Stanze

lunedì 23 dicembre 2019

Il tempo del meticciato

Il tempo di avvento in procinto di chiudersi si era aperto, qualche settimana fa, con quella straordinaria visione di Isaia che costituisce uno dei vertici dell’intera poesia biblica: «alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e (…) ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: ‘venite, saliamo al monte del Signore’. (…) Egli sarà giudice fra le genti. (…) Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo». Non si direbbe, ma almeno in parte, questo annuncio si è già compiuto. I giorni non sono ancora finiti, le guerre dilagano, eppure «all’angolo della via, nella mia città o in qualsiasi metropoli (…) sfila l’intero pianeta». Così scriveva il teologo Jacques Audinet nelle primissime righe di questo saggio datato 1999, pubblicato cioè prima di Seattle, delle Torri Gemelle e di tutto quello che ne è seguito, e che proprio per questo può essere letto anch’esso, retrospettivamente, come una moderna profezia, non meno audace di quella isaiana, attraverso la quale guardare con occhi diversi l’epoca nella quale ci siamo per davvero resi conto di vivere forse solo oggi: il tempo del meticciato, appunto.

Poiché sento già il tintinnar di sciabole dei sovranisti, li rincuoro. Nessuno qui ha intenzione di offrire una sponda religiosa al globalismo finanziario, né di esaltare l’astratta omologazione imposta dai mercati. Tutt’altro. Poiché ogni uomo è radicato in una cultura, la differenza è a sua volta costitutivamente radicata nell’esperienza umana, che matura sempre in un ambiente definito e mai in spazi neutri: l’alba di Nairobi, per dire, non è quella di New York, e viceversa. Il problema è che la civiltà occidentale, che ha improntato con i suoi valori il mondo moderno, non ha saputo pensare questa differenza se non in termini di disuaguaglianza, trasponendo così sul piano culturale il modello della reductio ad unum ereditato da una certa forma di teologia e l’impianto gerarchico che le era connesso. Ma se «l’umanità è costituita da un arcobaleno di situazioni e di tradizioni, altrettanto vario di quello dei colori», sì che non si può parlare, se non in astratto, di un “uomo naturale”, allora «riconoscere l’altro nella sua cultura, dunque diverso, significa nello stesso tempo riconoscerlo come umano». É perché vedo l’altro dissimile che posso riconoscerlo come mio simile: è questo paradosso del riconoscimento ciò che può aiutarci ad uscire dalle secche di un dibattito asfittico, dominato dalla logica del “prima” questo o “prima” quello (davvero, come si può conciliare l’idea, di per sé nobile, di un’Europa “dei popoli” con la convinzione di un “primato” che una nazione dovrebbe avere sulle altre?). 

Audinet, però, non si accontenta di sposare una semplice prospettiva “multiculturalista”, secondo cui le diverse popolazioni possono coesistere, sì, senza scannarsi, ma solo perché ciascuna protetta nel recinto della propria riserva. La storia non funziona così. Noi tendiamo, infatti, a fissare le culture come se fossero nate per partenogenesi o come se fossero sempre state identiche a se stesse. La verità, invece, è che siamo tutti meticci, perché da sempre gli uomini si incontrano, si uccidono e si mescolano fra loro, mescolando anche i loro usi, le loro abitudini e le loro idee: ciò è particolarmente evidente nei più recenti fenomeni di colonizzazione, come in Messico e in America Latina, ma la dinamica è la medesima sin dai tempi dei primi contatti tra Sapiens e Neanderthal. L’Europa che oggi vuole erigere nuove frontiere è sempre stata terra meticcia e l’epoca più meticcia di tutte è proprio quel Medioevo venerato dagli amanti della tradizione come modello insuperato di ordine e staticità: è meticcio il franco Clodoveo che si fa battezzare, così come prima di lui il civis romanus Paolo che rielabora in greco una teologia imparata in ebraico. Ciò che chiamiamo “meticcio” non è altro che il culturale nella sua fase incipiente e ancora indefinita, come la mutazione che dà avvio a un processo di speciazione, attraverso cui la differenza non è eliminata, ma si modifica e, semmai, si moltiplica – basti vedere cos’è successo al latino, disseminatosi nelle diverse lingue romanze (del resto ogni lingua, sommo feticcio dei tradizionalisti, resta viva solo finché cambia). E sebbene sia inizialmente osteggiato, in quanto diverso, il nuovo è precisamente ciò che rende dinamica la vita dei popoli, impedendo che essa si trasformi in una mera riproduzione dell’esistente. Quando, invece, per contrastare l’omologazione globale, mi rifugio nell’omologazione locale, resto prigioniero della medesima logica che dichiaro di avversare. Le culture nazionali non potrebbero neppure esistere senza questi continui scarti e rimescolamenti. 

Il meticciato appare dunque «capace di mettere in discussione la coincidenza delle varie identità»: questo perché in ogni vita c’è sempre un’eccedenza che non può «fluire nello stampo collettivo proposto», che sia mondiale, regionale o persino familiare. Non è necessario essere filosofi per capirlo: ogni nuovo parto ce lo rivela. Venire al mondo, per fortuna, non significa infatti ripetere l’identico, prolungare cioè una serie di prodotti indistinguibili l’uno dall’altro, bensì portare alla luce un inedito modo di essere umano. Nascere dice una somiglianza e al tempo stesso una diversità, indica un’origine e istituisce una distanza, che via via si trasmette anche alle ulteriori fasi di sviluppo della vita: «l’essere umano è mescolanza, incontro di elementi diversi continuamente mescolati, del corpo e dei geni, del cuore e dello spirito, delle società e delle civilizzazioni». Ne consegue che, lungi dall’essere l’eccezione “bastarda”, «il meticciato rappresenta una delle dimensioni fondamentali, in quanto fondante, dell’avventura umana». Siamo tutti mutazioni in mutamento, che si arricchiscono attraverso incontri e percorsi imprevedibili, in una continua ridefinizione di noi stessi – e lo siamo sempre e comunque, anche nella più chiusa delle comunità endogamiche. «É impossibile determinare ciò che porta una nascita umana. La sola cosa che si può dire è che la novità, prima o poi, metterà in discussione ciò che si riteneva definito». Colui che chiamiamo “meticcio” è semplicemente colui che, portando sulla sua pelle segni evidenti di questa condizione, deve affrontare in modo più evidente ciò che negli altri resta talvolta mascherato, ma non è meno presente - e cioè la frattura di un’identità ferita e da ricostruire attraverso un processo di personalizzazione che è anche, al contempo, di socializzazione e di inculturazione. 

Pensare di poter bloccare questo flusso è illusorio, perché significherebbe bloccare la vita stessa. É la sua accelerazione, oggi, che ci spaventa – e sotto sotto l’idea di non poterlo più controllare dall’alto di una posizione di potere. Ciò che fa di quest’epoca il tempo del meticciato non è, dunque, il meticciato in sé, che c’è sempre stato, ma il fatto che ci poniamo la domanda se si possa evitare che questo fenomeno si svolga nel segno di una violenza inflitta o subita. Questo è ciò che è accaduto finora, per lo più. Tuttavia, le nascite meticce possono anche evocare «l’esperienza di una violenza trasformata» e racchiudono la promessa di una vita che di fatto va oltre il limite apparentemente insormontabile dell’incomunicabilità: meticciato può significare allora sentirsi impegnati in un’avventura comune in cui «le differenze non scompaiono. Si trasformano. Generano nuove differenze». Quello che per Audinet sembrava uno scenario non scontato, ma a portata di mano, alla fine degli anni ‘90, per noi può apparire oggi più difficile da immaginare – e tuttavia resta un obiettivo imprescindibile: «tra il politico e il culturale si avvia ormai un dialogo il cui esito non è determinato in partenza dalla violenza del potere. Nel tempo lungo del meticciato le frontiere, anche le più rigide sul suolo, si rivelano punti di contatto, punti di passaggio, cioè luoghi di mescolanza. Non significano più tanto le separazioni tra gli umani quanto il loro luogo d’incontro», come avviene nel pentolone in cui bolle lo stufato e i sapori interagiscono e si scambiano, e come avviene a un Dio che sceglie di contaminarsi con l'umano per scardinare la nozione stessa di contaminazione come sacrilegio. Quando capiremo tutto questo comprenderemo meglio cosa significa che nelle vene del Messia atteso da Israele scorra anche sangue pagano di Moab.

(finito il 10 luglio 2019)

Ho parlato di


Jacques Audinet
Il tempo del meticciato
(Queriniana, 2001)

(Giornale di Teologia 281)

trad. di F. Savoldi

224 pp. | 14 €

(ed. or.: Le temps du métissage, 1999)

venerdì 13 dicembre 2019

Fiesta

Si ha l’impressione, a volte, che tutti quelli che contavano in un certo momento della storia si siano segretamente dati appuntamento nello stesso luogo, suscitando la malinconia struggente di chi si accontenterebbe di essere l’ultimo degli stronzi incluso nella lista, pur di poter partecipare anche lui al party. Per dire, negli anni Venti, a un certo punto tutti sono passati da Parigi – e tutti desideravano passarci, anche solo per un saluto. Come si poteva seriamente pensare di aver vissuto finché si era rimasti altrove? Quel desiderio tracima l’argine della finzione e contagia anche personaggi letterari, come quel Franz Tunda che, al termine – se così si può dire – della tormentata Fuga senza fine allestita per lui da Joseph Roth, approda, appunto, nella capitale francese, solo per scoprire che, sotto lo sberluccichio delle coppe di champagne, continua a sedimentarsi la feccia dello spleen. «Era il 27 agosto 1926, alle quattro del pomeriggio, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d’innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo». 

