L’amico che per primo mi parlò di Stoner (si era a una cena tra professori di filosofia e aspiranti tali, qualche anno fa) me lo presentò dicendomi press’a poco che aveva appena finito questo libro, in cui non succedeva assolutamente niente per trecento pagine, ma che alla fine gli aveva prodotto l’effetto come di un pugno nello stomaco (anche se per rendere davvero un’idea dello stato d’animo cui intendeva alludere, dovrei poter riprodurre la sua mimica, più efficace di qualsiasi parola). Confermo l’impressione: a domanda secca non sapresti dire esattamente il perché, ma da questa lettura non ne esci indenne.
Che il racconto che ci si appresta a leggere non abbia a prima vista nulla di straordinario ce lo suggerisce uno degli incipit più meravigliosamente semplici e contemporaneamente tristi di cui abbia memoria: «William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido». Osservazione a prima vista quasi banale, quest’ultima, ma che, in chi fa l’insegnante di mestiere, e spera di sopravvivere in qualche modo nella memoria dei suoi allievi così come i suoi allievi sopravvivono nella sua, apre subito una ferita al cuore, iniettandovi un’irrimediabile dose di malinconia. Tornano alla mente le parole che Tiziano Sclavi fa pronunciare all’anonimo protagonista di Memorie dall’invisibile (Dylan Dog #19, per chi non c’era): “e allora capii che era vero: viviamo solo se qualcun altro crede in noi. Dunque, ero passato dalla nullità al nulla. Basta che se ne vada l’unica persona che ti abbia mai sorriso”. L’ouverture dà il tono all’opera e quel che ti aspetti, a questo punto, non può che essere la cronaca di uno scacco esistenziale annunciato, che come tale apparirà anche allo stesso protagonista, molte pagine dopo, quando, sul letto di morte, ripensando a un matrimonio sbagliato, a una carriera mai veramente decollata, a un amore vero perso per sempre a causa delle maldicenze, «spietatamente, vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro. Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento».
E però, tuttavia, c’è dell’altro, perché William Stoner non è solo l’ennesimo travet schiacciato da un mondo più grande di lui e magari incattivitosi per questo. Il segreto di questo libro prezioso, la verità che quasi sussurra e che, appunto, ti prende delicatamente alla gola mi pare sia più sottile. La medesima storia, infatti, potrebbe essere anche presentata, al contrario di quel che appare a prima vista, come il racconto di un riscatto: la parabola di un ragazzo nato in una modesta fattoria del Midwest e potenzialmente destinato a ripetere l’estenuante vita dei genitori, se non fosse stato travolto dalla letteratura, a cui si avvicina quasi per caso, e non senza difficoltà, dopo essere stato incoraggiato a iscriversi alla facoltà di Agraria, inizialmente col solo scopo di imparare tecniche e metodi nuovi da applicare ai poderi di famiglia. Qualche anno più tardi, subito dopo aver seppellito il padre e la madre nella tomba per cui essi avevano pietosamente versato le quote di un polizza, «mettendo da parte qualche penny ogni settimana per tutta la vita, anche nei momenti più disperati», Stoner si ritrovò a pensare anche «al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita, e lentamente, anno dopo anno, la terra se li sarebbe presi». Persone dignitosissime, gli Stoner, e tuttavia riassorbite nel suolo senza aver quasi lasciato traccia del loro passaggio al di sopra di esso.
Ma la letteratura, la poesia, ha il potere di strapparti a questo destino – ecco la scoperta che spariglia d’un tratto l’intera esistenza del loro unico figlio: quando il giovane William leggeva, «il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. (…) Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo. Poi pensava ai suoi genitori, li sentiva estranei quanto il figlio che avevano generato e avvertiva per loro un misto di pietà e amore distante» (altro flash, questa volta da Esenin tramite Branduardi: “Poveri genitori contadini / certo siete invecchiati e ancor temete / il Signore del cielo e gli acquitrini / Genitori che mai non capirete / che oggi il vostro figliolo è diventato / il primo fra i poeti del Paese”). In pagine in cui chi ha avuto la fortuna di fare un po’ di ricerca può facilmente riconoscersi emerge tutto lo stupore e l’immensa gratitudine per quello straordinario mondo nuovo che gli sembra di toccare con mano e al tempo stesso «la coscienza di quante cose ancora non sapeva, di quanti libri non aveva ancora letto. E la serenità tanto agognata andava in mille pezzi appena realizzava quanto poco tempo aveva per leggere tutte quelle cose e imparare quello che doveva sapere». Finché giunge il grande annuncio, per bocca del suo maestro: avrebbe fatto l’insegnante. A quelle parole «si sentì sospeso nell’aria aperta, mentre la sua voce diceva: “È sicuro?”. “Ma certo”, disse dolcemente Sloane. “Come può dirlo? Come fa a saperlo?”. “È la passione, Mr Stoner”, disse allegro Sloane, “la passione che c’è in lei. Nient’altro”. Nient’altro».
