Stanze

giovedì 31 dicembre 2020

12 dicembre 1969

La data del 12 dicembre 1969 dovrebbe essere scolpita nella memoria storica della Repubblica almeno quanto l’11 settembre 2001 lo è in quella americana (ma mi verrebbe da dire mondiale), così come l’immagine dell’atrio sventrato della Banca Nazionale dell’Agricoltura dovrebbe produrre in noi italiani lo stesso angosciante senso di smarrimento suscitato dallo squarcio di Ground Zero. Che non sia esattamente così, se non ai piani nobili della società, e ovviamente per chi è stato travolto direttamente da quella vicenda, mi pare persino triviale dirlo, anche senza citare quei sondaggi secondo cui, per gli adolescenti di oggi, la strage di Piazza Fontana, quando evoca ancora qualcosa, richiama confusamente una stagione di violenze percepita però come un pastone unico, le cui responsabilità sono infatti attribuite indistintamente ora alla mafia ora alle Brigate Rosse. Che non sia facile raccontarla, quella strage, lo dico per esperienza diretta di insegnante, perché ci sono una marea di addentellati di cui tenere conto se si vuole darne un inquadramento un minimo sensato, ma anche per il cortocircuito concettuale in cui rischi di ingolfarti quando, da un lato, ti sforzi di mostrare ai tuoi studenti l’inconsistenza logica dei vari complottismi odierni e, dall’altro, però ti trovi poi costretto a parlare effettivamente di depistaggi e manipolazioni, ancorché documentati, per spiegare come mai, a cinquant’anni di distanza, conosciamo bene o male chi ha messo le bombe, ma nessuno è in carcere per questo (“ma possibile che sia davvero accaduto tutto questo?” - classica obiezione: “ma dai, prof, non è credibile”). Il che offre un’ulteriore conferma del fatto che, se si vuole nascondere la verità, lo strumento più efficace resta quello di intorbidare le acque, perché peggio che non sapere affatto come stanno le cose è saperlo abbastanza, ma non poterci fare quasi niente, con questo sapere. 

Là dove il magistrato non può arrivare, arriva però lo storico, il cui lavoro può aiutarci a mettere ordine e fare sintesi, portando a galla il rimosso, come una sorta di psicoterapia sociale. Il libro di Mirco Dondi, rielaborazione di un capitolo di un suo più ampio volume dedicato alla strategia della tensione, parte appunto dalla cronaca della giornata del 12 dicembre per allargarsi, ovviamente - e non potrebbe essere altrimenti -, al contesto entro cui si inserì la strage e alle infinite conseguenze (processuali e non), che ne derivarono, fissando così una serie di punti che, fra le tante ombre ancora presenti, dovremmo ormai cominciare a considerare irrevocabile patrimonio comune della nostra coscienza civile. Primo punto: nel 1969 il Paese è in fibrillazione; la spinta riformista dei primi governi di centro-sinistra sembra essersi esaurita prima di avere raccolto tutte le esigenze provenienti da una società in trasformazione; ai vertici delle istituzioni e all’interno della Democrazia Cristiana - che delle istituzioni è il perno inamovibile, ma che è a sua volta un microcosmo tutt’altro che monolitico - si scontrano almeno due strategie diverse, l’una (rappresentata da Moro, allora ministro degli Esteri) interessata a governare politicamente questi processi, non disdegnando l’idea di costruire un asse con lo stesso Partito Comunista, nel quadro di una estensione delle garanzie democratiche, l’altra (ben espressa da Rumor, in quel momento Presidente del Consiglio) intenzionata invece a contenere le forze progressiste anche attraverso il ricorso a una modifica dell’assetto costituzionale in senso moderato-conservatore, con l’avallo dello stesso Presidente Saragat, che per un po’ di tempo sembra persino cullare l’idea di intestarsi un’operazione analoga a quella effettuata un decennio prima da De Gaulle in Francia; in questo secondo senso, lo stillicidio incontenibile di manifestazioni, di proteste e anche di episodi violenti può diventare il facile pretesto cui appellarsi per invocare un ritorno all’ordine che incontri il consenso di un’opinione pubblica impaurita e bisognosa di riferimenti più solidi del milionesimo governo balneare. Perchè non sollecitare allora questa soluzione, uscendo fuori dalle regole del gioco democratico «con operazioni di disturbo (destabilizzanti ma incruente)» da attribuire poi ad eversori “rossi”? Anche gli americani, del resto, approverebbero. 