Gli stessi sentimenti del fittizio Tunda li prova, bene o male, il suo coetaneo in carne ed ossa Ernest Hemingway, che ad uno dei personaggi della sua personale commedia umana sulla lost generation fa dire che sì, qui a Parigi sarai anche al centro di tutto, eppure «non hai mai la sensazione che la tua vita stia passando senza che tu ne approfitti? Ti rendi conto che hai già vissuto quasi metà degli anni che hai da vivere?». «Mi sentivo stanco e depresso», gli fa eco un altro. E un altro ancora (o forse lo stesso, è uguale): «non m’importava cosa fosse il mondo. Volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era». Adesso non è per fare il solito trombone, ma è strano imbattersi in queste frasi, analoghe a quelle che si possono ritrovare in un qualunque scalcagnato romanzo generazionale, e immaginare che siano state pronunciate, tra una partita di tennis e un ballo al café chantant, proprio negli stessi mesi in cui si consumavano i destini, per dirne due, di Matteotti e Gobetti, che avevano motivi più seri per lamentarsi e reagirono con ben altra tempra al comune spaesamento post-bellico. La vera protagonista del libro, lady Brett Ashley, capelli a maschietto come Louise Brooks e più tardi la Valentina di Crepax, centro di gravità intorno a cui ruotano come manzi tutti i maschi messi in scena, di sé dice, quando s’innamora per l’ennesima volta di un altro, «sono un caso disperato (…). Io non so fermare le cose», ed è al tempo stesso un’icona di emancipazione e di inconcludenza (non mi stupisce che, dopo l’uscita del libro, i lettori più giovani abbiano cominciato a imitare, nei modi e nel gergo, questi personaggi). Però è proprio la frivolezza degli interpreti, spesso ubriachi e molesti, quando non addormentati a causa dell’alcol, a rendere quest’opera, oltre che un importante documento storico sui mutamenti di costume di quegli anni, anche un testo particolarmente adatto per un’epoca di selfie e shottini quale la nostra (Fiesta!, rigorosamente col punto esclamativo, potrebbe essere benissimo il titolo di un programma televisivo in diretta da Ibiza). 

Ad ogni modo, che fa il nostro Hemingway per fronteggiare la sua pena di vivere? Dopo averti fatto giusto annusare la travolgente fête parigina - con gesto costruito e sprezzante, proprio di chi può permettersi di snobbare quello che tutti bramano, e l’aria di chi ti dice strizzando l’occhio “d’accordo Montmartre, ma adesso ti faccio vedere sul serio una cosa che non hai mai visto” - ti carica in treno insieme alla sua compagnia di giro e ti porta in gita in un posto forse meno cosmopolita, ma in cui ci si può davvero immergere in una fiesta come si deve. Bienvenidos a Pamplona, dunque. Le piazze assolate, i campi di pelota, l’incenso e i silenzi delle chiese: a tratti sembra di leggere una riuscita Lonely planet, però concordo, quest’angolo basco-navarrino di Spagna è realmente un gioiello che merita la visita e che potrebbe riappacificarti con te stesso. Qui ti riempiono di cibo e, manco a dirlo, «devi bere molto vino per mandare giù tutto quanto». E quando arriva San Firmino comincia un vero e proprio delirio organizzato. La fiesta «sarebbe durata, giorno e notte, per una settimana. Sarebbero continuate le danze, sarebbe continuato il bere, non sarebbe cessato il rumore. Le cose che accaddero potevano accadere solo durante una fiesta. Alla fine tutto divenne irreale e sembrava che niente potesse avere conseguenze», come in «un incubo meraviglioso». O come durante una sbornia presa per superare una depressione. Esattamente come accadeva a Parigi. «Tutto questo è molto divertente, ma non è tanto piacevole», ecco (e dopo un po' annoia anche leggermente il leggerne, se posso permettermi la lesa maestà). 

Gli unici che si salvano, forse, sono i toreri, perché «non c’è nessuno che viva la propria vita sino in fondo», come fanno loro, danzando letteralmente con la morte. Pedro Romero, che pure è un ragazzino, con i suoi diciannove anni, «aveva la grandezza» e nelle pagine dedicate alla sua esibizione Hemingway raggiunge picchi altissimi di giornalismo sportivo. «Intanto nell’arena, Romero, totalmente solo, procedeva nella stessa maniera, avvicinandosi sin dove il toro poteva vederlo bene, offrendogli il proprio corpo, offrendoglielo ancora un po’ più da vicino, col toro che lo guardava ottuso, e accostandosi poi tanto da far credere al toro d’aver partita vinta e offrendosi ancora e infine inducendolo a caricare, e a quel punto, un attimo prima che arrivassero le corna, mostrava al toro il panno rosso da seguire con quel piccolo scarto, quasi impercettibile, che aveva tanto offeso il giudizio critico degli esperiti in corride di Biarritz». Inevitabilmente, Brett si innamora anche di lui, ma altrettanto inevitabilmente la cosa non dura – e questa volta non solo per un capriccio di lei: Romero l’avrebbe anche sposata, ma l’avrebbe desiderata più femminile («voleva che mi facessi crescere i capelli. Io coi capelli lunghi. Sarei orribile»). Perché alla fine, in fondo, Romero è pur sempre un giovane spagnolo degli anni Venti, che Parigi probabilmente non sa neanche dove sia, e l’America men che meno: «farebbe una brutta impressione un torero che parla inglese. (…) I toreri non sono così». E in due battute, davvero hemingwayane, è come prefigurata tutta la disputa tra sovranisti e internazionalisti in cui ci arrabattiamo ancora oggi. 

Ps: ho detto “giornalismo sportivo” riguardo alla corrida. Passatemelo. Hemingway parla anche di tennis, di boxe, persino di pesca - lo padroneggia bene quello stile. Ma ahimé non capisce nulla di ciclismo. Quando il protagonista si ritrova a San Sebastian in contemporanea con l’arrivo di una tappa del Giro dei Paesi Baschi, tratta corridori e suiveurs come dei prezzolati giocherelloni. Lascia parlare per più di una pagina un direttore sportivo che decanta il Tour de France come «il più grande avvenimento sportivo del mondo», gli dà corda e appuntamento al mattino dopo, per vedere la partenza della corsa, sicuro come il sole che vengo, ma poi se la dorme fino a tardi. L’altro insisteva nel dire che, grazie al ciclismo e al calcio, la Francia stava diventando un paese sempre «più sportif», e si ha l’impressione che a Hemingway questa concezione – diciamo così - commerciale dello sport non andasse a genio. Si può anche concordare, ma se c’è uno sport che conserva l’epica della tauromachia, senza il sangue versato, quello è il ciclismo. E tra Bottecchia e Pedro Romero tutta la vita Bottecchia.

(finito il 24 giugno 2019)

Ho parlato di


Ernest Hemingway
Fiesta
in Romanzi. Vol. 1
(Mondadori, 1992) 
pp. 3-253

trad. di E. Capriolo

(ed. or.: The Sun Also Rise, 1926)

venerdì 22 novembre 2019

La scomparsa di Josef Mengele

«Tu che un semplice hai oltraggiato / ridendo sguaiato sulla sua sorte / (….) Sicuro non ti sentire. Il poeta ricorda». Sono versi di Czeslaw Milosz, Nobel polacco per la letteratura nel 1980, che Olivier Guez pone in esergo al suo libro come per chiarire sin dall’inizio, prendendola persin troppo alta, uno dei compiti che apparentemente si è dato scrivendolo – quello cioè di Erinni laica, la cui opera serva a ridestare l’infamia sul nome di uno dei peggiori scherani del Reich, scampato al verdetto della giustizia e forse anche all’angoscia del rimorso, ma non alla catastrofe di una vita buttata, come ricorda una seconda citazione, questa volta di Kierkegaard, secondo cui «il castigo corrisponde alla colpa: essere privati di ogni gioia di vivere, essere portati al grado estremo di disgusto per la vita». In realtà la patetica esistenza da braccato condotta da Mengele in Sud America dopo la guerra, simile a quella del ramingo Caino, non è minimamente comparabile neanche a un minuto del dolore scientificamente inflitto dal suo bisturi ad Auschwitz. Ma, del resto, il godimento rassicurante e catartico di vedere in qualche modo il malvagio punito mi sembra altrettanto morboso dell’entusiasmo con cui Tertulliano prospettava ai futuri beati lo spettacolo dei tormenti infernali contemplato in paradisescope dall’alto dei cieli. 

