Appartengo a una generazione che, pur essendosi sbarazzata senza troppi rimpianti della piccola vedetta lombarda, ha ancora fatto in tempo a mandare a memoria, alle elementari, i versi del Giuramento di Pontida e della Spigolatrice di Sapri – gettonatissima, tra l’altro, all’esame di quinta per il suo incedere cantilenante e facilmente assimilabile (“eran trecento eran giovani e fooorti e sono moooorti”...). Attraverso questo filtro, il Risorgimento mi è apparso a lungo come una sorta di teatrino polveroso, paludato e involontariamente comico, aneddotico più o meno come le imprese dei sette re di Roma. C’è voluto il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, a suo tempo, per indurmi a riaprire il faldone e provare a capirne un po’ di più. Il materiale narrativo e saggistico non mancava. Per dire, anche se l’ho letta ora, fu proprio in vista di quell’anniversario che Villari scrisse questa sintesi militante, allo scopo di anticipare i distinguo e i “si però” della pubblicistica antirisorgimentale che – s’immaginava – sarebbe stata prodotta per affermare quanto si stesse meglio quando si stava sotto l’Austria e i Borbone (e poi i briganti e la tassa sul macinato e la rivoluzione senza popolo eccetera eccetera eccetera). Quando, però, il 2011 arrivò per davvero, le discussioni storiografiche sul significato storico dell’indipendenza, se ci furono, rimasero come strozzate in gola di fronte al pericolo concreto che quell’indipendenza esaurisse ingloriosamente il suo ciclo sotto forma di bancarotta e commissariamento, quel mambo sull’orlo del precipizio che fece da preludio al governo Monti.
Non so cosa Villari abbia pensato di quella svolta politica, ma c’è un punto, nell’introduzione, che col senno di poi, può aiutare a capire perché valga la pena continuare a misurarci con gli uomini che fecero l’Italia. Costoro, scrive, «sono maturati all’interno di un sistema conservatore e di interdizioni religiose e culturali. Con un’angoscia di fondo: che l’Italia rischiasse di perdersi per sempre. (...) Bisognava reagire. Ora o mai più». Come sarebbe accaduto nel 1943 (si noti: nell’un caso come nell’altro, grazie al contributo essenziale di tanti giovani e giovanissimi). Come probabilmente non è accaduto fino in fondo nel 1992-1993, al principio di una parabola forse ancora in corso (questo sosteneva, tra gli altri, Paul Ginsborg in un libretto ancor più militante uscito sempre per il centocinquantenario, Salviamo l’Italia, letto a suo tempo). C’è qui la rivendicazione di una distinzione netta tra amor di patria e acritico nazionalismo, nella misura in cui il disgusto per ciò che si è diventati o si rischia di diventare, se prevalgono amorali e intolleranti, ronde padane, pompieri piromani, caporali di Rosarno, finanzieri youtubers, trasformisti del 2%, furbetti del cartellino, e chi più ne ha più ne metta, anziché annacquarsi nel cinico autocompiacimento del “siamo fatti così, rossi, neri, tutti uguali” per cui ci meriteremmo Alberto Sordi, diventi invece un motivo sufficientemente potente per sbloccare la molla del riscatto (in fondo gli americani che si sono ritrovati Trump alla Casa Bianca mica bruciano le loro bandiere in cortile, ma cercano di mostrare che esiste anche un’altra America, qualunque cosa se ne pensi).
«La nausea è stata dunque, tra tanti altri, quel prezioso stato interno che ha segnato anche emotivamente la differenziazione ideale da sistemi di governo anacronistici e grotteschi. E, oltre ogni retorica, il patriottismo risorgimentale è stato alimentato, non solo per via letteraria, da emozioni come questa. Una somatizzazione politica, individuale e collettiva, sempre utile, comunque, in eventuali, analoghe repliche della storia». Verrebbe da pensare: in età di nuove “primavere”, di conflitti globali e di risposte spesso miopi, inadeguate, quando non apertamente disumane. Solo che nell’Ottocento non ci si fermò ai vaffa-day (pur non mancando proteste vagamente situazioniste, come lo sciopero del fumo nella Milano di Radetzky). Di questo libro piace appunto l’insistenza sul carattere pensato, persino poetico, del Risorgimento, per cui strategie politiche spesso incaute erano comunque sorrette dalla riflessione di intelligenze preparate e cosmopolite, che diedero il loro contributo «in idee armate più che in armi», parlando magari di agricoltura, letteratura, tecnologia o sviluppo economico sulle tantissime gazzette attecchite nelle aiuole garantite dalla limitata libertà di stampa. Si usavano ancora i torchi anziché i tweet, ma era ben chiaro l’intento di fare della circolazione delle idee un barricata contro i dispotismi (nel marzo 1848 il quotidiano “L’Alba” di Firenze pubblicava una lettera aperta del giovane Marx in cui si proponeva appunto una collaborazione con la “Neue Rheinische Zeitung”).