Ma naturalmente non è che puoi mandare direttamente Rumor a piazzare qualche petardo nei cassonetti: occorre perciò reclutare manovalanza a buon mercato. Ed è qui – secondo punto – che il piano di destabilizzazione “leggera” agognato da un pezzo dello Stato si incontra con il piano di destabilizzazione “pesante” coltivato da un manipolo di neofascisti e da altri pezzi dello Stato (reduci di Salò o comunque ufficiali poco amanti della Costituzione che avevano giurato di servire) - da quelli, cioè, che non si accontenterebbero del presidenzialismo, ma vorrebbero direttamente i colonnelli e una bella sterzata autoritaria, come era avvenuto poco prima in Grecia e come sarebbe avvenuto poco dopo in Cile o in Argentina, approfittando delle condizioni offerte dalla guerra fredda. Qui si entra nella zona grigia degli ammiccamenti e delle ambiguità, per cui è difficile individuare una precisa catena di comando, posto che ci sia effettivamente stata, quantomeno in termini penalmente perseguibili: il meno che si può dire è che, con opportune sollecitazioni e attestate operazioni di infiltrazione, si sono offerte solide coperture e si è lasciato libero corso al furore ideologico di un gruppo estremista nero utile allo scopo, Ordine Nuovo, dalle cui fila provengono non per nulla tutti i principali protagonisti della stagione delle stragi (e attorno a cui gravitarono personaggi che, scagionati dalle inchieste, avrebbero comunque esercitato un ruolo politico non irrilevante nella successiva storia repubblicana, come Pino Rauti). 

Gli ordinovisti meritano due parole. Dondi ne dà questo efficace ritratto: «la maggior parte di loro ha meno di 30 anni nel 1969 (…). Appartengono a classi sociali medio-alte. Il loro elitarismo dello spirito si traduce nel disprezzo verso le classi meno abbienti. (…) Li accompagna il mito della violenza, enunciata ed esibita, il culto del coraggio e della forza fisica, la spietatezza nei confronti del nemico che può ritorcersi anche verso il camerata che non rispetta le consegne. Un gruppo chiuso, autoreferenziale che rifiuta il mondo contemporaneo e la rapida trasformazione politica e sociale che percorre anche l’Italia. (…) Ordine nuovo si differenzia rispetto al Movimento sociale per un tratto ideologico filonazista. Gli ordinovisti si sentono degli eletti, in tutto superiori ai militanti missini (…). É un mondo senza orizzonte sociale, proteso a un conflitto distruttivo, privo di qualsiasi polo relazionale. L’unico bisogno è la gerarchia, in una sfasata quanto ossessiva percezione della guerra». Tali miliziani si considerano - zarathustranamente - uomini del grande disprezzo, novelli samurai impegnati in una lotta senza quartiere contro tutto ciò che c’è di materiale e volgare nel mondo moderno, la cui suprema ipostasi è rappresentata da quella sorta di Grande Satana che sono gli Stati Uniti, ma con i quali però si alleano, perché a questa confraternita di superuomini piace, appunto, giocare alla guerra, ma solo tenendosi bene attaccati alla gonnella di mamma Nato. Vorrebbero tanto identificarsi con gli aristoi che governano lo stato ideale di Platone, ma della Repubblica ricordano piuttosto il bovaro Gige, che può permettersi qualsiasi malefatta grazie al suo anello dell’invisibilità. É proprio per senso di impunità, infatti, che, dopo una serie di attentati dimostrativi, Franco Freda, l’ideologo del gruppo, «uno degli uomini peggiori che l’Italia abbia prodotto, e che ha ripagato l’Italia con il peggio di sé» (come lo ha definito Enrico Deaglio), decide a un certo punto di alzare la posta, architettando una strage che lascia sul campo 17 morti e 88 feriti, ma che sarebbero potuti anche essere di più se fosse scoppiata anche una seconda bomba depositata alla Banca Commerciale Italiana (senza dimenticare gli ordigni che, contemporaneamente, esplosero a Roma, all’Altare della Patria e presso una filiale della BNL). Ma che importa? «“In fondo era plebe”», confesserà più tardi uno dei militanti coinvolti nell’azione. E che sarà mai? «Nulla se paragonato a Hiroshima, Nagasaki o ai bombardamenti su Dresda», commenterà un altro (Delfo Zorzi, che poi in Giappone ci è finito per davvero e tuttora là vive). 