Meglio allora leggere questo libro come un reportage, perché di ciò sostanzialmente si tratta, scritto interamente al presente storico e con tanto di corposa bibliografia - un esempio perfetto di docufiction, in cui il materiale storiograficamente accertato è integrato, per le zone d’ombra, con invenzioni poetiche che, fin dove è possibile, provano a dare un senso agli eventi (l’autore è anche sceneggiatore, e si vede). Io, per esempio, ho scoperto qualcosa in più sull’Argentina peronista e sulla benevola accoglienza da essa riservata ai fuggiaschi nazisti: «Peron diventa il grande straccivendolo. Fruga nelle pattumiere d’Europa, intraprende una gigantesca operazione di riciclaggio: governerà la storia con la spazzatura della storia». Buenos Aires appare all’inizio degli anni ‘50 come la capitale occulta di un Quarto Reich di relitti che si ritrovano insieme per ascoltare Wagner e Strauss o per scambiarsi medagliette di Dürer come segno di affiliazione, agognando il ritorno in Germania non appena le acque si saranno calmate e sarà caduto il governo di “rabbi Adenauer”, servo dell’America e del complotto sionista globale, a cui questi irriducibili vittimisti continuano a credere. D’altronde, «se il pianeta non si fosse coalizzato contro la Germania il nazismo sarebbe ancora al potere». Animati da una «visione predatoria e angosciata del mondo», in cui «tutto è lotta: solo i migliori sopravvivono», non riescono neppure a concepire l’idea di essere loro, gli sconfitti senza riscatto a cui la storia questa volta presenta il conto. Niente da fare: la mentalità totalitaria finisce sempre per evocare una pugnalata alle spalle. 

Ma l’ora della rivalsa non arriva. «Alla nostalgia nazista i tedeschi preferiscono le vacanze in Italia. Lo stesso opportunismo che li ha indotti a servire il Reich li spinge ad abbracciare la democrazia». Di più, dopo la cattura di Eichmann, anche lui gradito ospite in Argentina, l’orrore che per un po’ era stato rimosso torna prepotentemente sulla scena – e non lo si potrà più minimizzare o derubricare a danno collaterale (e in questo senso il libro è anche un capitolo di una più ampia storia della progressiva presa di coscienza di cos’era stata la soluzione finale). É lo stesso Eichmann a togliere ogni alibi. Curioso destino, quello dei due camerati che lo intervistano perché sinceramente convinti di poterci ricavare un libro con cui respingere una volta per tutte l’immonda messinscena dei lager messa in piedi dagli ebrei, e ai quali Eichmann, con la fierezza di chi crede di aver compiuto una missione storica (posa ben diversa da quella dimessa adottata al processo), «conferma le proporzioni dello sterminio, descrive nei particolari le uccisioni di massa, le camere a gas, i forni crematori, i lavori forzati, le marce della morte, le carestie». I due «agnellini (…) credevano che il nazismo fosse puro», ma restano scossi da quella cifra - sei milioni: siamo stati davvero bravi no? - e si tirano indietro. 

É a questo punto che, anche per Mengele, la vita diventa più amara. Man mano che la memorialistica sulla Shoah si fa più dettagliata e si fa più decisa la caccia ai responsabili, intorno a lui si addensa una raccapricciante leggenda nera, cui si aggiunge anche quella, costruita in gran parte dai giornalisti, «di un supercattivo inafferrabile come Goldfinger, un’incarnazione pop del male, invincibile, ricchissimo e astuto, che semina i suoi inseguitori ed esce indenne dalle situazioni più pericolose, senza un graffio». Poco importa che la sua vita scorra invece piuttosto pigramente, nonostante l'ansia suscitata dal pensiero di una possibile cattura, in una fazenda brasiliana, dov'è coccolato da una rete di collaborazionisti: a metà anni ‘60 «il dottor Mengele diventa un marchio che solo a nominarlo gela il sangue e gonfia le tirature di libri e riviste: l’archetipo del nazista freddo e sadico, un mostro». Prigioniero soprattutto del proprio egocentrismo, Mengele comincia a vomitare tutto il suo rancore su quelli che, non meno colpevoli di lui, l’hanno scampata. «Ad Auschwitz i grandi gruppi tedeschi si sono riempiti le tasche sfruttando fino allo stremo delle forze la manodopera schiava a loro disposizione. Auschwitz, un’azienda redditizia» per società come la IG Farben o la Topf di Wiesbaden di cui parla Primo Levi ne I sommersi e i salvati. «Lavorando in stretta collaborazione ad Auschwitz, industrie, banche e organismi governativi ne hanno ricavato profitti enormi; lui, che non si è arricchito di uno pfenning, deve essere l’unico a pagare»? Alle volte qualcuno solleva la questione per muovere a compassione verso questi reietti, ma si tratta di un argomento capzioso, che semmai dovrebbe suscitare dubbi sui presunti incensurati. 

Anche Guez mi pare condivida l’idea che Mengele non sia stato quel satanico genio del male che la pubblicistica spesso dipinge, ma più semplicemente – e la cosa è in realtà più inquietante – «un uomo senza scrupoli, dall’anima blindata, che ha risposto alle sollecitazioni di un’ideologia velenosa e mortifera in una società sconvolta dall’irrompere della modernità. Quell’ideologia non stenta a sedurre il giovane medico ambizioso, a sfruttare colpevolmente le sue mediocri propensioni, la vanità, la gelosia, il denaro, fino a spingerlo a commettere crimini abietti e a giustificarli». Convinto di meritarsi tanto dalla vita, quel giovane dottore che in altri tempi sarebbe diventato magari solo un borioso ricercatore universitario, trova invece un contesto entro cui dare soddisfazione alle proprie ambizioni nel progetto eugenetico nazista – «guarire il popolo, purificare la razza, costruire un ordine sociale conforme alla natura, ampliare lo spazio vitale, perfezionare la specie umana» - e tanto peggio per gli altri. Esattamente come avviene, per ora su scala ridotta, con i tanti ceffi senz’arte né parte che stanno approfittando dello sdoganamento dell’odio per ritagliarsi il proprio quarto d’ora di celebrità con le loro intemerate meschine e infantili: quell’umanità fragile ma rabbiosa, che vorrebbe curare tutti tranne che se stessa, e che gli apprendisti stregoni del populismo continuano a solleticare pensando di riuscire sempre e comunque a gestirla. Oggi sappiamo che Mengele è morto, anche grazie alla prova del DNA, ma – e almeno su questo il libro mente – a quanto pare non è mai scomparso davvero.

(finito il 4 giugno 2019)

Ho parlato di


Olivier Guez
La scomparsa di Josef Mengele
(Neri Pozza, 2018)

trad. di M. Botto

204 pp. | 16,50 €

(ed. or.: La Disparition de Josef Mengele, 2017)

venerdì 8 novembre 2019

Mussolini ha fatto anche cose buone

Immagino sia capitato più o meno a tutti di affrontare una conversazione su temi latamente politici in cui a un certo punto un amico brillante se ne esce fuori con una frase di apprezzamento per quando c’era Lui, sostenuta con aria da uomo di mondo sulla base di argomenti che in realtà hanno più o meno la stessa consistenza delle formule del catechismo e proprio per questo sono pronunciate con una sicurezza dogmatica che non concepisce neppure l’ipotesi di una replica. La tentazione in questi casi è di fare spallucce. Che sarà mai: ognuno in famiglia ha un cugino un po’ strambo e spererai mica di cambiarlo? Tanto lo dicono tutti – di recente anche Bruno Vespa, dall’alto della sua autorità nazionalpopolare - che il fascismo non potrà mai più ritornare, quindi è inutile preoccuparsene troppo, anche se una reduce di Auschwitz è costretta a girare con la scorta, anche se signore di mezza età impediscono a bambini neri di sedersi sull’autobus, anche se tifosi di calcio giudicano l’appartenenza nazionale sulla base del colore della pelle. Già, che sarà mai? Ogni tanto ho però anche il sospetto che il silenzio possa nascondere, sotto una coltre di sufficienza, una mancanza di contenuti da contrapporre all’interlocutore. Contenuti veri – intendo - solidi, documentati, che vadano cioè al di là della sacrosanta ma pur sempre generica mozione degli affetti a cui troppo spesso ci si abbarbica, anche quando non sarebbe molto difficile andare a controllare come sono andate davvero le cose (credo sia una delle tante deplorevoli conseguenze di un dibattito pubblico ridotto a una recita a soggetto, in cui i duellanti oppongono retorica a retorica come Arlecchino e Pulcinella si scambiano le loro bastonate e ci si preoccupa di stabilire chi ha vinto prima di capire cosa ha detto). Ben venga allora un «manuale di autodifesa» come questo, da avere sempre sotto mano per chiedere conto delle proditorie e spesso vaneggianti affermazioni che si sentono ripetere sul Ventennio. 