Altro che fallimento: questa è polvere che diventa uomo. E poi, però, quasi senza soluzione di continuità, ecco anche le prime crepe nell’edificio appena appena prefigurato – anch’esse familiari a chi ha seguito un percorso simile. Non solo la sensazione vertiginosa degli sterminati spazi che ora si aprono all’indagine (troppi per una vita sola), e neanche tanto la solitudine del dottorando impegnato a seguire la tradizione classica tra Medioevo e nel Rinascimento - che a un figlio di contadini, abituato al silenzio dei campi, pesa fino a un certo punto. Quanto l’impressione di una sostanziale futilità dell’intero sforzo. Uno parte carico d’entusiasmo e animato da un vibrante fuoco interiore, sentendosi investito di una missione fondamentale per conto della sacra istituzione accademica, salvo poi impaludarsi nell’ordinaria quotidianità delle prime lezioni svolte dall’altra parte della cattedra, quando l’ambizione di poter cambiare il corso del mondo attraverso l’opera educativa si stempera nella freddezza degli studenti e nella compilazione delle migliaia di inutili carte richieste per assecondare la perversa libido dei burocrati. Comincia così a nascere un sospetto, che squarcia il velo delle grandi speranze: «tu credi che ci sia qualcosa qui, che va trovato. Nel mondo reale scopriresti subito la verità. Anche tu sei votato al fallimento. Ma anziché combattere il mondo, ti lasceresti masticare e sputare via, per ritrovarti in terra a chiederti cos’è andato storto. Perché ti aspetti sempre che il mondo sia qualcosa che non è, qualcosa che non vuole essere. Sei il maggiolino nel cotone, tu. Il verme nel gambo del fagiolo. La tignola nel grano. Non riusciresti ad affrontarli, a combatterli: perché sei troppo debole, e troppo forte insieme. E non hai un posto al mondo dove andare. (…) È per noi che esiste l’università, per i diseredati del mondo. Non per gli studenti, non per la disinteressata ricerca della conoscenza, né per le altre ragioni che sentite dire. Quelle sono solo una copertura, come quei pochi individui normali, idonei al mondo, che di tanto in tanto accogliamo tra noi. Ma è tutto fumo negli occhi».
Come credo accada anche per i ricordi di una vita, la narrazione fino a un certo punto è molto particolareggiata, quasi che ogni dettaglio fosse una particella capace potenzialmente di sprigionare universi interi, poi d’improvviso la materia ripiega su di sé, il tempo accelera e gli anni corrono velocissimi, così che Stoner si ritrova in pensione quasi senza accorgersene. E in quel momento, presa coscienza della malattia che rapidamente lo consumerà, comincia a ronzargli compulsivamente in testa una vocetta: «cosa ti aspettavi?». Ripensandoci meglio, il suo non è stato un disastro, non più di tanto. «Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita». Ciò che rende Stoner così drammaticamente vero è appunto la disarmante normalità di ciò che descrive, che poi coincide con la tentazione di fondo che prima o poi insidia tutti quanti, e cioè che la vita non sia né una tragedia né una commedia, ma semplicemente poco più che un sogno, un’evanescenza. Quando il suo sogno si sta esaurendo e gli scivola ormai dalle mani, William Stoner prende dal comodino il suo libro, la sua tesi di dottorato, il segno più evidente del suo transito terrestre, e lo sfoglia per l’ultima volta. «La luce del sole, attraversando la finestra, brillò sulla pagina e lui non riuscì a vedere cosa c’era scritto». Subito dopo, muore. L’epifania è che non c’è epifania. Ma, davvero, che cosa ti aspettavi?
(Finito il 28 febbraio 2020)
Ho parlato di
Stoner
(Fazi, 2012)
Trad. di S. Tummolini
332 pp. | 24,90 €
(ed. or.: Stoner, 1965)
Nessun commento:
Posta un commento