«Tu che un semplice hai oltraggiato / ridendo sguaiato sulla sua sorte / (….) Sicuro non ti sentire. Il poeta ricorda». Sono versi di Czeslaw Milosz, Nobel polacco per la letteratura nel 1980, che Olivier Guez pone in esergo al suo libro come per chiarire sin dall’inizio, prendendola persin troppo alta, uno dei compiti che apparentemente si è dato scrivendolo – quello cioè di Erinni laica, la cui opera serva a ridestare l’infamia sul nome di uno dei peggiori scherani del Reich, scampato al verdetto della giustizia e forse anche all’angoscia del rimorso, ma non alla catastrofe di una vita buttata, come ricorda una seconda citazione, questa volta di Kierkegaard, secondo cui «il castigo corrisponde alla colpa: essere privati di ogni gioia di vivere, essere portati al grado estremo di disgusto per la vita». In realtà la patetica esistenza da braccato condotta da Mengele in Sud America dopo la guerra, simile a quella del ramingo Caino, non è minimamente comparabile neanche a un minuto del dolore scientificamente inflitto dal suo bisturi ad Auschwitz. Ma, del resto, il godimento rassicurante e catartico di vedere in qualche modo il malvagio punito mi sembra altrettanto morboso dell’entusiasmo con cui Tertulliano prospettava ai futuri beati lo spettacolo dei tormenti infernali contemplato in paradisescope dall’alto dei cieli.
Meglio allora leggere questo libro come un reportage, perché di ciò sostanzialmente si tratta, scritto interamente al presente storico e con tanto di corposa bibliografia - un esempio perfetto di docufiction, in cui il materiale storiograficamente accertato è integrato, per le zone d’ombra, con invenzioni poetiche che, fin dove è possibile, provano a dare un senso agli eventi (l’autore è anche sceneggiatore, e si vede). Io, per esempio, ho scoperto qualcosa in più sull’Argentina peronista e sulla benevola accoglienza da essa riservata ai fuggiaschi nazisti: «Peron diventa il grande straccivendolo. Fruga nelle pattumiere d’Europa, intraprende una gigantesca operazione di riciclaggio: governerà la storia con la spazzatura della storia». Buenos Aires appare all’inizio degli anni ‘50 come la capitale occulta di un Quarto Reich di relitti che si ritrovano insieme per ascoltare Wagner e Strauss o per scambiarsi medagliette di Dürer come segno di affiliazione, agognando il ritorno in Germania non appena le acque si saranno calmate e sarà caduto il governo di “rabbi Adenauer”, servo dell’America e del complotto sionista globale, a cui questi irriducibili vittimisti continuano a credere. D’altronde, «se il pianeta non si fosse coalizzato contro la Germania il nazismo sarebbe ancora al potere». Animati da una «visione predatoria e angosciata del mondo», in cui «tutto è lotta: solo i migliori sopravvivono», non riescono neppure a concepire l’idea di essere loro, gli sconfitti senza riscatto a cui la storia questa volta presenta il conto. Niente da fare: la mentalità totalitaria finisce sempre per evocare una pugnalata alle spalle.
Ma l’ora della rivalsa non arriva. «Alla nostalgia nazista i tedeschi preferiscono le vacanze in Italia. Lo stesso opportunismo che li ha indotti a servire il Reich li spinge ad abbracciare la democrazia». Di più, dopo la cattura di Eichmann, anche lui gradito ospite in Argentina, l’orrore che per un po’ era stato rimosso torna prepotentemente sulla scena – e non lo si potrà più minimizzare o derubricare a danno collaterale (e in questo senso il libro è anche un capitolo di una più ampia storia della progressiva presa di coscienza di cos’era stata la soluzione finale). É lo stesso Eichmann a togliere ogni alibi. Curioso destino, quello dei due camerati che lo intervistano perché sinceramente convinti di poterci ricavare un libro con cui respingere una volta per tutte l’immonda messinscena dei lager messa in piedi dagli ebrei, e ai quali Eichmann, con la fierezza di chi crede di aver compiuto una missione storica (posa ben diversa da quella dimessa adottata al processo), «conferma le proporzioni dello sterminio, descrive nei particolari le uccisioni di massa, le camere a gas, i forni crematori, i lavori forzati, le marce della morte, le carestie». I due «agnellini (…) credevano che il nazismo fosse puro», ma restano scossi da quella cifra - sei milioni: siamo stati davvero bravi no? - e si tirano indietro.