Qui non c’è sintesi che tenga: bisogna proprio andarselo a leggere e studiarselo bene, questo libro, perché, senza rinunciare alla scorrevolezza dell’esposizione, ci fornisce dati e materiali per smascherare tutti i principali luoghi comuni sul fascismo, smontando pezzo a pezzo una propaganda rivelatasi – quella sì – efficacissima nel produrre credenze che si sono sedimentate così bene nell’immaginario degli italiani da durare molto più a lungo del regime stesso, come un ordigno inesploso ma ancora carico dopo il 25 aprile. Quel che più sorprende è che per sconfessare opinioni che hanno la stessa fondatezza storica dello jus primae noctis Francesco Filippi non sia dovuto andare a rovistare negli archivi segreti del Vaticano, né abbia dovuto decrittare la lineare A, ma ha semplicemente messo in fila elementi che sono accessibili a tutti, facilitandoci le cose, certo, e sia benemerito per questo, ma mostrando anche (e forse questo è il suo insegnamento più fruttuoso) che un simile lavoro non richiede necessariamente di doverci sobbarcare la lettura completa dell’intera bibliografia esistente sull’argomento o di doverci immergere in sofisticate dispute storiografiche, perché in questo caso le bugie hanno davvero le gambe corte. Motivo in più per perderci un po’ di tempo sopra (costa pure poco). 

Ciò detto, qualche considerazione generale la si può comunque provare a tracciare. Per dire, è vero che Mussolini – come si sente ripetere – avrebbe dato le pensioni a tutti gli italiani e avrebbe bonificato le paludi? Ecco, se si scorrono le carte (libri di storia, ma soprattutto verbali, serie statistiche e gazzette ufficiali) si scopre che progetti in tal senso erano già stati avviati dalla tanto vituperata Italia liberale e che furono poi portati davvero a compimento dall’altrettanto vituperata Prima Repubblica. Mussolini, lì nel mezzo, ha solo raccolto quanto già predisposto dai governi precedenti, il più delle volte unificando iniziative diverse all’interno di istituti posti sotto il controllo dello Stato, cioè del partito fascista, in modo da drenare – è il caso di dirlo - quantitativi sempre più ingenti di risorse pubbliche allo scopo di costruire un immenso apparato clientelare con cui appagare i desiderata piccoloborghesi del proprio zoccolo duro di sostenitori, usando cioè beni di tutti per foraggiare la sua personale macchina di consenso (non è forse la stessa cosa utilizzare i fondi del ministero dell’Interno per pagare gli stipendi alla “bestia” che ti cura l’immagine sui social?). Quando qualche risultato, in questo modo, è stato raggiunto, lo si è fatto perciò producendo un’autentica voragine nelle casse statali, resa ancor più incontrollata da scelte economiche dissennate effettuate solo a scopo di prestigio (come la famigerata “quota 90” per riallineare la lira alla sterlina), dalle crescenti spese militari (orientate oltretutto all’acquisto di mezzi rivelatisi obsoleti quando è scoppiata la guerra) e infine dall’insostenibile strategia autarchica – il tutto condito dal piagnisteo contro le potenze demoplutocratiche straniere additate come le uniche responsabili dei mali dell’Italia e di quel crescente dissesto economico da cui è stata poi la repubblica, con tutti i suoi limiti, a tirarci fuori (storia già vista: un governo promette più pilu per tutti in deficit, un altro risana, fa tirare la cinghia e si becca gli insulti). Le “cose anche buone” fatte da Mussolini sono dunque cose che con ogni probabilità sarebbero state fatte comunque, e anche meglio, da altri. 

E allora, a parità di risultati, perché abbracciare una dittatura e la privazione delle libertà personali? Qualcuno potrebbe dire che era il prezzo da pagare perché senza le maniere forti non ci saremmo mai lasciati alle spalle il precedente sistema corrotto e malavitoso. Almeno Mussolini – si dice – era “honesto”. Ma siamo proprio sicuri che fosse così? Ormai pare assodato, per esempio, che il delitto Matteotti sia dipeso non tanto dalle accuse sulle irregolarità nelle elezioni del ‘24 quanto dall’efficace opposizione politica che il deputato socialista stava svolgendo in commissione Bilancio alla Camera, «smascherando le truffe contabili del governo, inchiodandolo alle sue deficienze e ai suoi imbrogli del tutto simili a quelli della tanto odiata stagione liberale, che voleva cancellare». Detto altrimenti, Matteotti cercava di mostrare che «quello di Mussolini era un partito di truffatori uguale – forse peggiore – di quelli che lo avevano preceduto. Se della violenza e anche del menefreghismo nei confronti delle libertà individuali il fascismo in un certo senso poteva addirittura vantarsi, l’accusa di disonestà sarebbe stata probabilmente troppo difficile da digerire per un’opinione pubblica che voleva il cambiamento» (Filippi è sottile, non usa le parole a caso). «Per il mito della purezza fascista si arrivò al paradosso di pensare preferibile un delitto le cui motivazioni stavano nell’azione violenta di alcuni fascisti scalmanati, piuttosto che nella volontà, di stampo mafioso, di voler mettere a tacere una voce critica che avrebbe mostrato al mondo il vero carattere del fascismo: più associazione a delinquere che partito politico». E se questo ancora non bastasse, si pensi alle disastrose e ingiustificate campagne militari avallate da Mussolini, dall’attacco alla Grecia alla campagna di Russia: «se mai è stato tentato un genocidio sistematico del popolo italiano, questo genocidio è stato avviato, più o meno consciamente, dalla tirannide fascista», che si è imbarcata senza mezzi e preparazione in missioni insensate all’unico scopo di garantire imperitura gloria al suo capo usando gli italiani come carne da macello. 

Per un curioso paradosso, l’idea che invece il fascismo, almeno fino a un certo punto e sotto certi aspetti, sarebbe stato un totalitarismo “buono” è un mito prodotto dagli stessi antifascisti che pagarono sulla propria pelle tale presunta “bontà” e che alla fine lo sconfissero. Per tenere unito il paese dopo la guerra e uscire insieme dalla dittatura si preferì costruire l’immagine del tedesco “cattivo” su cui addossare tutte le responsabilità di quello che era capitato, salvaguardando così una certa differenza italiana (a costo di scelte discutibili, come negare l’estradizione di Graziani all’Etiopia perché fosse processato per crimini di guerra). Fu un modo per cercare di apparire presentabili nel consorzio delle nazioni vincitrici, ma anche per rispondere a un’esigenza profondamente radicata in una generazione stremata che aveva «la necessità di voltare pagina e ricostruire da zero non solo una nazione, ma anche il senso di appartenenza a una comunità». Lo stesso Partito Comunista preferì reintegrare e includere, anziché ostracizzare (a livello di intellettuali, caso che conosco un pochino meglio, ci furono in effetti spettacolari cambi di casacca da una stagione all’altra). La conseguenza più problematica di una strategia che aveva anche le sue ragioni è che forse non è mai stata avviata una seria discussione pubblica su come si era affermato il regime, cosicché il senso comune ha finito per elaborare la favola di un popolo di “brava gente” tenuto suo malgrado sotto il tacco di un’orwelliana e implacabile macchina di repressione diretta da luciferini geni del male – macchina che in realtà non funzionò mai così bene e che comunque non avrebbe potuto imporsì né funzionare senza il consenso o l’inerzia di gran parte degli italiani. I quali, senza magari sostenere apertamente, minimizzarono, trascurarono o soprassederono. Sicché oggi scopriamo con un certo sgomento di non avere prodotto gli anticorpi necessari per evitare di contrarre una nuova febbre autoritaria, che consegnerebbe pieni poteri a una cricca di incapaci il cui unico talento è ancora una volta quello di sventolare bandiere e valori di cui in realtà non gliene importa nulla, ma in nome dei quali sarebbero capaci di avallare le decisioni più meschine. É vero che il popolo italiano atterra e suscita con la rapidità di un bimbo capriccioso, ma l’altra volta, per passare dall’adunata oceanica del 10 giugno 1940 alle feste di piazza del 25 luglio 1943 ci vollero la guerra e le macerie – e non era ancora finita. Ammetto di essere un po’ preoccupato.

(finito il 29 maggio 2019)

Ho parlato di



Francesco Filippi
Mussolini ha fatto anche cose buone.
Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo
(Bollati Boringhieri, 2019)

132 p. | 12 €

martedì 22 ottobre 2019

Middle England

Jonathan Coe è un autore che ha il dono. C’è chi scrive meglio, certo, ma come sa raccontare lui ne ho trovati pochi. Niente da fare: apri il libro e parte il pilota automatico finché ti accorgi di essere già arrivato all’ultima pagina, senza inciampi o cadute di ritmo. Qui gestisce qualcosa come almeno una dozzina di personaggi, le cui storie private, a volte privatissime, si intersecano in vario modo fra di loro e con eventi di rilevanza pubblica, alternando una pluralità di registri che variano dal comico al drammatico, senza perdere mai la consueta leggerezza. Di questi personaggi, tutti a loro modo protagonisti, la maggior parte sono vecchie conoscenze per gli aficionados di Coe, che per l’occasione è andato infatti a ripescare gli eroi del suo romanzo forse più amato, La banda dei brocchi, nonostante le loro vicende sembrassero aver trovato la loro naturale conclusione in un altro libro non per nulla intitolato Circolo chiuso. Semplice operazione di marketing per coinvolgere lo zoccolo duro dei suoi fan? Sì, forse. Ma anche una consapevole ritrattazione, che non poteva avere la stessa efficacia se avesse impiegato personaggi diversi. Chi conosce Coe sa quanto sia affascinato da quello che sarebbe potuto succedere e non è successo e da quello che invece è successo e non si sa bene perché e per come sia successo, ma sa anche che di solito ingarbuglia le tessere del puzzle solo per divertirsi poi a riconnetterle tutte quante. Quindici anni dopo è come se fosse costretto ad ammettere che, in effetti e suo malgrado, quella storia non era affatto finita come aveva pensato. «La vita è un’avventura. Non si sa mai che cosa si troverà. A volte ti capita qualcosa di bello, altre volte qualcosa di brutto, e molto spesso qualcosa di molto strano. É questa l’Inghilterra. Dobbiamo farcene una ragione». 

