domenica 7 ottobre 2018

Dal Nuovo Mondo all'America

Un manuale è quel tipico genere di libro che quando te lo fanno leggere, all'università, tendenzialmente non lo puoi capire (troppo compresso: in pratica ti pieghi a dei dogmi) e quando finalmente lo puoi capire, di solito non ti serve più (troppo superficiale: ormai sai già tutto quello che di essenziale c’è da sapere sull’argomento). Io, però, che sono ostinatamente metodico e pedante, quando sintonizzo le antenne su un certo argomento, tendo comunque a ripartire sempre dai fondamenti, e di testi così ne ho perciò mandati giù e ne mando ancora giù a palate, con la controindicazione non proprio irrilevante di ritardare, talora, la lettura di cose più interessanti, ma anche più peculiari. Così, non appena ho cominciato a immaginare un corso dedicato al confronto tra europei e americani agli albori dell’età moderna, la prima cosa che ho fatto è stata appunto quella di ordinare un agile volumetto di sintesi, per avere fra le mani il mio aggiornato status quaestionis e non correre il rischio di divulgare palesi castronerie, che è poi uno dei rischi della specializzazione (quante volte, passando da un’aula all'altra, scoprivi che molti illustri cattedratici, negli ambiti non di loro stretta competenza erano spesso rimasti fermi alle conoscenze acquisite quand'erano a loro volta studenti e adesso, passati trenta o quarant’anni, su certi temi ne sapevano meno di te che eri semplicemente stato attento alla lezione dell’ora precedente). E poi sono all'antica, non riesco a farne a meno: prima di parlare, mi documento. Una collana intitolata “Aulamagna” è quello che ci vuole – ed in effetti, in tre sezioni declinate in forma verbale (“Scoprire, esplorare, rappresentare”, “Conquistare, governare”, “Conoscere, descrivere, disputare”), sono qui riportati tutti i nomi e tutte le date che servono allo scopo.

Sarebbe però ingeneroso presentare questo testo come un mero bignamino. Ciò che Donattini traccia, in modo intelligente, è in effetti un perimetro delle svariate questioni che girano intorno a quelle che oggi magari ci vergognamo un po’ a chiamare ancora “scoperte geografiche” (perchè si è capito che i nativi sapevano di esserci, senza bisogno che arrivassimo noi a “scoprirli”), ma di cui si è tornati a sottolineare con forza, da un po’ di tempo a questa parte, l'assoluta centralità in ogni discorso che abbia a che fare con la modernità, sia dal punto di vista socio-economico, sia dal punto di vista culturale. A patto che si riconosca – ed è questa una delle idee-chiave del volume – la «reciprocità del cambiamento». Il contatto tra Vecchio e Nuovo Mondo, se fu devastante sul piano anzitutto materiale per quest’ultimo, si rivelò non meno shockante per il primo, costretto a ripensare dal profondo la propria identità e a rimettere in gioco molti dei propri presupposti (la comune derivazione da Adamo, per dire, ma anche l'ipotesi di possibili abitanti su altri pianeti), avviando quello che un altro storico ha definito la “fase di rullaggio” necessaria per il decollo industriale. Insomma, senza Colombo e senza Vespucci non solo non avremmo avuto Galileo e Cartesio, ma neanche Watt – e lì in mezzo, nel ruolo di voce della coscienza, più che Erasmo o Voltaire, il buon Montaigne.

La cosiddetta “scoperta” non va dunque intesa come un fatto puntuale, né unilaterale, e tanto meno come l’occasione per operare un semplice travaso di valori europei sulla vergine terra americana, ma si trattò di «un percorso mentale ricco e complesso, nel corso del quale lo scopritore giunge ad attribuire un senso alla realtà ritrovata, tale da integrarla nella sua visione complessiva del mondo: percorso che richiede un arco di tempo lungo per sistematizzare i propri risultati; nel caso dell’America, quasi due secoli...». Il risultato fu, in un primo momento, una ridefinizione dei rapporti di forza a livello planetario. D’altronde, lo slancio coloniale fu messo in moto da un desiderio di sottrarsi a una marginalità su cui agivano ancora le potenti mitologie medievali della reconquista ma anche, e soprattutto, la febbre mercantile di far fruttare il più possibile i propri investimenti (con buona pace di Max Weber, sembra che i banchieri fiorentini abbiano giocato un ruolo quantomeno analogo a quello svolto qualche tempo dopo dai loro colleghi puritani nel tessere la tela del capitale sull’intero globo terracqueo). Non è un caso che ormai tutti i libri di storia del liceo dedichino delle pagine all’ammiraglio cinese Zheng He e al perché le sue giunche non siano sbarcate a Lisbona prima che i portoghesi arrivassero a Calicut: nel momento in cui si comprende che la conquista dell’America non fu solo il «punto di partenza (...) di molte e complicate storie», ma anche il «punto d’arrivo di altre storie, molteplici e complicate a loro volta», si è capito che la storia d’Europa non può essere più raccontata senza considerarla congiuntamente a quella del resto del mondo. E se questo è già vero prima di Colombo, «dopo l’incontro nulla resta uguale a prima. Sul suolo americano piante, idee e uomini (americani ed europei), si confondono in una storia di meticciato progressivo, dagli esiti imprevedibili». Parlare dell’America del XVI secolo è allora come parlare del mondo odierno: con il vantaggio, però, che la prospettiva storica ci può rieducare a chiamare col loro vero nome ciò per cui oggi usiamo invece delle perifrasi edulcorate, per sedare la coscienza e occultare l’evidenza che non c’è problema che non sia globale e che non richieda soluzioni di carattere globale.

(finito il 6 luglio 2018)

Ho parlato di


Massimo Donattini
Dal Nuovo Mondo all'America.
Scoperte geografiche e colonialismo (secoli XV-XVI)
(Carocci, 2017)

208 pp. | 12 €

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