E a tal proposito, piace ancor di più il respiro europeo, la volontà di sprovincializzare l’esperienza risorgimentale, senza rinnegare l’originalità soprattutto del suo precipitato finale, per agganciarla a coeve esperienze internazionali, nel segno di una battaglia comune che si poteva combattere a Roma come in Grecia, a Parigi come in Polonia, in un’Europa disseminata di esuli. Nella consapevolezza che nulla fosse scontato e che la transizione alla modernità – perché è di questo, poi, che si parla – sarebbe potuta avvenire in molti modi, come progressiva estensione delle libertà e dell’inclusione sociale, sì, ma anche sotto forma di paternale e reazionario bonapartismo – o persino di “borbonismo”, i cui esponenti «ritenevano non necessarie alla società le persone istruite, tranne, dicevano, i medici per curare gli ammalati e gli ingegneri per costruire le case». «E veramente la modernità dell’Italia del Risorgimento risiede nelle sue ascendenze culturali più che nel patriottismo armato, nella controversa idea di nazione e nei programmi politici e costituzionali dei suoi sostenitori. É la modernità dell’Illuminismo europeo, del razionalismo filosofico e della scoperta della libertà come strumento di opposizione e come “mezzo” del cambiamento, delle innovazioni, delle rivoluzioni, di conquista di un valore essenziale, la giustizia». Disegno da portare ancora, e forse sempre, a compimento.
Non so cosa Villari abbia pensato di quella svolta politica, ma c’è un punto, nell’introduzione, che col senno di poi, può aiutare a capire perché valga la pena continuare a misurarci con gli uomini che fecero l’Italia. Costoro, scrive, «sono maturati all’interno di un sistema conservatore e di interdizioni religiose e culturali. Con un’angoscia di fondo: che l’Italia rischiasse di perdersi per sempre. (...) Bisognava reagire. Ora o mai più». Come sarebbe accaduto nel 1943 (si noti: nell’un caso come nell’altro, grazie al contributo essenziale di tanti giovani e giovanissimi). Come probabilmente non è accaduto fino in fondo nel 1992-1993, al principio di una parabola forse ancora in corso (questo sosteneva, tra gli altri, Paul Ginsborg in un libretto ancor più militante uscito sempre per il centocinquantenario, Salviamo l’Italia, letto a suo tempo). C’è qui la rivendicazione di una distinzione netta tra amor di patria e acritico nazionalismo, nella misura in cui il disgusto per ciò che si è diventati o si rischia di diventare, se prevalgono amorali e intolleranti, ronde padane, pompieri piromani, caporali di Rosarno, finanzieri youtubers, trasformisti del 2%, furbetti del cartellino, e chi più ne ha più ne metta, anziché annacquarsi nel cinico autocompiacimento del “siamo fatti così, rossi, neri, tutti uguali” per cui ci meriteremmo Alberto Sordi, diventi invece un motivo sufficientemente potente per sbloccare la molla del riscatto (in fondo gli americani che si sono ritrovati Trump alla Casa Bianca mica bruciano le loro bandiere in cortile, ma cercano di mostrare che esiste anche un’altra America, qualunque cosa se ne pensi).
«La nausea è stata dunque, tra tanti altri, quel prezioso stato interno che ha segnato anche emotivamente la differenziazione ideale da sistemi di governo anacronistici e grotteschi. E, oltre ogni retorica, il patriottismo risorgimentale è stato alimentato, non solo per via letteraria, da emozioni come questa. Una somatizzazione politica, individuale e collettiva, sempre utile, comunque, in eventuali, analoghe repliche della storia». Verrebbe da pensare: in età di nuove “primavere”, di conflitti globali e di risposte spesso miopi, inadeguate, quando non apertamente disumane. Solo che nell’Ottocento non ci si fermò ai vaffa-day (pur non mancando proteste vagamente situazioniste, come lo sciopero del fumo nella Milano di Radetzky). Di questo libro piace appunto l’insistenza sul carattere pensato, persino poetico, del Risorgimento, per cui strategie politiche spesso incaute erano comunque sorrette dalla riflessione di intelligenze preparate e cosmopolite, che diedero il loro contributo «in idee armate più che in armi», parlando magari di agricoltura, letteratura, tecnologia o sviluppo economico sulle tantissime gazzette attecchite nelle aiuole garantite dalla limitata libertà di stampa. Si usavano ancora i torchi anziché i tweet, ma era ben chiaro l’intento di fare della circolazione delle idee un barricata contro i dispotismi (nel marzo 1848 il quotidiano “L’Alba” di Firenze pubblicava una lettera aperta del giovane Marx in cui si proponeva appunto una collaborazione con la “Neue Rheinische Zeitung”).
E a tal proposito, piace ancor di più il respiro europeo, la volontà di sprovincializzare l’esperienza risorgimentale, senza rinnegare l’originalità soprattutto del suo precipitato finale, per agganciarla a coeve esperienze internazionali, nel segno di una battaglia comune che si poteva combattere a Roma come in Grecia, a Parigi come in Polonia, in un’Europa disseminata di esuli. Nella consapevolezza che nulla fosse scontato e che la transizione alla modernità – perché è di questo, poi, che si parla – sarebbe potuta avvenire in molti modi, come progressiva estensione delle libertà e dell’inclusione sociale, sì, ma anche sotto forma di paternale e reazionario bonapartismo – o persino di “borbonismo”, i cui esponenti «ritenevano non necessarie alla società le persone istruite, tranne, dicevano, i medici per curare gli ammalati e gli ingegneri per costruire le case». «E veramente la modernità dell’Italia del Risorgimento risiede nelle sue ascendenze culturali più che nel patriottismo armato, nella controversa idea di nazione e nei programmi politici e costituzionali dei suoi sostenitori. É la modernità dell’Illuminismo europeo, del razionalismo filosofico e della scoperta della libertà come strumento di opposizione e come “mezzo” del cambiamento, delle innovazioni, delle rivoluzioni, di conquista di un valore essenziale, la giustizia». Disegno da portare ancora, e forse sempre, a compimento.
(finito il 3 giugno 2017)
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