Ecco, appunto, ma com’è che l’Inghilterra è diventata così strana? Middle England suona un po’ come la proverbiale “pancia del paese”, quella provincia neanche poi troppo profonda, ad appena due-tre ore di treno o pullman da Londra, che appare però più lontana, ai moderni globetrotters, di una qualsiasi altra capitale europea, e che fa dire a una dei personaggi, giunta ad Hartlepool, contea di Durham, «quella era l’Inghilterra, il suo paese; eppure le sembrava di essere del tutto estranea a quell’angolo di mondo». Il referendum sulla Brexit ha portato allo scoperto delle linee di confine diverse da quelle degli atlanti tradizionali, faglie che attraversano il paese dividendo le famiglie e i compagni di scuola, i genitori dai figli, i mariti dalle mogli. E chi poteva immaginarselo? Appena quattro anni prima, la sera di venerdì 27 luglio 2012, l’intero popolo britannico si era rispecchiato compiaciuto nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Londra, un vero trionfo dell’immaginario pop inglese: sono una decina di pagine intensissime, quelle in cui tutti, ma proprio tutti gli attori messi in scena da Coe si ritrovano a commentare quello che vedono sullo schermo del proprio televisore – e i “brocchi” di un tempo, i nerd degli anni ‘70 e ‘80, rabbrividiscono nel constatare che alla fine avevano ragione loro. Tutta quella musica di nicchia che li aveva condannati ai margini della vita sociale «eccola, che veniva trasmessa al mondo intero, presentata come un esempio del meglio della cultura britannica. Vendetta! Era arrivata l’ora della vendetta!». Di fronte a questo spettacolo che tiene insieme la regina e i Sex Pistols, James Bond e i Pink Floyd, Mike Oldfield e Mr. Bean, anche la più anticonformista del lotto twitta entusiasta «il mio è un paese straordinario». Quella sera tutti avrebbero voluto essere inglesi. «Quella sera l’Inghilterra sembrava un paese tranquillo e organizzato, un paese in pace con se stesso. L’idea che una trasmissione televisiva avesse potuto unire tanti milioni di persone così diverse gli faceva pensare alla sua infanzia e lo faceva sorridere. Andava tutto bene e il fiume sembrava essere d’accordo con lui». 

E invece no, invece dietro le quinte della messinscena serpeggiava un rancore che, di lì a poco, sarebbe stato riversato sulla scheda referendaria fino a traboccare dalle urne. Alle pietre miliari del rock prog avrebbe fatto allora da controcanto la tradizionale (e peraltro bellissima) Adieu to Old England. Già, perché al referendum non si è scelto sulla base di ponderate considerazioni sugli accordi commerciali e quegli altri tecnicismi che stanno facendo continuamente saltare l’intesa con la UE, ma unicamente per una questione di principio. Chi non è dei nostri è contro di noi, ecco tutto. Anche se i nemici peggiori non sono neanche gli stranieri in sé e per sé, ma quelli di noi che li difendono, che prendono sempre le loro parti, gli schiavi del politically correct, i buonisti, i comunisti col rolex, quelli che non conoscono chi è Cicciogamer: «non capisci come siete esasperanti, tu e tutti quelli come te, con quell’aria di superiorità morale che avete sempre nei nostri confronti?», domanda un marito alla moglie. Se vincerà la Brexit, e vincerà – continua – sarà «per via di quelli come te». 

Coe, che credo si senta chiamato in causa da una simile accusa, ma che è di Birmingham, e quindi ha un po’ più il polso dei rumours diffusi oltre la Circle Line di Londra, prova a storicizzare questo malessere (e perciò sarà forse letto ancora fra un secolo come fonte storica per questi tempi interessanti, come accade oggi coi naturalisti francesi dell’Ottocento). Non bastano i pregiudizi, infatti, per spiegare lo spaesamento della Vecchia Inghilterra, che ha anche delle buone ragioni dalla sua. Uno dei più convinti sostenitori della Brexit, per dire, è un anziano operaio in pensione che, rimasto vedovo, vuole farsi a tutti i costi accompagnare dal figlio sul luogo in cui sorgeva la sua fabbrica solo per scoprire con sconcerto che quel che non è stato demolito di quel sito è stato trasformato in un centro commerciale: «un edificio non è solo un posto, ti pare? (…) É anche la gente. La gente che ci sta dentro. Non sto dicendo… cioè, lo so che facevamo macchine di merda. Lo so che i tedeschi e i giapponesi ne costruiscono di migliori. Non sono stupido. (…) Quello che non capisco è come finirà. Come facciamo ad andare avanti in questo modo. Non produciamo più niente. Se non produciamo più niente, non abbiamo niente da vendere, perciò come… come faremo a sopravvivere? (…) Se non c’è la fabbrica, come fa la gente a trovare i soldi da spendere nei negozi?». 

Di questo disagio la politica non sa minimamente farsi carico. David Cameron viene descritto da Coe attraverso le parole di un portavoce che lo idolatra come una specie di Renzi d’oltremanica, un conservatore dinamico che si riempie la bocca di slogan ad effetto e che finirà travolto dalla sua stessa scelta di drammatizzare il conflitto con un referendum mal posto che denota la sua totale incapacità di comprendere gli umori del paese (non che i laburisti siano messi meglio; quanto all’Ukip, sa solo amplificare i problemi senza preoccuparsi di come risolverli: si può leggere quasi tutto il romanzo con la mente all’Italia). La fragilità del sistema vien fuori all’indomani dei risultati. In poche parole, «siamo fottuti (…). Siamo completamente e irrimediabilmente fottuti. É un caos. (...) Nessuno era pronto. Nessuno sia cosa sia la Brexit. Nessuno sa come attuarla. (…) Nessuno sa cosa voglia dire Brexit» - ed in effetti lo stiamo vedendo. Anche se un barlume di speranza resta acceso, quando si annuncia la nascita, prevista proprio per il 29 marzo 2019, giorno in cui sarebbe dovuta scattare l’uscita dall’Europa, del figlio di una delle coppie più segnate dall’esito referendario, la loro «incerta dichiarazione di fede in un futuro ambiguo e ignoto (…): il loro bellissimo bimbo Brexit». 

Non ci provo neanche a ricostruire gli snodi della trama, che – come si sarà intuito – è ricca di giravolte e di connessioni inaspettate. Mi piace il modo in cui Coe prova a riannodare i fili della storia recente del suo paese, offrendo una ricostruzione che appare coerente con l’idea che mi ero fatto e con molti altri commenti che si sentono in giro. Per certi versi pone sul tappeto le stesse questioni che solleva Houellebecq, ma quanto quest’ultimo è ruvido e disturbante, tanto Coe è educato e corretto come un ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Ed è proprio questo l’unico sospetto che resta al termine della lettura: non è che in fondo mi sembra così convincente semplicemente perché mi dice in bella forma le cose che voglio sentirmi dire? Ci penserò su.

(finito il 23 maggio 2019)

Ho parlato di




Jonathan Coe
Middle England
(Feltrinelli, 2018)

trad. di M. Castagnone

400 p. | 19 €

(ed. or. Middle England, 2018)


lunedì 7 ottobre 2019

25 aprile 1945

Costruito più come un film che come un canonico testo di storia – o meglio ancora come una puntata di Blu Notte, con frequenti cambi di scena, flashback and flashforward, una voce narrante che tiene insieme le diverse sequenze e racconta più volte gli stessi episodi attraverso testimonianze diverse portatrici di punti di vista complementari, questo libro non è solo e non è tanto una cronaca di quanto accadde il 25 aprile, quanto un tentativo di descrivere il retroterra che rese possibile quel giorno, così da restituire uno spaccato, anzitutto esistenziale, raccolto dalla viva voce dei protagonisti, di quegli ultimi nove mesi della Resistenza in cui si produsse il travaglio della Liberazione. Perché tale, in effetti fu: se non ci si lascia ingannare dalla distorsione prospettica secondo cui non poteva che finire così, quel percorso non risultò affatto lineare, ma fu attraversato da tensioni e crisi profonde, momenti di angoscia in cui più volte tutto sembrò sul punto di essere perduto. «Il senso di sfida, di dramma, in certi periodi anche di tragedia o di scoraggiamento che caratterizzano la concreta esperienza storica, può essere compreso solamente rinunciando al senno del poi, avvicinandoci per quanto possibile al punto di vista dei protagonisti che, ovviamente, non sapevano come sarebbe andata a finire» (sono parole dello storico Santo Peli riprese qui da Greppi). 