Con uomini di tale risma, dunque, una parte di Stato ha trovato accordi e intese inconfessabili, così inconfessabili che, anche se le cose si erano spinte ben oltre il limite implicitamente pattuito, ogni possibile contatto andava a questo punto in ogni caso insabbiato e l’attenzione dirottata altrove. Perciò si procedette comunque, come prestabilito, con la pista anarchica, l’arresto “pilotato” del "mostro" Valpreda, la falsificazione delle prove, l’assassinio di Pinelli, con tutto ciò che ne discese. Il paradosso storico, se vogliamo, è che in questo modo i profeti della destabilizzazione finirono per diventare agenti di una stabilizzazione molto diversa da quella che si erano immaginati. Nessuna proclamazione di stato d’assedio venne dopo la strage e nessuna legge speciale – anzi, l’unica misura repressiva da parte del governo fu la proibizione di una manifestazione missina prevista per il 14 dicembre che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto sfociare in un attacco diretto alle sedi dei sindacati e dei movimenti di sinistra. Rumor avrebbe poi pagato, per così dire, il suo “tradimento” con un attentato fallito nel 1973, un po’ come i mafiosi si sarebbero vendicati su Lima nel 1993 dopo la conferma in Cassazione delle condanne del maxiprocesso. Sono indizi di una responsabilità politica inaggirabile - terzo punto. Già di per sé l’idea di un ricorso a operazioni coperte andrebbe considerata, più che come come un segno di forza, come «una manifestazione di debolezza» da parte di una classe dirigente che dimostrò in quel modo «l’incapacità di dominare, nel quadro della democrazia, le agitazioni sociali», ma ancor più grave è «conoscere la trama e non operare affinché questa venga sventata» e poi tacere perché «la trama è talmente irriferibile da delegittimare le carriere di rispettabili statisti». Così irriferibile che, a tutt’oggi, non ci sono colpevoli condannati e uno come Freda è ancora a piede libero, titolare come allora delle Edizioni di Ar (dove “ar” sta appunto per “aristocratico”: “così e così deve essere, costi quel che costi in termini di spiacevolezze”, si legge sulla pagina di presentazione del loro sito), opinionista per un certo tempo di Libero (giusto per ricordare l’albero genealogico della Seconda Repubblica) e folgorato infine nientemeno che da Salvini e da Trump (i quali sarebbero stati liquidati da un vero oligarca greco come demagogici imbonitori). Certo, «non tutti sanno tutto, ma lo Stato dispone di una cospicua mole di informazioni, dal momento che i suoi servizi sono il bacino di raccolta di numerosi fonte italiane e straniere. Su Ordine Nuovo (…) le conoscenze dello Stato (…) permetterebbero la completa neutralizzazione (…) -, a maggior ragione nel momento in cui la strategia dell’esplosione mortale scavalca la tattica istituzionale delle bombe dimostrative. Se ciò non è avvenuto e, al contrario, molti aderenti sono stati protetti dallo Stato, non resta che ammettere la compromissione delle istituzioni che alla fine hanno valutato come ugualmente funzionale ai loro scopo anche la strategia del sangue. Altri, fra coloro che all’interno dello Stato hanno attivato le azioni, sono rimasti vittime del loro stesso progetto». Per questo piazza Fontana è la «strage dell’innocenza perduta», in quanto «lo Stato ha disatteso il suo ruolo di salvaguardia della sicurezza dei cittadini rompendo il patto sociale alla base della sua legittimazione». 

Gli ordinovisti, che già si sentivano ministri in pectore del nuovo organigramma autoritario, divennero così dei comuni ricattatori, cosa che non li trattenne tuttavia dal seminare altro sangue negli anni successivi, sempre inseguendo ipotetici progetti di rovesciamento dell’ordine costituito che non arrivarono mai da nessuna parte, non tanto perché l’impresa fosse titanica (svuotiamo una volta per tutte di ogni retorico idealismo il loro delirio suprematista), ma perché probabilmente l’obiettivo effettivo di chi si serviva dei loro attentati non era mai stato davvero quello. Al settarismo élitario di chi si crede superiore a tutto e a tutti perché pensa di essere la reincarnazione degli eroi omerici e al pragmatismo immorale di chi ritiene che sia suo compito tutelare in ogni modo lo status quo e la propria rendita, posizioni apparentemente opposte eppure andate così spesso a braccetto con i loro bla bla sullo Stato, la bandiera e la nazione, preferisco il composto silenzio dei milanesi che, con la loro semplice presenza ai funerali delle vittime, gridarono in modo inequivocabile il loro no pasarán! La cultura cattolica ha elaborato l’idea che il popolo di Dio abbia un suo sensus fidei di cui anche il magistero deve tenere conto: nella misura in cui un analogo concetto può essere ripreso nella sfera laica, quella è l’autentica patria in cui pienamente mi riconosco.

