Prendiamo una giornata di inizio ‘900. Per quel che ne sappiamo – non mi pare che indizi interni lo smentiscano – potrebbe tranquillamente essere la stessa in cui Leopold Bloom se ne va a zonzo per Dublino. Solo che qui siamo a Vienna, e a guidarci tra il Liechtensteinpark e i caffé del Graben è lo stralunato Stanislaus Demba, personaggio «misero, ridicolo e terribile al tempo stesso» su cui da subito aleggia come l’alone di una qualche misteriosa maledizione. Il titolo stesso del libro, se da un lato ci fornisce la precisa scansione temporale dell’azione, che si sviluppa appunto tra i nove rintocchi del mattino e i nove della sera, dall’altro ce ne suggerisce il ritmo incalzante e angosciante al tempo stesso, proprio come un countdown avviato verso l’ora x in cui gli incantesimi svaniscono e i nodi vengono al pettine. Tra un estremo e l’altro, una carrellata di quadretti satirici della varia umanità soggetta a Francesco Giuseppe negli ultimi giorni degli Asburgo. Proiettate certe gag vorticose e amare tipiche del cinema muto (Charlot nella baita che si mangia le scarpe chiodate, per intenderci) su uno sfondo allucinato e vagamente fiabesco (tipo la storia di Peter Schlemihl che vende al diavolo la propria ombra) e avrete, se possibile, un’idea di quel che vi offrirà questa lettura.
La finis Austriae viene infatti ritratta con gli occhi di chi è nato e cresciuto nella Praga magica, capitale rimossa dell’Impero, che preme ai confini della realtà per riassorbirla nella sua aura metamorfica. Quell’atmosfera lì, un po’ sognante, Leo Perutz ce l’ha nell’anima (e ad essa ha dedicato un libro stupendo, Di notte sotto il ponte di pietra, dove ci stanno Keplero, il ghetto, Rodolfo II, la Montagna Bianca, il Golem e tutto il resto). É la stessa aria che respirava Kafka, di cui Perutz è praticamente coetaneo – e in un certo senso la parabola di Demba presenta qualche affinità con le vicissitudini che il povero Josef K. sperimenta con la giustizia, sebbene il nostro Stanislaus la coscienza non ce l’abbia proprio del tutto pulita: non ha resistito, infatti, alla tentazione, comprensibilissima per noi bibliofili, di tenersi un libro raro preso in prestito in università – un’edizione seicentesca di Calpurnio Siculo corredata di meravigliose xilografie. «Gente di regola molto retta e onesta in questo modo si fa una biblioteca», ma la sua vera colpa è stata il tentativo di rivenderla presso un antiquario quando è rimasto a corto di corone (il suo profilo è quello del classico studente-precettore in rotta con un mondo borghese indifferente ai suoi presunti talenti intellettuali e per questo vittima di manie di persecuzione). Scoperto, si ritrova intrappolato in un meccanismo micidiale che gli si stringe intorno senza pietà, schiacciandolo poco per volta nonostante i suoi tentativi (spesso farseschi) di divincolarsene e la sua protesta velleitaria quanto visionaria: «che l’umanità abbia il potere di castigare, è questa la causa di tutta l’arretratezza spirituale. Non ci fossero castighi, si sarebbero già da tempo trovati i mezzi per rendere i crimini impossibili, superflui e inutili».
Si intrecciano come due spirali intorno al protagonista. Una è quella sociale, per cui Demba, abbottonatissimo nel suo soprabito e portatore di un segreto inconfessabile, viene di volta in volta rivestito dalle immaginazioni dei suoi vicini, che lo etichettano ora in un modo ora nell’altro, fino all’assurdo di indurlo a comportarsi come se tali fantasticherie fossero davvero reali: che è un po’ come dire che ciò che noi siamo è nella testa degli altri, che quello che ci viene attribuito è più consistente di ciò che abbiamo davvero. L’altra è quella narrativa, la logica paradossale ma spietata con cui Perutz sviluppa le conseguenze di un assunto tanto semplice quanto sorprendente, con la stessa sadica perversione che Cervantes usa nei confronti di Don Chisciotte per inguaiarlo nelle situazioni più improbabili. In fondo anche questa è la storia di una solitudine e di una rovina, di un cappio infilato intorno al collo, ulteriormente stretto da chi ti vorrebbe aiutare e magari allentato da chi sembrerebbe un nemico, di incontri mancati che avrebbero potuto dare una svolta, di una testarda iterazione dei propri errori, di una vita che ti sfugge rapidamente fra le mani negandoti poi quel che ti ha promesso allor per spingerti a muoverti, di un’evasione sospirata e chissà poi se davvero raggiunta. «Il giorno, ormai folle, lo aveva braccato, ora dopo ora, senza misericordia lo aveva sbattuto di qua e di là come un fragile guscio di noce». Lascio a voi scoprire se si è spezzato o ha resistito.
(finito il 29 giugno 2017)
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