La stessa unità antifascista appare tutt’altro che scontata, in quel contesto, perché le visioni del mondo dei resistenti non erano pienamente coincidenti. Lo dimostrano, tra l’altro, le dissonanze fra i tre uomini che guidarono le operazioni nell’Italia occupata dai nazifascisti e che sono poi i tre principali protagonisti di questo racconto, vale a dire Parri, Longo e Cadorna, al quale – in particolare – il libro dedica una specifica attenzione, anche perché l’autore è un suo nipote che deve aver pensato fosse giunto il momento di restituirgli il dovuto spazio fra i padri della repubblica (ed è un merito: io vergognosamente non ne sapevo nulla). Le mani che si stringono, negli incontri clandestini, «sono mani sincere, di uomini pronti a tutto pur di spazzare via i nazifascisti, sono strette di mano che uniscono, senza dubbio, ma che possono anche avere mille significati nascosti: innanzitutto sondare quanta forza ci mette l’altro, nella stretta». Ma proprio la fragilità della lotta antifascista, l’essere il frutto di difficili e precari compromessi, la rende ancora più significativa, perché ne svela il carattere non ideologico e perché dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che la prassi e la condivisione possono spesso avvicinare ciò che la teoria separa. 

La scena madre intorno a cui gira tutta quanta la ricostruzione è l’incontro tra gli emissari del CLNAI, da una parte, Mussolini e i suoi, dall’altra, avvenuto nelle stanze dell’arcivescovado di Milano, nel tardo pomeriggio del 25 aprile – anche se a incuriosire è soprattutto il racconto dell’ora che precede quell’incontro, quando il Duce e il cardinale Schuster intrapresero una discussione del tutto surreale, date le circostanze, su temi come il rito ambrosiano e le chiese ortodosse: «provai un senso di maraviglia, constatando la scarsa cultura religiosa di un uomo che aveva avuto in mano le sorti della Cattolica Italia», commenterà più tardi il prelato (con parole adatte anche per gli aspiranti ducetti contemporanei), dai cui ricordi emerge chiaramente il desiderio di poter strappare in extremis un segno di conversione al suo interlocutore, descritto non senza simpatia come un Napoleone ormai approdato nella sua Sant’Elena. Se di questo tete-a-tete, però, abbiamo solo la versione di Schuster, della riunione che segue possediamo invece molti resoconti, sostanzialmente coerenti l’uno con l’altro. I fascisti ci arrivano illudendosi di poter dettare ancora le loro condizioni, ma i partigiani non transigono: la parola d’ordine è “arrendersi o perire”. 

Quando scoprono che in realtà tedeschi stanno già trattando la resa separatamente, i repubblichini danno di matto – o fingono solo di farlo, non è chiaro. Mussolini stesso promette che andrà finalmente a dirgliene quattro al capo delle SS, perchè non si può più tollerare l’atteggiamento di superiorità con cui i nazisti li hanno sempre trattati, e che nel giro di un’ora sarebbe tornato con la sua risposta definitiva – ma forse è solo l’ennesima sceneggiata dal grande istrione romagnolo. Il vertice si chiude infatti con una sua frase «che assomiglia tanto a quella, consumata dalla cultura popolare, di chi esce di casa dicendo: “Vado a comprare le sigarette”. E non torna più». Fino a qualche giorno prima, Mussolini, in Valtellina, arringava gli irriducibili disposti ancora a morire per lui; alla prova dei fatti, ciò che gli interessa è solo garantirsi un minimo margine di vantaggio per coprire il suo maldestro tentativo di fuggire in Svizzera, e chi si è visto si è visto. Chissà, se si fosse arreso avrebbe potuto salvarsi la pelle. «Forse – ma non lo sapremo mai – il duce sarebbe sopravvissuto a un processo. Tutti tendono a chiedersi come sarebbe andata se fosse tornato o non fosse mai uscito da quella stanza, se qualcuno avesse tirato fuori una pistola, a un certo punto, se ci fossero stati dei rappresentanti dei partiti di sinistra» (come Pertini, che più tardi avrebbe raccontato di essersi fiondato in arcivescovado non appena messo al corrente della riunione, per assicurarsi che Mussolini non si allontanasse ed anzi venisse subito giustiziato). Quel che è certo è che «quando i fascisti, dopo essere sbottati, se ne vanno, l’impressione è che non si rendano minimamente conto della rovina che un ventennio di regime, tre anni di guerra fascista e due di guerra civile hanno gettato sull’Italia. L’impressione è che pensino ancora una volta solo ed esclusivamente a loro stessi. Alla loro salvezza, al loro – continuamente sbandierato – “onore”». 

Ma l’onore di chi, poi, e di che cosa? Forse che perseverare ostinatamente nell’errore deve essere considerato un titolo di merito? Mi ha colpito, nei documenti prodotti dalla Resistenza in quel breve giro di mesi, l’insistenza continua sulla parola “patria”, una parola che di primo acchito non assoceresti alla lotta partigiana. Averla ceduta con troppa disinvoltura alla destra è stato un errore dei decenni successivi. Qui, invece, quasi ad ogni riga si percepisce il senso di una vergogna nazionale da riscattare e l’esigenza, anzitutto morale, di mostrare al mondo che c’era anche un’altra Italia che non era stata fascista, non si era piegata e aveva tenuto accesa una fiammella nell’oscurità scesa non dopo l’8 settembre, ma sin dal 28 ottobre 1922: perché è lì, con la connivenza del re e di tanti volenterosi collaborazionisti, che la patria, se non era morta, era andata in coma profondo. Andrebbe rispolverato questo patriottismo non muscolare, popolare ma non reazionario, intransigente nel chiedere anzitutto il meglio a se stessi e desideroso di corrispondere a quel deposito che custodisce quanto di grande la nostra storia e la nostra terra ci hanno consegnato, perché ne fossimo degni – tutto il contrario, cioè, del nazionalismo da vetrina di chi fa l’alzabandiera tutti i giorni, ma è assai indulgente sui nostri difetti e usa strumentalmente, spesso senza neanche conoscerli, i miti del passato per giocare solo a chi ce l’ha più lungo con gli inglesi o con i francesi. E tutto il contrario del nazionalismo narcisistico di Mussolini, che arrivò ad odiare gli italiani perché alla fine non avevano assecondato come lui avrebbe voluto le sue ambizioni personali. 

Disse Parri, in un discorso tenuto appena una settimana dopo la fine della guerra: «la vittoria ci ha procurato qualche cosa che è difficile dire, ha elevato la dignità personale a dignità nazionale ed ha provato, cosa più importante e capitale per noi, che essa è stata ottenuta non per congiure di corridoio ma è stata conquistata dal popolo, attraverso una sua guerra per la liberazione, una guerra di popolo che mi sembra, me lo confermino gli amici storici, la prima della nostra storia nazionale». Certo, come in tutte le vicende umane, anche qui ci sono stati opportunismi, errori e anche malefatte: il peggio che si può fare quando si vuole riconoscere un merito a qualcuno è dire che non ha macchie, perché non lo si rende credibile. Ma quell’impresa, pur se contraddittoria, ha indicato chiaramente una direzione concreta, non priva di rischi, tuttavia praticabile – che ha poi prodotto bene o male l’Italia che amiamo e che continueremo ad amare, in cui sono felice di essere nato, cresciuto e restato. «Questo popolo risanato dà garanzia che saprà difendere un bene che è costato tanto sangue. (…) Il cammino da percorrere è ancora lungo e duro; sarà pieno – certamente – anche di delusioni; ma quella che intendiamo battere è l’unica strada. Battiamola, vi garantisco che ne vale la pena e che se sapremo lavorare questo può essere l’inizio del nostro secondo Risorgimento». Gli farà eco, qualche anno dopo, Cadorna: «ricordando, amici, la storia della Resistenza, non abbiamo nulla da rivendicare, nulla da insegnare, nessun giudizio da chiedere. Ma i nuovi devono sapere quello che è stata l’Italia in un momento alto della sua storia; veramente, credo, il più alto nel quale questo popolo nostro è riuscito a organizzare un’insurrezione popolare e insieme nazionale. Ecco perché la storia di questo momento è così importante. (…) In realtà, ogni giorno, la storia di un popolo pone problemi nuovi ed ogni giorno ha una liberazione da compiere. (…) La sua storia [della Liberazione] è così importante perché educa a queste scelte». Ed è forse anche per questo che il 25 aprile, e solo il 25 aprile, quando parte la fanfara, mi vengono sempre i granet, pensando a quel che è stato fatto, a chi è caduto perché fosse fatto, e a quanto ancora (e tanto) resta da fare.