É a questo punto che, anche per Mengele, la vita diventa più amara. Man mano che la memorialistica sulla Shoah si fa più dettagliata e si fa più decisa la caccia ai responsabili, intorno a lui si addensa una raccapricciante leggenda nera, cui si aggiunge anche quella, costruita in gran parte dai giornalisti, «di un supercattivo inafferrabile come Goldfinger, un’incarnazione pop del male, invincibile, ricchissimo e astuto, che semina i suoi inseguitori ed esce indenne dalle situazioni più pericolose, senza un graffio». Poco importa che la sua vita scorra invece piuttosto pigramente, nonostante l'ansia suscitata dal pensiero di una possibile cattura, in una fazenda brasiliana, dov'è coccolato da una rete di collaborazionisti: a metà anni ‘60 «il dottor Mengele diventa un marchio che solo a nominarlo gela il sangue e gonfia le tirature di libri e riviste: l’archetipo del nazista freddo e sadico, un mostro». Prigioniero soprattutto del proprio egocentrismo, Mengele comincia a vomitare tutto il suo rancore su quelli che, non meno colpevoli di lui, l’hanno scampata. «Ad Auschwitz i grandi gruppi tedeschi si sono riempiti le tasche sfruttando fino allo stremo delle forze la manodopera schiava a loro disposizione. Auschwitz, un’azienda redditizia» per società come la IG Farben o la Topf di Wiesbaden di cui parla Primo Levi ne I sommersi e i salvati. «Lavorando in stretta collaborazione ad Auschwitz, industrie, banche e organismi governativi ne hanno ricavato profitti enormi; lui, che non si è arricchito di uno pfenning, deve essere l’unico a pagare»? Alle volte qualcuno solleva la questione per muovere a compassione verso questi reietti, ma si tratta di un argomento capzioso, che semmai dovrebbe suscitare dubbi sui presunti incensurati.
Anche Guez mi pare condivida l’idea che Mengele non sia stato quel satanico genio del male che la pubblicistica spesso dipinge, ma più semplicemente – e la cosa è in realtà più inquietante – «un uomo senza scrupoli, dall’anima blindata, che ha risposto alle sollecitazioni di un’ideologia velenosa e mortifera in una società sconvolta dall’irrompere della modernità. Quell’ideologia non stenta a sedurre il giovane medico ambizioso, a sfruttare colpevolmente le sue mediocri propensioni, la vanità, la gelosia, il denaro, fino a spingerlo a commettere crimini abietti e a giustificarli». Convinto di meritarsi tanto dalla vita, quel giovane dottore che in altri tempi sarebbe diventato magari solo un borioso ricercatore universitario, trova invece un contesto entro cui dare soddisfazione alle proprie ambizioni nel progetto eugenetico nazista – «guarire il popolo, purificare la razza, costruire un ordine sociale conforme alla natura, ampliare lo spazio vitale, perfezionare la specie umana» - e tanto peggio per gli altri. Esattamente come avviene, per ora su scala ridotta, con i tanti ceffi senz’arte né parte che stanno approfittando dello sdoganamento dell’odio per ritagliarsi il proprio quarto d’ora di celebrità con le loro intemerate meschine e infantili: quell’umanità fragile ma rabbiosa, che vorrebbe curare tutti tranne che se stessa, e che gli apprendisti stregoni del populismo continuano a solleticare pensando di riuscire sempre e comunque a gestirla. Oggi sappiamo che Mengele è morto, anche grazie alla prova del DNA, ma – e almeno su questo il libro mente – a quanto pare non è mai scomparso davvero.
(finito il 4 giugno 2019)
Ho parlato di
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Olivier Guez
La scomparsa di Josef Mengele
(Neri Pozza, 2018)
trad. di M. Botto
204 pp. | 16,50 €
(ed. or.: La Disparition de Josef Mengele, 2017)
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