(finito l'11 aprile 2020)

Ho parlato di


Mirco Dondi
12 dicembre 1969
(Laterza, 2018)

256 p. | 18 €

venerdì 18 dicembre 2020

Stoner

L’amico che per primo mi parlò di Stoner (si era a una cena tra professori di filosofia e aspiranti tali, qualche anno fa) me lo presentò dicendomi press’a poco che aveva appena finito questo libro, in cui non succedeva assolutamente niente per trecento pagine, ma che alla fine gli aveva prodotto l’effetto come di un pugno nello stomaco (anche se per rendere davvero un’idea dello stato d’animo cui intendeva alludere, dovrei poter riprodurre la sua mimica, più efficace di qualsiasi parola). Confermo l’impressione: a domanda secca non sapresti dire esattamente il perché, ma da questa lettura non ne esci indenne. 

Che il racconto che ci si appresta a leggere non abbia a prima vista nulla di straordinario ce lo suggerisce uno degli incipit più meravigliosamente semplici e contemporaneamente tristi di cui abbia memoria: «William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido». Osservazione a prima vista quasi banale, quest’ultima, ma che, in chi fa l’insegnante di mestiere, e spera di sopravvivere in qualche modo nella memoria dei suoi allievi così come i suoi allievi sopravvivono nella sua, apre subito una ferita al cuore, iniettandovi un’irrimediabile dose di malinconia. Tornano alla mente le parole che Tiziano Sclavi fa pronunciare all’anonimo protagonista di Memorie dall’invisibile (Dylan Dog #19, per chi non c’era): “e allora capii che era vero: viviamo solo se qualcun altro crede in noi. Dunque, ero passato dalla nullità al nulla. Basta che se ne vada l’unica persona che ti abbia mai sorriso”. L’ouverture dà il tono all’opera e quel che ti aspetti, a questo punto, non può che essere la cronaca di uno scacco esistenziale annunciato, che come tale apparirà anche allo stesso protagonista, molte pagine dopo, quando, sul letto di morte, ripensando a un matrimonio sbagliato, a una carriera mai veramente decollata, a un amore vero perso per sempre a causa delle maldicenze, «spietatamente, vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro. Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento». 

E però, tuttavia, c’è dell’altro, perché William Stoner non è solo l’ennesimo travet schiacciato da un mondo più grande di lui e magari incattivitosi per questo. Il segreto di questo libro prezioso, la verità che quasi sussurra e che, appunto, ti prende delicatamente alla gola mi pare sia più sottile. La medesima storia, infatti, potrebbe essere anche presentata, al contrario di quel che appare a prima vista, come il racconto di un riscatto: la parabola di un ragazzo nato in una modesta fattoria del Midwest e potenzialmente destinato a ripetere l’estenuante vita dei genitori, se non fosse stato travolto dalla letteratura, a cui si avvicina quasi per caso, e non senza difficoltà, dopo essere stato incoraggiato a iscriversi alla facoltà di Agraria, inizialmente col solo scopo di imparare tecniche e metodi nuovi da applicare ai poderi di famiglia. Qualche anno più tardi, subito dopo aver seppellito il padre e la madre nella tomba per cui essi avevano pietosamente versato le quote di un polizza, «mettendo da parte qualche penny ogni settimana per tutta la vita, anche nei momenti più disperati», Stoner si ritrovò a pensare anche «al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita, e lentamente, anno dopo anno, la terra se li sarebbe presi». Persone dignitosissime, gli Stoner, e tuttavia riassorbite nel suolo senza aver quasi lasciato traccia del loro passaggio al di sopra di esso. 

Ma la letteratura, la poesia, ha il potere di strapparti a questo destino – ecco la scoperta che spariglia d’un tratto l’intera esistenza del loro unico figlio: quando il giovane William leggeva, «il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. (…) Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo. Poi pensava ai suoi genitori, li sentiva estranei quanto il figlio che avevano generato e avvertiva per loro un misto di pietà e amore distante» (altro flash, questa volta da Esenin tramite Branduardi: “Poveri genitori contadini / certo siete invecchiati e ancor temete / il Signore del cielo e gli acquitrini / Genitori che mai non capirete / che oggi il vostro figliolo è diventato / il primo fra i poeti del Paese”). In pagine in cui chi ha avuto la fortuna di fare un po’ di ricerca può facilmente riconoscersi emerge tutto lo stupore e l’immensa gratitudine per quello straordinario mondo nuovo che gli sembra di toccare con mano e al tempo stesso «la coscienza di quante cose ancora non sapeva, di quanti libri non aveva ancora letto. E la serenità tanto agognata andava in mille pezzi appena realizzava quanto poco tempo aveva per leggere tutte quelle cose e imparare quello che doveva sapere». Finché giunge il grande annuncio, per bocca del suo maestro: avrebbe fatto l’insegnante. A quelle parole «si sentì sospeso nell’aria aperta, mentre la sua voce diceva: “È sicuro?”. “Ma certo”, disse dolcemente Sloane. “Come può dirlo? Come fa a saperlo?”. “È la passione, Mr Stoner”, disse allegro Sloane, “la passione che c’è in lei. Nient’altro”. Nient’altro». 