(finito il 9 giugno 2019)

Ho parlato di



Carlo Greppi
25 aprile 1945
(Laterza, 2019)

252 p. | 18 €

mercoledì 25 settembre 2019

La ragazza con la Leica

Ho già accennato al fatto che periodicamente sento il bisogno di rituffarmi nella Spagna della guerra civile. Le ragioni sono tante: perché fu un palcoscenico calcato da personaggi più straordinari di quelli che si potrebbero inventare degli sceneggiatori di professione; perché vi si scatenarono passioni non sempre condizionate dalla necessità, ma animate da fortissimi ideali; e anche – non da ultimo – perché finì male, monito perenne contro l’ingenuità di pensare che la buona causa basti a garantire la vittoria. Non credo, peraltro, di essere il solo a pensarla così, se è vero come è vero che quelle vicende continuano a suscitare l’interesse di coloro che i libri li scrivono e li leggono. Questo della Janeczek ha avuto anche i suoi quindici minuti di gloria, l’anno scorso, grazie alla vittoria allo Strega. Ed effettivamente la storia che racconta pare proprio una di quelle che cerco io: la vita spericolata e tragicamentre breve di Gerda Taro, che poi sarebbe una delle due metà celate dietro lo pseudonimo del fotoreporter Robert Capa, assunto poi definitivamente dal suo compagno d’arme, d’amore e d’avventura dopo la morte di lei, appena ventisettenne, in seguito a un incidente occorsole, appunto, durante la guerra civile spagnola. All’anagrafe si chiamavano in realtà lei Gerta Pohorylle, lui Endre Erno Friedmann, tedesca di origine polacca l’una, ungherese l’altro, comunisti entrambi, e per questo in fuga dai regimi nazifascisti dei rispettivi paesi, geniali nel comprendere quanto potesse essere utile alla causa il loro occhio e la loro macchina fotografica. 

“Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira?”: dai ricordi liceali affiora in esergo un Cavalcanti più che mai adatto a restituire il senso di queste pagine, di cui offro un piccolo campionario. «Era spiazzante, Gerda», «questa piccola donna che attrae tutti gli sguardi, questa incarnazione di eleganza, femminilità, coquetterie, di cui nessuno sospetterebbe mai che ragiona, sente e agisce come un uomo». «Era volubile e volitiva, un metro e mezzo di orgoglio e ambizione, senza i tacchi». «Era irrequieta nel suo modo naturale, sola e minuscola rispetto al flusso delle liceali, era l’autonomia fatta persona», «sempre reattiva e incoraggiante e, va da sé, circonfusa di chic e charme come una creatura di un mondo a parte». «Era la gioia di vivere. Qualcosa che esisteva, si rinnovava, accadeva ovunque» e che «non sarebbe mai rientrata negli schemi di nessuno». Ed è un peccato che «oggi nessuno sa più chi è Gerda Taro. Si è persa traccia persino del suo lavoro fotografico, perché Gerda era una compagna, una donna, una donna coraggiosa e libera, molto bella e molto libera, diciamo libera sotto ogni aspetto». Sì, se non lo si fosse capito, Gerda è il motivo per leggere questo libro. Ma forse è anche l’unico motivo. Come quegli attori che riescono con la loro interpretazione a rendere passabili film altrimenti mediocri, così la sbarazzina Gerda che ti fa l’occhiolino in copertina brilla di luce propria al cuore di un romanzo il cui merito è davvero solo quello di averla fatta conoscere ai distratti come me che prima di lei non sapevano nulla. A fine lettura, la sensazione è un po’ quella che si può provare dopo aver visto certe fiction di Rai Uno – quelle, per intenderci, giocate sui flashback e in cui tutta la parte inventata è superflua rispetto al reale vissuto - quando cioè ti chiedi: ok, e adesso dove devo andare a cercare per saperne davvero qualcosa? Mi chiedo se non fosse stato meglio tentare la strada della vera e propria biografia, tanto più che in italiano non ce ne sono. Insomma, non è che bisogna sempre far di tutta l’erba un romanzo, tanto più se si padroneggiano meglio altri registri. Non a caso le due sezioni più riuscite del libro sono il prologo e l’epilogo, in cui l’autrice riprende la propria voce e licenzia due gradevoli saggi che traggono spunto da alcuni ritratti dei due amanti e indagano il rocambolesco percorso cui quelle foto sono andate incontro dal momento del loro sviluppo sino al loro ritrovamento. Alla parte più propriamente narrativa manca, invece, oltre all’invenzione letteraria, quella profondità di sguardo che consente alla ricostruzione storica, sia pure filtrata romanzescamente, di diventare efficace strumento interpretativo, anziché un concentrato di rimandi con cui si vorrebbe ricostruire un ambiente ma che finisce spesso per risultare stucchevole e artefatto. 

Certo, c’è l’alibi narrativo per cui la storia è rievocata da tre persone che hanno conosciuto Gerda (due ne sono stati anche amanti o presunti tali, in fasi diverse della sua vita) e per i quali il ricordo di lei si mescola col ricordo della loro giovinezza fino a confondersi in un mito che la riduce un po’ a santino e annebbia la memoria («che è una forma di immaginazione», si ricorda quasi in chiusura). Ma più che una finezza, questa sembra una scappatoia per mantenersi sul vago e non impegnarsi in un autentico tentativo di decifrare, attraverso Gerda, quel che sono stati quegli anni. Per quanto un’idea chiara, comunque, venga fuori, e cioè che la rivoluzione deve anche essere divertente e non la si possa fare solo con i comizi e le riunioni di sezione, ma pure con la curiosità, una certa dose di impertinenza e forse pure di scemenza. «Se il comunismo al cinema è un po’ noioso, i reazionari vinceranno sempre». Gerda, al contrario, è un vulcano in eruzione, fedele alla linea, sì, ma capace anche «di non voltarsi indietro e, al tempo stesso, non rinnegare nulla». Se non fosse morta in Spagna, sarebbe stata perfettamente a suo agio – si dice – tra i tavolini di Via Veneto al tempo della Dolce Vita come lo era stata nei locali della Montparnasse degli anni ‘30. «Per Gerda, un mondo guarito dalla disuguaglianza avrebbe dovuto realizzare anche il diritto universale al superfluo». La buona battaglia ha, cioè, un che di leggero – ed assume perciò un valore esemplare che sia stato proprio un pesantissimo carro armato a squartare il corpicino esile di questa ragazza che usava la Leica contro il fascismo come un tempo Davide aveva usato la fionda contro Golia. In questo modo, «Gerda tracciava un possibile percorso per il fronte unitario della sinistra, spensierata per natura, speranzosa per principio». Siamo addirittura alle dichiarazioni programmatiche. Ma quando ti ritrovi a dover spiegare le barzellette è segno che probabilmente non le hai raccontate troppo bene.

(finito il 10 maggio 2019)

Ho parlato di



Helena Janeczek
La ragazza con la Leica
(Guanda, 2017)

336 p. | 18 €

martedì 10 settembre 2019

Serotonina

Ancora una volta – si è scritto all’uscita di Serotonina – Michel Houellebecq ha anticipato la realtà. Se il precedente Sottomissione aveva prefigurato una futuribile islamizzazione a una Francia ancora sotto shock per gli attacchi terroristici contro Charlie Hebdo, avvenuti solo pochi giorni prima della sua pubblicazione, dopo quattro anni eccolo tornare in libreria per raccontare di rivolte popolari e scontri di piazza proprio un attimo prima che cominciasse ad imperversare la protesta dei gilet gialli, cui allude espressamente la copertina scelta per l’edizione italiana (quella francese, va detto, è decisamente più sobria). Poco importa che si tratti di un giudizio almeno in parte avventato. Il riconoscimento di presunte capacità rabdomantiche arricchisce di ulteriori sfaccettature il mito maledetto che questo autore ha saputo creare finora intorno a sé soprattutto per non aver mai cercato di dissimulare le proprie idiosincrasie, tanto più quanto più potevano apparire sconvenienti alle persone morigerate e di buone maniere. Ed in effetti, anche se l’adozione della prima persona singolare non dovrebbe mai indurci nella tentazione di sovrapporre scrittore e personaggio, quando quest’ultimo dice «torniamo al mio argomento che sono io, non che sia particolarmente interessante ma è il mio argomento», non è poi così facile capire a quale “io” effettivamente si stia riferendo. Ma l’ambiguità è voluta, Houellebecq ci si trova a suo agio, qui come altrove, e lo schermo narrativo resta comunque sufficientemente solido per evitare che la ventriloquia risulti così smaccata da apparire poco credibile, per quanto il timbro vocale sia sempre facilmente riconoscibile e non ci si possa togliere del tutto l’impressione di leggere per lunghi tratti sempre la stessa storia, sia pure condita con pietanze diverse. Per questo, comprensibilmente, c’è chi lo adora e chi lo odia.

Il fantoccio costruito per l’occasione da Houellebecq si chiama Florent-Claude Labrouste, un uomo che alla rispettabile età di 46 anni sente l’esigenza di tracciare un bilancio esistenziale della sua vita e ci confessa perciò la propria personale versione dei fatti, presentandosi da subito come un fallito che non può incolpare altri che se stesso per i propri errori. Nauseato da ciò che è diventato e non avendo particolari problemi di denaro, decide semplicemente di sparire: si licenzia, vende casa senza dire nulla alla compagna che ha già deciso di lasciare, rinomina gli account, raccoglie tutti i suoi ricordi nello spazio sottile di un laptop e comincia ad alloggiare in una stanza d’albergo rigorosamente per fumatori, grosso modo vicino a Place d’Italie, nell’immenesa Parigi. Questa strana ascesi metropolitana, tuttavia, non migliora le cose. L’allentamento dei legami sociali, al contrario, lo porta a curare sempre meno la sua persona, al punto da spingerlo a consultare uno psichiatra, sia pure senza troppa convinzione. La diagnosi è fulminante nella sua semplicità e forse proprio per questo gli suona convincente: senza tanti arzigogoli, il paziente sta «molto semplicemente morendo di tristezza». «Una tristezza tranquilla – si dice in un altro punto – stabilizzata, non suscettibile di aumento ma neanche di diminuzione, insomma una tristezza che tutto avrebbe portato a ritenere definitiva». 

