può più fare a meno, ma vuole sottrarlo ai socialisti non per renderlo protagonista di un autentica lotta di emancipazione, bensì per piegarlo ai propri progetti. Quel che pensa davvero lo afferma con chiarezza in un discorso del 28 dicembre 1919: «io esalto l’individuo: tutto il resto non sono che proiezioni della sua volontà e della sua intelligenza». Ai padroni non sembra vero di aver forse trovato qualcuno che spingerà i servi a sottomettersi come è sempre stato, convincendoli però che ora sono loro a comandare.
Il progetto, però, per il momento si arena. Alle elezioni del ‘19, il fascismo non va oltre lo zero virgola e sembra già morto. Il suo radicalismo incontrollato allontana i moderati ma non riesce a sfondare fra le masse e il suo capo appare per un attimo una meteora come tante destinata a bruciarsi rapidamente. Per dare una misura della sconfitta, Mussolini (che a un certo punto aveva addirittura millantato di volersi candidare nientemeno che a Dronero per sfidare Giolitti nel suo collegio) prende 9000 voti; Turati – candidato anch’egli a Milano – ne ottiene 190 mila. Una bara col suo fantoccio gli viene fatta sfilare sotto casa la sera delle elezioni dagli ex compagni socialisti che non avevano mai digerito il suo voltafaccia di qualche anno primo. E invece è proprio qui che Mussolini si rivela straordinariamente moderno e «maestro nell’arte di spiazzare l’avversario. Quando lo si immagina sulla difensiva, attacca. É la strategia di chi sa adattare gli eventi quotidiani dentro la battaglia politica di lungo corso». Non c’è spazio a sinistra? E allora cambiamo slogan e bersagli. Non siamo un partito? E invece lo diventiamo. Questo incedere ondivago e opportunista può stupire, a prima vista, perché rivela un tratto sorprendentemente post-ideologico in colui che invece è spesso presentato da ammiratori e detrattori (per motivi diversi) come l’incarnazione stessa di una determinata ideologia – ideologia che invece subisce continui rimaneggiamenti per renderla più funzionale possibile al vero obiettivo, la ricerca (e poi il mantenimento) del potere. I fatti gli daranno ragione e nell’arco di appena tre anni, da capo di un movimento minoritario, Mussolini diventerà il più giovane Presidente del consiglio italiano (e tale rimarrà fino a Renzi).
Commenta Franzinelli che tale sviluppo, «più che svolta a destra (come si è spesso scritto), è l’inveramento dei presupposti d’ordine presenti sin dalla fondazione dei Fasci di combattimento, mescolati – nel magma diciannovista – alla fomentazione del disordine, funzionale alla destrutturazione dello Stato liberale e alla guerra guerraggiata contro la sinistra ufficiale». E questo mi fa pensare che se forse il fascismo col fez e il saluto romano è morto per sempre, non è affatto morto quel perenne diciannovismo italiano, «teppistico e sovversivamente patriottico, che mortifica e umilia gli avversari», che invoca il rispetto delle regole ma non paga le tasse, chiede test di cittadinanza ma non conosce i congiuntivi, invoca l’uomo forte ma protesta contro le mascherine. Da questo contraddittorio crogiuolo un secolo fa è venuto fuori il fascismo: nulla vieta che oggi possa produrre frutti persino peggiori.
(finito il 25 giugno 2020)
Ho parlato di
Fascismo anno zero
1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimento
(Mondadori, 2019)
289 pp. | 22 €
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