Altro che fallimento: questa è polvere che diventa uomo. E poi, però, quasi senza soluzione di continuità, ecco anche le prime crepe nell’edificio appena appena prefigurato – anch’esse familiari a chi ha seguito un percorso simile. Non solo la sensazione vertiginosa degli sterminati spazi che ora si aprono all’indagine (troppi per una vita sola), e neanche tanto la solitudine del dottorando impegnato a seguire la tradizione classica tra Medioevo e nel Rinascimento - che a un figlio di contadini, abituato al silenzio dei campi, pesa fino a un certo punto. Quanto l’impressione di una sostanziale futilità dell’intero sforzo. Uno parte carico d’entusiasmo e animato da un vibrante fuoco interiore, sentendosi investito di una missione fondamentale per conto della sacra istituzione accademica, salvo poi impaludarsi nell’ordinaria quotidianità delle prime lezioni svolte dall’altra parte della cattedra, quando l’ambizione di poter cambiare il corso del mondo attraverso l’opera educativa si stempera nella freddezza degli studenti e nella compilazione delle migliaia di inutili carte richieste per assecondare la perversa libido dei burocrati. Comincia così a nascere un sospetto, che squarcia il velo delle grandi speranze: «tu credi che ci sia qualcosa qui, che va trovato. Nel mondo reale scopriresti subito la verità. Anche tu sei votato al fallimento. Ma anziché combattere il mondo, ti lasceresti masticare e sputare via, per ritrovarti in terra a chiederti cos’è andato storto. Perché ti aspetti sempre che il mondo sia qualcosa che non è, qualcosa che non vuole essere. Sei il maggiolino nel cotone, tu. Il verme nel gambo del fagiolo. La tignola nel grano. Non riusciresti ad affrontarli, a combatterli: perché sei troppo debole, e troppo forte insieme. E non hai un posto al mondo dove andare. (…) È per noi che esiste l’università, per i diseredati del mondo. Non per gli studenti, non per la disinteressata ricerca della conoscenza, né per le altre ragioni che sentite dire. Quelle sono solo una copertura, come quei pochi individui normali, idonei al mondo, che di tanto in tanto accogliamo tra noi. Ma è tutto fumo negli occhi». 

Come credo accada anche per i ricordi di una vita, la narrazione fino a un certo punto è molto particolareggiata, quasi che ogni dettaglio fosse una particella capace potenzialmente di sprigionare universi interi, poi d’improvviso la materia ripiega su di sé, il tempo accelera e gli anni corrono velocissimi, così che Stoner si ritrova in pensione quasi senza accorgersene. E in quel momento, presa coscienza della malattia che rapidamente lo consumerà, comincia a ronzargli compulsivamente in testa una vocetta: «cosa ti aspettavi?». Ripensandoci meglio, il suo non è stato un disastro, non più di tanto. «Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita». Ciò che rende Stoner così drammaticamente vero è appunto la disarmante normalità di ciò che descrive, che poi coincide con la tentazione di fondo che prima o poi insidia tutti quanti, e cioè che la vita non sia né una tragedia né una commedia, ma semplicemente poco più che un sogno, un’evanescenza. Quando il suo sogno si sta esaurendo e gli scivola ormai dalle mani, William Stoner prende dal comodino il suo libro, la sua tesi di dottorato, il segno più evidente del suo transito terrestre, e lo sfoglia per l’ultima volta. «La luce del sole, attraversando la finestra, brillò sulla pagina e lui non riuscì a vedere cosa c’era scritto». Subito dopo, muore. L’epifania è che non c’è epifania. Ma, davvero, che cosa ti aspettavi?

(Finito il 28 febbraio 2020)

Ho parlato di


John Williams
Stoner
(Fazi, 2012)

Trad. di S. Tummolini

332 pp. | 24,90 €

(ed. or.: Stoner, 1965)