Per evitare conseguenze spiacevoli e insane, tipo ingollarsi il detersivo, facendosi solo molto male senza neppure uccidersi, in un sussulto di autoconservazione Florent accetta allora di cominciare un trattamento a base di Captorix, uno psicofarmaco che aumenta la secrezione di serotonina, noto ai più come il cosiddetto ormone della felicità. In realtà, questa pasticca «non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo, la sua azione è di tipo diverso: trasformando la vita in una serie di formalità, permette di raggirare. Pertanto aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo». Di qui in poi, infatti, non è che un semplice trascinarsi avanti, in attesa di quel gesto estremo sempre evocato ma mai praticato. «Il mondo si era trasformato in una superficie neutra, senza rilievo e senza fascino»; d’ora in avanti, la sua vita «si sarebbe riassunta in quello: scusarmi per il disturbo». Se si è in cerca di efficaci descrizioni di una «estenuante e dolorosa prostrazione», di un logorante spleen senza più ideale, questo libro ne è pieno. «Passai il resto della giornata a camminare sul sentiero litoraneo, in un silenzio ovattato, assoluto, passando da un banco di nebbia all’altro, senza mai vedere l’oceano a pochi passi sotto di me; la mia vita mi sembrava informe e incerta come il paesaggio». 

Il Captorix, però, ha una controindicazione non proprio irrilevante, soprattutto per il nostro eroe, ossia la totale scomparsa del desiderio sessuale. É proprio questa presa di coscienza che lo induce a dare al suo bilancio la forma di un pellegrinaggio sulle orme delle donne che hanno avuto un posto importante nella sua vita. Detto in houellebecquese suona così: «nello stesso modo, stavo probabilmente cercando, su scala più ridotta ma che poteva fungere da allenamento, di organizzare un minicerimoniale di addio intorno alla mia libido, o, per parlare più concretamente, intorno al mio cazzo nel momento in cui mi segnalava di essere in procinto di smobilitare; volevo rivedere tutte le donne che l’avevano onorato, che l’avevano amato a modo loro». 

La ragione per cui questa onanistica desolazione assume un rilievo anche politico risiede nel percorso umano e professionale di Florent, in cui traspare qualcosa in più che il turbamento di mezza età del maschio occidentale. Fra le persone che si propone di reincontrare, infatti, c’è anche un amico, anzi l’unico amico che abbia mai avuto, un compagno di studi con cui ha condiviso i sogni di gloria ai tempi dell’università, ma da cui lo separa il diverso percorso intrapreso dopo la comune laurea in agraria. Mentre lui, Florent, è diventato consulente del ministero dell’Agricoltura con l’incarico di dedicarsi in particolare alla tutela e alla salvaguardia dei prodotti tipici del territorio francese, l’altro, Aymeric - che di cognome fa d’Harcourt-Olonde e ha sangue blu nelle vene - ha investito tutti i propri denari nelle terre che la sua famiglia possiede in Normandia sin dai tempi di Guglielmo il Conquistatore per impiantarvi un’azienda agricola biologica finalizzata all’allevamento bovino e alla produzione di latte e formaggi di qualità. Il primo, in teoria, sarebbe pagato per difendere il secondo, ma di fatto diventa un burocrate che contribuisce alle politiche di distruzione dell’agricoltura nazionale, mentre l’altro si spreme in uno sforzo eroico quanto vano di resistere alla forza inesorabile del mercato globale. «Più cerco di fare le cose correttamente, meno riesco a cavarmela», gli aveva confidato tempo addietro, nell’unica rimpatriata che i due si erano concessi dopo essersi persi di vista – e già allora Florent aveva capito che, nonostante tutte le sue buone intenzioni, l’amico era praticamente spacciato. Quando lo rivede, dopo aver lui stesso gettato la spugna, lo ritrova distrutto, abbandonato dalla moglie per «l’ennesimo finocchio londinese» (che l’ha sedotta incantandola al pianoforte), traboccante di frustrazione. Mio padre – constata – «non ha mai fatto niente di utile in tutta la sua vita (...) e ha lasciato intatto il patrimonio degli Harcourt. Io invece cerco di metter su qualcosa, mi ammazzo di lavoro, mi alzo ogni giorno alle cinque, passo le mie serate a fare conti – e il risultato, alla fin fine, è che impoverisco la famiglia...». Dissanguato progressivamente dalle perdite, Aymeric è costretto a cedere particella per particella gran parte dei suoi possedimenti ad acquirenti stranieri, in quella che appare come una vera e propria svendita del suolo patrio. Tutto questo è grasso che cola per l’ideologia rosso-bruna: i mali della globalizzazione, le quote latte, la concorrenza sleale dei paesi asiatici e sudamericani, i tecnocrati di Bruxelles, l’attaccamento alle radici… A un certo punto il tappo salta e ritroviamo Aymeric sulle barricate, a cercare la bella morte come i suoi blasonati antenati alle crociate. «Morire con le armi in pugno per proteggere i contadini francesi, (…) questa era sempre stata la missione della nobiltà», commenta Florent-Houellebecq, che anche in altri punti si lascia prendere da un moto di nostalgia per una società gerarchica in cui i facchini sostenevano i bagagli dei signori, ma almeno non c’era la disoccupazione introdotta dal libero mercato. 

Tutto questo c’è, indubbiamente – ed offre spunti di riflessione che meritano di essere raccolti, al di là delle provocazioni. Ma è veramente questo il focus del romanzo o non è piuttosto una forma di depistaggio? Su quel piano, sembra dire Houellebecq, la partita è definitivamente persa. Per l’Occidente giudeo-cristiano il terzo millennio appena cominciato è «il millennio di troppo, nello stesso senso in cui per i pugili si parla del combattimento di troppo». Tutto è compiuto, requiescat in pace, amen. E tuttavia in questa tenebra senza speranza non sono impossibili momenti di non trascurabile felicità. Florent lo sa, li ha vissuti: avrebbe potuto aggrapparsi a uno di essi, tenerselo stretto e difenderlo con tutto se stesso, ma non è stato capace di farlo, neanche lui sa perché. Questa felicità possibile ha un nome antico e banale quanto la più vecchia delle barzellette: «il mondo esterno era duro, spietato con i deboli, non manteneva quasi mai le promesse», ma «l’amore restava l’unica cosa in cui si potesse ancora, forse, avere fiducia». Altro che Captorix, «non credo di ingannarmi paragonando l’amore a una sorta di sogno a due, certo con brevi momenti di sogno individuale, piccoli giochi di congiunzioni e incroci, ma che comunque permette di trasformare la nostra esistenza terrena in un momento sopportabile – ed è anche, a dire il vero, l’unico modo per riuscirci». Curiosamente Kurt Vonnegut, in Madre notte, ha parole simili e altrettanto belle: «buon Dio… quando i giovani diventano interpreti di tragedie politiche che mettono in scena milioni di personaggi, un amore senza riserve è l’unico vero tesoro a cui possiamo aspirare. Das Reich der Zwei, lo stato di due persone… il suo territorio, un territorio che la mia Helga e io difendevamo tanto gelosamente, non si spingeva molto più in là dei confini del nostro grande letto a due piazze». Ma Houellebecq non si accontenta: scomoda i pesi massimi, Mann e Proust, per concludere quasi vergognosamente che alla fine della fiera la puoi girare come vuoi, ammantarla di paroloni o disperderla in romanzi-fiume, ma la verità è che è solo di questo che noi abbiamo unicamente bisogno. 

Perciò, dopo aver denunciato Dio come «uno sceneggiatore mediocre», perché «nella sua creazione non c’è niente che non abbia il segno dell’approssimazione e dell’insuccesso, quando non quello della cattiveria pura e semplice», ecco la sorprendente rivelazione finale: «in realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante, e a volte ci dà direttive molto precise. Questi slanci d’amore che affluiscono nei nostri petti fino a mozzarci il fiato, queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica, il nostro statuto di semplici primati, sono segni estremamente chiari. E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito? Parrebbe di sì». É però una rivelazione inutile, perché Florent, come tutti quelli che ha in mente Houellebecq, non ci crede più. «Avevo appena capito che era finita, (...) che non sarei riuscito ad alterare il corso delle cose, che i meccanismi dell’infelicità erano più forti, che non avrei mai ritrovato Camille e che saremmo morti soli, infelici e soli, ognuno per conto suo». Ma non si può cancellare la sensazione che dopotutto questo non sia altro che un fottutissimo, malato, disperato, ostinato inno all’amore. 

(finito il 14 marzo 2019)

Ho parlato di


Michel Houellebecq
Serotonina
(La Nave di Teseo, 2019)

trad. di V. Vega

332 pp. | 19 €

(ed. or. Serotonine, Paris 2019)